Un antico rito: la barca di San Pietro

Nella notte tra il 28 e il 29 giugno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo, nelle montagne si celebra un rito molto particolare per capire come sarà il tempo ma anche come andrà il raccolto e il destino dei componenti della propria famiglia, è l’affascinante tradizione nota come la barca o veliero di San Pietro. E’ un’antica tradizione diffusa in tante parti del nostro Paese che, secondo alcune ricerche, sarebbe stata importata attorno al XVIII secolo dai monaci Benedettini. Una usanza che si serve di pochi ingredienti e materiali: un contenitore di vetro, una chiara d’uovo e la magia della notte di San Pietro e Paolo.

La tradizione montanara da sempre si serve di rituali alla cui base vi sono credenze popolari, leggende o storie di santi. Spesso si utilizzavano questi mezzi per capire come sarebbero state le condizioni meteorologiche, indicatore molto importante per il buon raccolto nei campi e dunque il sostentamento delle famiglie.

Ma come si fa la barca di San Pietro? L’usanza è quella di riempire d’acqua una caraffa o un contenitore simile di vetro trasparente (anticamente si usava un fiasco vuoto, di vetro trasparente e senza il rivestimento in paglia), per poi versarci il bianco dell’uovo e riporre il tutto fuori dalla finestra al chiaro di luna, oppure nel giardino o nell’orto, nella notte tra il 28 e il 29 giugno. La credenza vuole che San Pietro apostolo, in origine un pescatore, vada a soffiare all’interno dei contenitori facendo apparire una barca, e dimostrando così la sua vicinanza ai fedeli.

La barca di San Pietro

Intravedere la barca di albume però non basta. Il risultato va interpretato: i filamenti dell’albume si posizionano in modo variabile e, a seconda dell’aspetto del veliero, si dice che si possano avere premonizioni sul proprio futuro. A seconda dell’apertura delle vele, si potrà capire se sarà una stagione asciutta con tanto sole, al contrario invece con tante piogge. Inoltre, se le vele appaiono dispiegate i presagi per il raccolto saranno buoni, mentre se le vele appaiono ammainate si preannunciano eventi nefasti e uno scarso raccolto.

Il fenomeno ha un fondamento scientifico: è dovuto semplicemente alla diversa temperatura della notte (più fresca) che permette all’albume di rapprendersi formando il caratteristico veliero ma anche al fatto che l’albume ha una densità maggiore dell’acqua e tende ad affondare. Quando l’acqua fredda si riscalda grazie al calore che assorbe la brocca dalla terra o dal davanzale su cui è posizionata, tende a risalire portando con se anche l’albume e formando così le vele.

Ogni anno la chiara si posiziona in maniera differente e le persone sono intente ad interpretare i messaggi mandati da San Pietro. E ancora oggi tante famiglie tramandano la tradizione anche ai bambini asserendo che l’uovo più di una volta ha centrato le previsioni.

Gianni Cordola

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Alcune escursioni alla Punta Lunella nell’anno 1888

Punta Lunella montagna delle Alpi Graie che si trova lungo lo spartiacque tra la val di Susa e la valle di Viù in Piemonte.

CRONACA E DESCRIZIONE DI ALCUNE ESCURSIONI DEL CLUB ALPINO ITALIANO PUBBLICATE NEL VOLUME VII – ANNO 1888 DEL CAI RIVISTA MENSILE

Maggio 1888 – Punta Lunella m . 2772 – Escursione sociale della Sezione di Torino

La sera del 26 maggio partirono da Torino diretti a Condove i signori G. Carena, ing. Varvelli, conte Luigi Cibrario, Alberto Barrera , Ernesto Martini, L. Ferrero, F. Paganone, Emilio Fiorio e Cesare Fiorio.

Pernottarono a Condove al Caffè ristorante Nazionale, condotto da Montabone Delfino, e vi si trovarono bene per bontà di cucina, pulizia, cure premurose dei padroni e modicità dei prezzi. Il tempo era bellissimo e la luna risplendente in pieno con gran malcontento del socio Barrera, che non poteva far ammirare a suo piacimento l’effetto della lanterna tascabile da lui lungamente studiata (V. Rivista N. 4) e che è effettivamente una bella ed utile cosa, nonostante che egli abbia voluto portarla accesa tutto il tempo, colla persuasione di far concorrenza alla luna .

Fu scelta la via che risale il vallone del Gravio pel suo fianco sinistro, via gradevole, pittoresca, e che presenta ad ogni svolto un cambiamento di scena e panorami incantevoli. È la più varia e divertente fra le molte strade che conducono alla Lunella : per indicarla più precisamente, furono toccate le borgate di Mocchie (capoluogo) Gagnor, Campo dell’Alpe e Prato del Rio. Poi la colletta e gli alpi Gagnor, donde occorre discendere in fondo al torrente (Gravio) e risalire per pascoli a Pra Buret (m. 1776) ultime grange, ove appunto la comitiva giunse alle 6 e mezza, e fece una sosta. Da Pra Buret un sentiero che gira a sinistra il Roc del Preive conduce in poco più di un’ora al Gran Pian, ma questo era ancora completamente sotto la neve, sicché non si poté godere della famosa fontana che sorge nel mezzo del medesimo, e che è una fra le migliori delle Alpi per bontà e freschezza delle sue acque. Dal Gran Pian la comitiva raggiunse in mezz’ora, per pendii erbosi e nevosi , il Colle di Cruvin, e seguì poi tutta la cresta fino alla base della piramide. Stante l’epoca precoce, la cresta nevosa presentava in qualche punto, se non gravi difficoltà, per lo meno i caratteri di una vera ascensione. Fu percorsa quindi molto lentamente, ma con molta sicurezza, e non è poco se si calcola che la comitiva di 9 individui conteneva elementi novizi affatto all’alpinismo, non era diretta da guida alcuna, e vi arrivò tutta compatta, senza la solita dispersione delle comitive sociali, e malgrado il tempo, che si era completamente guastato. Fu pure compiuta assai bene la divertente scalata della piramide rocciosa, e poco dopo mezzogiorno tutti erano sulla vetta donde si sarebbe dovuto godere di uno dei panorami alpini più felici ed orridi.

Alle 2 pom. tra fitta nebbia e nevischio, si cominciò la discesa per altra via e con lunghissime scivolate da seduti giù pei canaloni, che, senza toccare il Gran Pian, precipitano quasi direttamente, si arrivò a Pra Buret. Ripreso il portatore che ivi si era lasciato (Col Battista di Petronilla da Condove, che sarebbe anche abile e da raccomandarsi come guida per la località) si seguitò la discesa per la strada che segue la costiera destra del vallone del Gravio, opposta cioè a quella del mattino. Quest’altra via, serpeggiante per le amene e verdi colline di Frassinere, è pure gradevolissima, non è più lunga di quella di Mocchie, e varia la via del ritorno, permettendo così di poter dire dell’ascensione della Lunella che è senza alcun dubbio una fra le più belle nei dintorni immediati di Torino.

Essa fu compiuta in 9 ore di salita e 4 e mezza di discesa, ma la salita potrà facilmente ridursi ad 8 ore ed anche a 7 e mezza. La sera alle 9, per la ferrovia di Val Susa, si rientrava in Torino.

La domenica seguente all’escursione sociale furono subito compiute altre due ascensioni della Lunella, che tende così a diventare una punta di moda, e che del resto ne avrebbe i requisiti. Daremo un cenno pure di queste perché eseguite per strade diverse.

Giugno 1888 – Punta Lunella m . 2772

Una comitiva composta del sig. dott. V. Demaison, dott. T. Bestente, dott. G. Pollovio e Francesco Paganone, partiva da Torino il 2 giugno alle 2,15 pom. col diretto per Bussoleno; e per Cianoc ed il vallone di Cruvin si recava a pernottare alle Grange, un’ora e mezza sopra la borgata Pavaglione ; ore 4 da Bussoleno. Il domani, pel ripido vallone di Cruvin, raggiungeva il colle omonimo dal versante opposto a quello dell’itinerario precedente, e poi, seguendo la cresta comune alle due vie, raggiungeva la vetta alle 12. Il ritorno fu pure compiuto per la strada di Frassinere, che scende a Condove. La via del vallone di Cruvin è più lunga di quella di Mocchie, richiede almeno 9 ore ed è assai meno bella; ha il vantaggio che per portarsi alla sua base si può profittare dei treni diretti che alla stazione di Bussoleno si fermano tutti.

L’altra comitiva, composta dell’avv. Corrà e dell’ing. Pagani col portatore Col di Condove, percorreva la strada di Borgone, Maffiotto, Tilivit, la più breve di tutte, perché deve richiedere circa mezz’ora meno di quella di Mocchie, di cui però è molto meno bella e più monotona. L’avv. Corrà ha dimostrato ancora una volta di essere il più fenomenale divoratore di strade alpestri, giacché compì la sua ascensione partendo da Torino col primo treno del giorno 3, e rientrando a Torino la sera stessa. Notisi che questo primo treno arriva a Borgone alle 7, e da questo punto vi sono 2400 m. di dislivello da superare e 7 ore e mezza effettive di salita ripida, ma l’avv. Corrà, presa la via dei monti , in 2 ore raggiunse la borgata Maffiotto (m. 1323) situata sul gran pendio che prospetta Val Dora, e, proseguendo per l’erto sentiero che ivi si diparte, toccò i Piani (m . 1900) ; più in su, lasciando a destra gli alpi Tilivit , percorse su una traccia di sentiero tutta la cresta delle rocce Tilivit, giunse al Colle Cruvin, seguitò la cresta spartiacque fra Dora e Stura comune agli altri itinerari, ed arrivato alla base della piramide rocciosa ne fece la scalata tutto solo giungendo in vetta alle 3; alle 3.10 ne ridiscendeva, e sulla cresta raccolti i compagni divallava precipitosamente tutto giù per le ripide chine rocciose e poi erbose dell’itinerario di Maffiotto ed alle 7 era a Borgone! Respirate lettori che vi sono ancora 3/4 d’ora prima che passi il treno, e d’altronde non ci siamo fermati che 40 minuti in tutto.

E chi si crede di aver buona gamba si provi a far altrettanto. Per conto nostro, conoscendo tutte le strade, se avessimo da dar un suggerimento, consiglieremmo a chi voglia salir questa vetta di seguire appieno l’itinerario primo, quello della comitiva sociale, cioè salita per Mocchie, discesa per Frassinere, che è il più bello ed il più vario dei percorsi. Tutt’al più, chi non vuol far tutta la tirata in un giorno, può recarsi a pernottare a Prato del Rio (m. 1363), ultima borgata da questo lato.

Luglio 1888 – Punta Lunella m. 2772.

Una comitiva composta dei signori Sciorelli, Brandt , Stevano , Grandis, Borani e Devalle partiva la sera del 7 luglio circa alle 9 e mezza da Condove per recarsi a pernottare ai casolari di Gagnor ad un’ora e mezza dal villaggio di Mocchie. Alle 3 antim. del giorno 8 , seguendo la stessa strada tenuta dalla comitiva sociale nell’escursione del 27 maggio giungeva alle 5 e mezza alle alpi di Pra Buret, trovando ospitalità cordiale presso quegli alpigiani. Continuava quindi pel Gran Pian , ed alle 9 e mezza circa giungeva presso la cresta, che percorse in tutta la sua lunghezza fino a raggiungere la piramide rocciosa che venne superata facilmente . Alle 11 antim. la comitiva si trovava sulla vetta , da cui poté ammirare in parte la stupenda veduta che di là si scopre.

Al ritorno, invece di seguire la via del mattino, scese alle alpi Tilivit, e di là al sottostante paese di Maffiotto, e quindi a Borgone, dove poco dopo prese il treno che la portava a Torino. Durante la notte, che era affatto priva di luna , la lanterna alpina Barrera diede ottimi risultati , e crediamo poterla raccomandare come quella che possiede tutti i requisiti che la rendono adatta allo scopo cui è destinata.

Agosto 1888 – Punta Lunella m. 2772.

I soci Mario Velasco e Luigi Ceresole (Sezione di Torino) unitamente al portatore Col Battista si recavano la sera del 4 agosto a pernottare nella borgata Bigliasco a due ore sopra Condove. La mattina del 5 alle 3 partivano diretti alla Punta Lunella; alle 6 erano alle alpi Pra Buret, alle 7 e mezza raggiungevano il Gran Pian ed alle 10 precise toccavano la punta. Disgraziatamente verso le ore 8 il cielo s’era coperto di dense nubi, che avevano poi avvolto le cime dei monti; e così, giunti sulla sommità della Lunella, nonché poter ammirare il bel panorama che si deve scorgere di lassù, a mala pena distinguevano le rocce a dieci metri al di sotto. Alle 10 e mezza essendosi dileguate alquanto le nebbie basse, si decisero a discendere, e, dopo essere calati per circa 30 metri per la strada che avevano fatto nella salita, appoggiarono a destra, e, scavalcata la cresta aguzza al di sopra della più alta cava di amianto , cominciarono una discesa difficile e faticosa pel versante di Usseglio , su macereti movibili, ed accompagnati da una fitta neve dura e gelata che il vento sbatteva furiosamente sulla faccia. Senza pericoli ed accidenti però alle 12 e 3/4 giunsero ad un altipiano coperto di neve , dove sono due piccoli laghetti. Quivi fecero breve sosta.

Ripresa quindi la discesa, alle 2 toccavano i casolari di Andriera, dove si ballava nonostante la pioggia, per festeggiare la Madonna della Neve; alle 2 e mezza raggiungevano Usseglio; indi proseguendo per la nuova e bella strada che si sta ora costruendo, toccavano Lemie alle 4 pom. Qui si fermo il Col Battista , e i due alpinisti ripresero la strada per Viù, dove giunsero alle 6 e mezza, ancora in tempo per salire sull’omnibus e fare ritorno la stessa sera a Torino.

Alcuni alpinisti verso la Lunella nel 1924
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Una tradizione tra passato e presente “la marenda sinòira”

Quello che oggi potrebbe sembrare un apericena, nella tradizione Condovese ma anche di tutto il Piemonte veniva definita “marenda sinòira”, e affonda le sue radici in un’epoca ormai lontana, in cui le giornate erano scandite dal ritmo del lavoro nei campi e dalle ore di luce, che man mano si affievolivano verso la fine della giornata.

Si tratta di un frugale pasto contadino consumato dopo una dura giornata di lavoro nei campi, tra il tardo pomeriggio e l’ora di cena. Si svolgeva all’aria aperta, nei cortili delle case o nei campi, magari all’ombra di una “tòpia”, cioè di un pergolato spesso ricoperto di vite.

Era un momento conviviale, campagnolo, che si svolgeva nei mesi primaverili ed estivi, aveva lo scopo di dare energia dopo i faticosi lavori del primo pomeriggio e prima di affrontare quelli serali legati alla terra e alla stalla che si protraevano sino al calar del buio.

“Sinòira” deriva da “sin-a” che in lingua piemontese significa per l’appunto cena. Un pasto povero e frugale, ma sostanzioso, per lo più composto da un po’ di pane casereccio, qualche pezzetto di formaggio, un salame, frutta e un buon fiasco di vino. Quanto bastava per riprendere il lavoro ancora per qualche ora e tornare a casa non troppo affamati per cena.

La cena, di conseguenza, era piuttosto leggera: pane e latte o minestra di verdura o panada (brodo con pane vecchio) ed eventualmente un pezzo di formaggio.

La definizione di merenda che appare sul Gran Dizionario Piemontese Italiano del cavaliere Vittorio di Sant’Albino del 1859 recita: “Il mangiare che si fa tra il desinare e la cena “San Giusep a pòrta la marenda ant ël fassolèt”, “San Michel a pòrta la marenda an cel” – L’usanza fra i contadini, concede la merenda soltanto da marzo San Giuseppe a fine settembre San Michele.

L’avvento di un maggiore benessere ha cambiato profondamente la vita nelle campagne piemontesi, ma la tradizione della “marenda sinòira” ha comunque resistito al passare del tempo, anche se in modo più sfumato e sempre meno legato ad una necessità di nutrirsi per continuare a lavorare. È diventata un momento conviviale da salvaguardare per recuperare gli antichi valori tradizionali e un modo per ritrovare ritmi più lenti e regalarsi un po’ di relax, occasione per riunirsi, parlare e stare in compagnia lontano dalle preoccupazioni quotidiane.

Gianni Cordola

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C’era una volta il pranzo all’aperto di Pasquetta

Sto pensando a come ho trascorso da ragazzino a Condove (anni cinquanta del secolo scorso) il giorno di Pasquetta. Se anche voi siete della mia generazione, non più giovani per intenderci, certamente vi ricorderete con una punta di nostalgia di quel lunedì dell’Angelo che era per noi il giorno della scampagnata. Già nel mattino le vie che conducevano su nei castagneti in vicinanza della centrale idroelettrica della Moncenisio e così le mulattiere che portavano alle borgate montane, si animavano di gente festante: uomini e donne, giovani e anziani: intere famiglie che arrancavano sui ripidi sentieri portando grosse borse e sporte ripiene.

E con il passar del tempo le mulattiere si affollavano sempre più assumendo quasi l’aspetto di un pellegrinaggio simile a quello della festa del Collombardo. Così quella marea di gente saliva verso la montagna, accampandosi sui prati che si affacciavano lungo il cammino in vicinanza delle fontane di acqua fresca o di ruscelli. Nasceva in questo modo la più spontanea e cara festa campestre dei Condovesi.

Nell’aria luminosa della primavera, si sentivano le voci festanti di bambini e adulti, c’era allora un’armonia, un modo diverso d’essere, che nasceva forse da una vicinanza, da un incontro, vorrei dire da uno spirito paesano. C’era una maggiore disponibilità ad apprezzare le cose semplici, dovuta forse al fatto che poche erano le possibilità offerte da quei tempi. Bastava sedersi sull’erba, davanti ad una ruvida tovaglia che offriva fette di pane scuro, un piatto di acciughe al verde, l’immancabile toma nostrana, salame, uova sode, qualche fetta di polenta e un fiasco di Avanà il vino rosso locale, per ritrovare poi l’allegria e un nuovo gusto per la vita. Era l’occasione più propizia per quella che oggi si direbbe un’abbuffata, tale da costringere ad allentare la cintura dei pantaloni ed a sonnecchiare sotto un albero dopo il pranzo.

Anni 50 del secolo scorso, la Pasquetta in famiglia – il ragazzino è l’autore dell’articolo Gianni Cordola

L’automobile, che avrebbe cambiato tante abitudini, era ancora agli albori della sua diffusione, e non si pensava ad essa. Non era ancora giunto il caotico fine settimana fatto di caselli, di code snervanti e di autostrade, di ristoranti, di piatti e bicchieri di plastica. La montagna, a due passi dal paese, era ancora aperta e pulita, e limpido il cielo e più chiaro il sole e più vero l’avvento delle stagioni. La scampagnata di Pasquetta era più di una tradizione: pareva divenuta un rito. Così la giornata passava fra giochi e divertimento, mentre i bambini trascorrevano il tempo divertendosi con giochi semplici, gli adulti trascorrevano il pomeriggio chiacchierando del più e del meno, all’ombra di qualche albero. Il tutto, tempo permettendo, perché come sempre, in questo giorno, il tempo è sempre un po’ bizzarro.

A volte, facendo il confronto tra passato e presente, mi chiedo che cosa ricorderanno dei loro tempi i giovani d’oggi. Certamente non la nostra scampagnata di Pasquetta. Essi non hanno vissuto quel momento; non perché non vollero, ma perché non lo trovarono. Fu certamente colpa dei tempi che, offrendo nuove possibilità, promisero migliori occasioni di svago, ma fu anche colpa dell’uomo che, frastornato da tante novità, credette di emanciparsi fuggendo dalla semplicità di molte tradizioni; pensò d’essere più libero chiudendosi in se stesso, più moderno rifuggendo da quello spirito paesano che ancora lo legava al passato, alla gente, alla terra.

Una curiosità: come si calcola la data di Pasqua? In base alle norme dei Concilio di Nicea del 325 in cui venne stabilito che la Pasqua doveva essere celebrata da tutta la cristianità la prima domenica dopo la luna piena seguente l’equinozio di primavera. Inoltre nel 525 si stabilì che la data doveva trovarsi fra il 22 marzo e il 25 aprile. Oggi la data si calcola scientificamente, sulla base dell’equinozio di primavera e della luna piena, utilizzando per il computo il meridiano di Gerusalemme, luogo della morte e risurrezione di Cristo. E’ da notare come la data della Pasqua ortodossa non coincida con quella cattolica, perché la Chiesa ortodossa utilizza per il calcolo il calendario giuliano, anziché quello gregoriano. Pertanto, la Pasqua ortodossa cade circa una settimana dopo quella cattolica.

Gianni Cordola

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Vivere senza rimpiangere il passato

A volte ripensare con nostalgia ai tempi che non appartengono più alla vita attuale può essere un dolce rifugio, un tuffo in un mondo nostalgico che conosciamo bene e che ci ha segnato nel profondo. I bei tempi sono di solito quelli in cui si era più giovani. Le scienze lo confermano: i ricordi dell’adolescenza e della giovinezza sono i più numerosi e più vividi. Inoltre la distanza sfuma gli avvenimenti, e mentre la lista dei ricordi negativi si accorcia, quella dei ricordi positivi nel tempo si allunga.

Da giovani si provano emozioni per la prima volta, quelle esperienze iniziali fissano una sorta di parametro di riferimento per quelle successive, questo porta a confrontare inavvertitamente esperienze attuali con esperienze precedenti, dimenticando in base a cosa hai valutato la prima volta. Da adulti è meno facile fare un’esperienza che ci lasci stupiti e ciò può condurci a pensare che le cose andassero meglio nel passato.

Ad esempio, ricordo la prima volta che partecipai ad una festa in casa di amici, è stato emozionante, pieno di sensazioni mai provate prima, oggi ripensandoci la ricordo come una cosa divertente, ma alla base del mio giudizio di allora non c’erano altre occasioni simili con cui confrontarla.

È importante sapere da dove si viene, tenere a mente la storia della propria famiglia, quella del luogo in cui si è cresciuti. Io ricordo tutto e sono sempre stato curioso delle vecchie storie mie e dei miei parenti. Mi ricordo quando d’inverno andavo a giocare nella neve, quanto freddo faceva, la temperatura spesso sotto zero. Ma a me non interessava, ero paonazzo, ma instancabile.

Quando ero un po’ più grandicello sui 16 anni le prime cotte, la ragazzina della compagnia che mi faceva battere forte il cuore, ma spesso non ero ricambiato. D’estate ci si trovava la sera in piazza del paese per chiacchierare, nessuno si lamentava per la maleducazione e soprattutto al più tardi alle 22,00 tutti a casa. Al giorno d’oggi i bambini non sanno più giocare, sono presi coi cellulari o con i videogiochi. I giovani fanno notte bevendo birra nei giardini, con comportamenti sguaiati disturbando le altre persone.

Perché rimpiangiamo così tanto i vecchi tempi? L’essere umano tende a idealizzare il passato e a rifiutare l’innovazione. L’ansia, soprattutto in un presente di incertezza, è comprensibile. Siamo abitudinari, il cambiamento ci inquieta. Ma vivere ancorati al passato è un modo per perdere di vista il presente. Quei ricordi nostalgici possono trasformarsi in una gabbia che ci allontana dal tempo presente anche se quella è stata l’epoca dell’entusiasmo per mille progetti stimolanti. È un po’ come scegliere la meta per le vacanze: se si è stati molto bene in un luogo, è normale desiderare di tornarci. Il giusto atteggiamento, quindi, è quello di far convivere sia la memoria per il passato sia la voglia di guardare al futuro.

Gianni Cordola

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La famiglia di una volta nella montagna Condovese

Tanto tempo fa, al Coindo e in tutte le borgate di Mocchie, prima del nascere dell’industria Società Anonima Bauchiero a Condove, la famiglia era composta da molti membri. Era costume che i figli maschi restassero tutta la vita all’interno della propria famiglia di origine mentre le donne, dopo il matrimonio, diventavano parte della famiglia del marito. In queste famiglie più generazioni vivevano insieme nella stessa casa, si partiva dai nonni ma a volte anche dai bisnonni e man mano i figli si sposavano generando altri figli (un minimo di quattro o cinque) la famiglia diveniva sempre più numerosa, ma tutti sottostavano all’autorità dei componenti più anziani che svolgevano dunque il ruolo di capifamiglia.

I maschi della famiglia e le donne più giovani che avevano l’età per lavorare si dedicavano ai lavori agricoli ed all’allevamento del bestiame per la sussistenza dell’intero nucleo famigliare. Le giornate iniziavano all’alba e terminavano a notte fonda, conoscevano bene l’alternarsi delle stagioni, ciò che preannunciava il temporale e quindi la necessità del darsi da fare, mentre capivano subito quando il tempo era favorevole, l’esperienza era condita dai proverbi e dai detti popolari. Si viveva di castagne, dei prodotti dell’orto, di una mucca, di qualche capra e del loro latte, della segala coltivata sulle fasce strette. Il bosco, certo: con la legna, i sentieri puliti come il letto dei torrenti e dei rii.

Le donne e uomini troppo anziani per lavorare nei campi si occupavano dell’orto, di piccoli lavori artigianali, della cura della casa e dei bambini raccontando loro storie e tramandando le usanze e tradizioni. A mezzogiorno rientravano in casa e tutti insieme prima di mangiare recitavano sempre una preghiera di ringraziamento. La preghiera e la religiosità rivestivano un ruolo molto importante nella famiglia di quei tempi. Anche alla sera quando terminava la giornata e tornavano dai campi e dalle varie attività si ritrovavano seduti attorno al camino. Ieri come oggi davanti al fuoco di un camino si lasciano fluire i pensieri e l’immaginazione alla viva fiamma della comunione e della condivisione. Intorno al camino c’era tutta la vita familiare: ci si scaldava, si cucinava, si recitava il rosario, si parlava, si ascoltavano le storie dei nonni, si raccontavano le fiabe ai bambini, c’era il passato, il presente e la speranza del futuro.

La ricchezza delle famiglie dipendeva dalle risorse possedute che recavano i profitti grazie alla loro vendita: poteva trattarsi dei frutti della terra, dei derivati del latte, di manufatti artigianali a seconda delle attività svolte. Ogni famiglia, anche la più povera, possedeva un campo per seminare patate, mais e segale, e un orticello dove coltivare fagioli, pomodori, carote, insalata e cicoria. Inoltre ogni famiglia possedeva un’estensione di prato più o meno vasta la cui erba serviva come foraggio per gli animali e sulla quale spesso crescevano spontaneamente alberi da frutto che in questo modo divenivano proprietà della famiglia.

Tutti questi prodotti erano a uso famigliare, ma qualche volta una parte di essi era venduta al mercato per ricavarne un piccolo profitto. Per poter vendere i prodotti, bisognava caricarseli in spalla nelle gerle e andare a piedi fino al mercato di Condove oppure a volte anche più lontano. Castagne e noci erano sfruttate maggiormente dai più poveri che avevano messo a punto metodi per poter conservare grandi accumuli di questi frutti senza che, col tempo, venissero assaliti dai vermi. La raccolta veniva fatta esclusivamente nel proprio terreno; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate. Per conservarle a lungo le castagne venivano messe a seccare nel solaio oppure essiccate all’interno delle abitazioni, utilizzando lo stesso focolare che serviva per cucinare i cibi e scaldare la casa.

Niente veniva buttato: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo diventando pane, polenta, castagnaccio, caldarroste, ecc. quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano per alimentare il fuoco, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle; i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi.

Con le noci invece quando non venivano anch’esse consumate come frutto, venivano utilizzate per ricavare olio con cui alimentare le lampade, a quel tempo non c’era ancora la corrente elettrica al Coindo.

Le famiglie di una volta vivevano nella semplicità di una società laboriosa, solidale e sostanzialmente buona ed onesta ma erano perennemente tormentate dalla fame e insidiate dall’arretratezza igienica, dalla scarsità di medicine, alla mercé di malattie che dilagavano e non concedevano scampo, che falciavano i bambini con le malattie infantili e la difterite, e distruggevano gli adulti con la polmonite.

Siamo portati a guardare al nostro passato con orgoglio, con soddisfazione, in qualche caso con nostalgia, ma non dobbiamo avere rimpianti. In quel tempo si aveva l’ansia di liberarsi da una condizione di miseria, dalla fame e da una vita dura e sacrificata. Quindi dobbiamo avere più fiducia nei tempi attuali ed essere felici del benessere generale delle famiglie d’oggi e delle molteplici possibilità e comodità della vita moderna, come pure della longevità che ci consente.

Gianni Cordola

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I profumi della montagna

Tutti noi conserviamo un ricordo profumato dei luoghi in cui siamo cresciuti, quella che comunemente viene definita come l’immagine olfattiva di un luogo o il paesaggio profumato. Quando mio padre viveva al Coindo, borgata di Condove (TO), gli bastava aprire la porta di casa per sentire quei profumi di montagna, ogni giorno diversi, ad avere la sensazione di un paesaggio che appare e scompare al solo gesto di aprire e chiudere la porta nel far entrare o uscire l’aria da una stanza. Lui dalla porta osservava il sorgere del sole e l’aria carica di una sottile foschia che pian piano si alzava verso il cielo e sentiva l’inconfondibile profumo di muschio bagnato dalla rugiada.

Chi vive in montagna sa che ogni stagione, ogni giorno, ogni momento tutto cambia, compreso i profumi, profumo di primavera, di sotto bosco, di faggio, di betulle, di muschio, di ramaglie ai bordi dei sentieri, di menta selvatica, di prati ricoperti di crocus e ciclamini. E poi il debole sottofondo di odore di mirtilli, quello della corteccia e del muschio che la ricopre, a tratti il profumo dei funghi e quello delle foglie morte. Anche la terra ha il suo odore, quello della terra arida molto diverso da quello della terra umida, siamo pervasi continuamente da profumi e odori, ma non riusciamo più a riconoscerli, siamo troppo distratti.

Nella borgata si respira l’odore del bestiame e del latte appena munto che poi viene sapientemente lavorato e trasformato dal margaro in formaggio o burro. Anche l’odore del fumo dal camino contribuisce a ricaricarti di energia e puoi ritrovare equilibrio, pace ed armonia. E d’inverno avete presente quell’odore, quel profumo, di neve e freddo? L’acqua ghiacciata non dovrebbe avere odore, il freddo ancora meno… eppure quando si torna a casa ci sono i vestiti che si portano dietro quello stesso profumo. È un odore che non so spiegare come sia, ma ti rimane addosso.

Per me l’odore dell’erba tagliata di fresco, di un prato fiorito di narcisi o l’odore dei boschi mi ricorda la gioventù. Quando lo ritrovo è sempre una gradevole sorpresa e cerco di inspirare più che posso per prolungarne al massimo la sensazione di benessere e di piacere. È vero.. i profumi sono sensazioni che non cambiano con il passare del tempo, spesso un ricordo lontano parte proprio da una sensazione olfattiva.

Prato con narcisi

La montagna coi suoi profumi non è fatica: è lenta conquista del benessere e trasmette un senso di totale pace e serenità. Quando ci vado mi sento libero e mi estraneo da tutto. Sono avvolto dal silenzio e se poi mi fermo a dormire non c’è emozione più grande dell’osservare al buio la volta celeste o ammirare l’alba dai mille profumi, colori e sfumature.

Se si potesse racchiudere il profumo della montagna in un barattolo lo farei, lo metterei lì, sulla libreria, insieme alle vecchie foto, lettere, monete ad altre cose che mi ricordano il passato. Sarebbe un rimedio per evadere dalla realtà, non quella abituale, ma quando sento il bisogno di dare luce alle ombre. Nostalgie, rimpianti o chissà che…


Gianni Cordola

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Gli inverni di una volta a Condove

Volendo fare un passo indietro, è inevitabile ricorrere ai primi anni ’50 del secolo scorso, periodo in cui ero bambino e gli inverni erano vissuti ben diversamente da quelli dei giorni nostri: allora nevicava veramente molto se raffrontato ai tempi attuali. L’arrivo dell’inverno con le giornate sempre più corte e fredde lasciavano prevedere l’arrivo ormai prossimo della neve. Le giornate corte costringevano chi non lavorava in fabbrica a passare molto tempo fra le mura domestiche, di solito riuniti nella cucina, l’unica stanza riscaldata della casa.

Gli inverni duravano almeno 4 mesi e la nevela fiòca” era spesso presente con quantità considerevoli. Se la nevicata era lunga e fitta non si faceva in tempo a spalare la neve caduta che occorreva ricominciare. Poi, qualche nevicata era così intensa da creare pericolo per il tetto della casa, che potesse cedere sotto il peso della neve. Ricordo che papà si faceva aiutare da qualcuno esperto a liberare il tetto dalla neve, almeno in parte. Era una operazione tutt’altro che facile.

A casa nostra nel borgo dei Fiori avevamo un catino che dovevamo riempire d’acqua per lavarci mani e faccia al mattino. Ma nella notte tutto gelava e bisognava rompere il sottile strato di ghiaccio che si era formato. Gli inverni erano rigidi, c’erano i candelotti di ghiaccio ai tetti e il freddo che si pativa era tanto, ma nonostante i disagi nessuno in famiglia faceva troppe storie e si cercava di trascorrere al meglio la giornata. Con la neve al mattino presto, la mamma usciva di casa col badile per aprire un viottolo e cospargeva i punti più gelati del passaggio con la cenere della stufa, un metodo per far sciogliere più in fretta il ghiaccio accumulato.

Ma andiamo alla prima nevicata, la sua venuta l’avevamo già intuita. Stormi di cornacchie già da qualche tempo gracchiavano contro al cielo e venti freddi avevano finito di spogliare gli alberi dalle ultime foglie. Il suo arrivo lo si poteva anche scorgere al mattino sui prati, resi bianchi e scintillati dal suo gelido vento, e il suo candido ed ampio mantello lo si poteva già vedere sulle cime dei monti circostanti.

Nella notte è nevicato parecchio, in paese sono caduti una quarantina di centimetri. Al mattino svolazzava solo qualche fiocco di neve e il sole s’intravedeva timidamente, e subito scompariva, come se si vergognasse di dover sciogliere quelle forme tanto perfette. Gli alberi erano tutti ricoperti da uno spesso strato nevoso, che ne piegava e incurvava i rami a tal punto da richiamare alla mente l’aspetto di tante facce tristi. Ciò che colpiva era però il silenzio, tutto intorno non una persona, non un cane; solo qualche cornacchia nera che gracchiava e il suono della sirena delle Officine Moncenisio, che avvisava le maestranze di recarsi in fabbrica, rompeva quell’evidente immobilità, quell’assenza assoluta di rumori.

Non c’era l’esigenza di liberare le strade con urgenza, poiché quasi tutti andavano a piedi, le automobili erano poche. Il traffico sulle vie principali, pur essendo scarso, doveva comunque essere agevole, e così le strade comunali venivano liberate dallo spartineve trainato da cavalli. Lo spartineve “ël leson” era una grande slitta di forma triangolare, composta di due assi ad angolo unite fra loro con una stanga, e attaccate al loro vertice a un mezzo di traino (cavalli, in seguito veicoli a motore), più recentemente spinte avanti da autoveicoli.


Al suo passaggio gli abitanti liberavano gli ingressi delle proprie case. Con gran fatica, riuscivano a tracciare una sorta di sentiero. Quanto tempo è passato … e vivevo la mia infanzia felice e spensierata. L’inverno era la stagione più bella per noi bambini di allora. Era il tempo di giocare sulla neve. La raccolta del muschio per la preparazione del presepe, l’assemblaggio della neve a pupazzo, le battaglie a palle di neve tra le contrade del paese. Erano tempi duri ma la gente era contenta e noi bambini abbiamo passato gli anni più belli della nostra vita. Era proprio così: ricordo che un anno i mucchi di neve accumulati dallo spartineve a lato delle strade erano così alti e la neve così compatta che noi bambini potevamo scavare delle piccole gallerie all’interno dei mucchi stessi.

Si passava sulla neve quanto più tempo possibile, con la benedizione dei genitori, ben lieti che ci si divertisse in modo sano, ma probabilmente anche contenti di essere alleggeriti per un po’ di ore dalla nostra (gradita, ma ingombrante) presenza in casa.

Come non ricordarsi il divertimento delle “sghijaròle”, scivolare su piste ghiacciate create da noi ragazzi lungo le strade. Favolosa ma anche un po’ pericolosa era quella lungo la discesa di via G. Francesco Re una strada lastricata con ciottoli e concava con scolo al centro che una volta ghiacciato diventava una pista velocissima. Peccato che la cosa durasse in genere poco, in quanto sgradita ai grandi di ogni categoria e sesso che, ritenendosi minacciati nella loro incolumità dallo strato di ghiaccio vivo che rapidamente si formava sul percorso (si potevano vedere delle sederate spettacolari di persone dignitosissime), ricorrevano a drastiche contromisure quali lo spargimento sulla pista di antidoti vari, come sabbia, sale, cenere o segatura. Col che la festa si poteva ritenere per il momento conclusa (fino alla prossima nevicata).

Le protezioni dal freddo erano in pratica inesistenti: i guanti erano di lana “le mofle” e le scarpe di cuoio “coram” queste, in inverno, venivano unte con il grasso e alle suole degli adulti c’erano sovente i chiodini “le brochëtte” per renderle meno scivolose.

Ho fatto tuffo nel passato, un passato più povero dell’attuale ma più ricco di sentimenti, profumi e tradizioni ricordando altri inverni, più lontani e certamente più rigidi di quelli che la gran parte di noi conoscono, il riferimento va al 1885 (anno della valanga a Maffiotto), al 1929, al 1948, al 1956, al 1973 e al 1985.

Gianni Cordola

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Il Trittico del Rocciamelone

Tutti i Piemontesi conoscono il Rocciamelone, una montagna delle Alpi Graie il cui nome ha origine antiche e misteriose, situato al confine con la Val di Susa e la Valle di Viù, questa montagna svetta con un’altezza di 3.538 metri. Si dice che il suo nome sia celtico: “Roc Maol” in questa lingua leggendaria “Maol” significa sommità (perché appare come la più alta montagna della zona).

La vetta del Rocciamelone

Nel medioevo vi furono diversi tentativi di salita alla vetta, compreso uno da parte dei monaci dell’abbazia di Novalesa che, si legge negli annali dell’Abbazia, vengono respinti da vento e grandine. Il 1° settembre 1358 Bonifacio Rotario (Roero) da Asti compì la prima scalata documentata di una vetta alpina, collocando un prezioso ex voto, il famoso Trittico in bronzo dorato (definito “altarolo portatile”), sulla cima del Rocciamelone, dentro un piccolo antro scavato nella roccia, oggi inglobato nel Rifugio Cappella, sotto la statua della Madonna. Un’impresa tentata una prima volta arrivando solo a 2854 metri. Qui stabilì un accampamento che gli consentì poi di salire in vetta. La località, in onore dell’origine di Rotario, venne chiamata Ca’ d’Asti e vi sorgeranno una Cappella e un Rifugio.

La vetta in una immagine del secolo scorso

Questa storica impresa ebbe fin da subito un’importante eco, soprattutto a livello devozionale, non solo presso gli strati più bassi della popolazione, ma anche ai livelli più alti. Nel 1418, infatti, a sessant’anni di distanza dalla salita di Bonifacio, il duca di Savoia Amedeo VIII “il pacifico” volle salire sulla vetta del Rocciamelone. La prima menzione dell’altarolo compare in una anonima silloge epigrafica scritta poco dopo il 1585, intitolata “Inscritioni dell’antiche pietre marmoree, che si trovano in diversi luoghi di Susa”. Il Trittico rimase sul Rocciamelone, nell’antro fatto scavare dallo stesso Bonifacio e mal riparato da una precaria costruzione in legno, fino al 1673 quando si verificò un curioso episodio.

Il 6 agosto 1673 un certo Giacomo Gagnor di Novaretto nella Valle di Susa, detto “Giacomo il matto” per la sua semplicità, vedendo che molte persone si portavano nel giorno della festa per devozione sulla vetta del Rocciamelone, prelevò il Trittico dalla vetta e si recò a Rivoli alla Corte del Duca Carlo Emanuele II che lì si trovava in villeggiatura. Ammesso alla presenza del Duca e interrogato dal sovrano sul motivo della sua richiesta, disse che sapeva del desiderio di S.A.R. di vedere la Madonna del Rocciamelone, e per non fargli fare la faticosa salita, gliela aveva portata perché potesse venerarla. Da un sacco prese il Trittico e lo consegnò al Duca, il quale con tutta la Corte restò meravigliato, la fece subito collocare sull’Altare Maggiore della Chiesa dei Padri Cappuccini.

Successivamente convocò l’arcivescovo di Torino, mons. Beggiamo, perché verificasse le motivazioni che avevano spinto Giacomo Gagnor a tale gesto e questi stabilì che le intenzioni dell’uomo di Novaretto non erano state malevoli; inoltre, alcuni testimoni furono chiamati a verificare che l’oggetto portato dal Gagnor fosse effettivamente il Trittico posto sulla vetta del Rocciamelone. Di queste attestazioni è rimasta memoria in un verbale, citato da don Felice Bertolo nella sua opera “La Madonna del Rocciamelone”. Non appena si era sparsa la notizia dell’arrivo del Trittico a Rivoli, molti pellegrini si erano recati a venerare l’icona, grazie anche all’indizione di una novena di preghiera da parte della sovrana.

Alcuni giorni dopo il furto, il 15 agosto 1673, il Duca Carlo Emanuele incaricò il suo cappellano privato con il cappellano di Madama Reale di riportare il Trittico a Susa e consegnarlo al governatore della Città, il quale a sua volta lo avrebbe restituito al curato di San Paolo, don Stefano Vayr. La restituzione avvenne effettivamente il giorno dopo, 16 agosto, alla presenza del governatore e di numerosi altri testimoni e fu sancita da un atto notarile.

Il Trittico prima del 1673 era regolarmente conservato sulla vetta del Rocciamelone e solo in qualche rara occasione era riportato a valle. A conferma dei fatti vengono anche le memorie inerenti le visite pastorali condotte presso la Chiesa parrocchiale di San Paolo di Susa, al cui parroco era affidata al cura del Trittico. Sia quella del 1612 che quella del 1643, infatti, non registrano all’interno della chiesa la presenza di quest’ultimo. La situazione appare diversa nel 1702. In quell’anno si stava provvedendo a riedificare la chiesa e all’interno del nuovo edificio era prevista la presenza di due altari laterali; di essi uno doveva essere dedicato alla Madonna del Rocciamelone e doveva contenere il Trittico che in quel periodo era custodito temporaneamente presso la chiesa abbaziale di San Giusto.

Il 10 maggio 1728 l’Abate Vittorio Amedeo Biandrate di San Giorgio visitando la chiesa vide nella sacrestia, il Trittico del Rocciamelone, e seppe che era tradizione che venisse portato dal 5 al 24 agosto presso la cappella sulla cima del monte e lasciato alla pubblica venerazione con grande afflusso di fedeli.

Proprio in considerazione della grande devozione attirata dalla sacra immagine, l’abate diede ordine di non portare più il Trittico sulla vetta nei giorni della festa, ma di collocarlo in una nicchia che il curato di San Paolo avrebbe dovuto far costruire nella cappella dedicata alla Madonna del Rocciamelone. Tale disposizione fu però disattesa poiché ancora nel 1751, in occasione della propria visita pastorale alla chiesa abbaziale di San Giusto, dove l’icona era stata trasferita a causa della soppressione di quella di San Paolo, l’Abate Pietro Caissotti di Chiusano registrava che il Trittico, posto sopra l’altare delle reliquie, veniva portato sulla vetta del Rocciamelone il cinque agosto di ogni anno e lì veniva lasciato esposto alla pubblica venerazione per quindici giorni consecutivi. Segno, questo, di una devozione fortemente radicata verso l’antica icona e del forte legame della popolazione, non solo locale, con una pratica di fede che affondava le proprie radici lontano nei secoli e che ancora oggi si tramanda.

Il Trittico

Il Trittico rimase nella Cattedrale di San Giusto a Susa (Altare delle Reliquie) fino all’anno 2000 quando venne collocato nel Museo Diocesano di Arte Sacra della città situato nella chiesa della Madonna del Ponte. Esso si compone di tre parti, le due lastre laterali, incernierate, possono chiudersi come sportelli, proteggere l’interno decorato e rendere più comodo il trasporto. La tavola centrale raffigura la Vergine Madre seduta su ampio trono a cassapanca, col capo cinto da un’alta corona regale e in atto di sostenere con le braccia il Bambino Gesù; questi guarda verso la Madre, cui accarezza il mento con la manina destra, mentre con la sinistra regge una piccola sfera che simboleggia il mondo. Madre e Figlio hanno il capo circondato dall’aureola. Nell’anta collocata a sinistra di chi guarda si vede S. Giorgio a cavallo avvolto in un’armatura a maglie metalliche, la visiera dell’elmo calata sugli occhi, che con una lunga lancia trafigge nella gola il drago infernale che, riverso, è calpestato da uno zoccolo del cavallo. Sull’anta di destra sta ritto un santo barbuto, coi capelli scarmigliati e con aureola, probabilmente S. Giovanni Battista, Patrono dei Cavalieri detti anticamente di Gerusalemme, che presenta alla Madonna, ponendogli le mani sulle spalle, un guerriero inginocchiato, con le mani giunte in atto di supplica.

Gianni Cordola

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Le botteghe di una volta

Non sono di buona memoria ma mi piace pensare di essere un aiuto nel ricordo delle botteghe, che ai tempi furono per molti anni, un vero e proprio presidio del territorio, fiorente attività, nonché punto di riferimento per le famiglie di contadini e montanari di tutto il paese.

Negli anni cinquanta del secolo scorso, a Condove la vita si svolgeva principalmente all’interno del paese, dove ci si conosceva tutti, tanto che molte famiglie venivano identificate con soprannomi spesse volte stravaganti, legati a caratteristiche somatiche o comportamentali del capostipite. Attorno alla piazza e nelle vie adiacenti c’erano il Comune, le scuole, l’asilo, l’ufficio postale, la Cassa di Risparmio, la Chiesa, il cinema e tante botteghe: la ferramenta di Alpe, il tabacchino delle sorelle Della Valle, la cartoleria, l’alleanza cooperativa torinese, le macellerie di Chiariglione e Benetto, la panetteria di Votta, il calzolaio, il barbiere, la merceria, la farmacia e poi tante osterie e la Bocciofila.

Nelle botteghe alimentari i prodotti in vendita non erano confezionati bensì si vendevano sfusi. Si vendeva di tutto un po’, poco ma di tutto. Si poteva acquistare al dettaglio: due etti d’olio di semi (era contenuto in fusti e al momento della vendita veniva versato nella bottiglia di vetro portata dal cliente) , quattro acciughe, un cavolo, due etti di pastina per la minestra o un chilo di riso, una bottiglia di candeggina, un sapone di Marsiglia, un pacchetto di olandese (surrogato per scurire il caffè fatto in casseruola), mezzo chilo di zucchero avvolto nella carta blu; o prendere dal mastello le mele ruggine o le mele in composta. La pasta era contenuta in cassetti e quando un cliente la voleva comprare il bottegaio la pesava e la incartava in un foglio dal tipico colore giallo ocra. Il droghiere è un po’ farmacista, per questo si potevano anche acquistare dei fiori di tiglio, malva, camomilla, chiodi di garofano, pepe, miele e altre erbe e spezie. Anche le caramelle non mancavano: mentine o pasticche (liquirizia e fiori di acacia) erano sempre sul bancone, per la gioia dei bambini. C’era il bottegaio più economico, quello che vendeva a “bon pat” (a buon mercato) ed anche quello che faceva “bon pèis” (buon peso) e quello che “at ciolava al pèis” (ti fregava al peso).

Man mano che si aprivano le porte, si sentiva l’odore del cuoio modellato da maestri calzolai, l’odore di mortadella e di salumi vari, di tome e burro. Sentiamo l’odore del legno e delle vernici nella bottega del falegname. Sentiamo nel negozio di ferramenta l’odore di petrolio, che serviva ad alimentare quelle vere e proprie opere d’arte che erano i lumi a petrolio, ancora molto in uso nelle borgate di montagna e negli alpeggi per l’illuminazione delle case.

Le botteghe rappresentavano il momento di incontro quotidiano dove risuonava solo il dialetto, due chiacchiere, uno scambio di informazione o, meglio, un aggiornamento su quanto era accaduto nei dintorni, una o più tappe obbligate nel percorso della giornata. Erano dei veri e propri centri da cui si apprendevano, e diramavano, notizie su fatti e persone del paese e dove, se fossero passati stranieri o, meglio,“forestieri” (appellativo con cui i Condovesi definivano tutti gli sconosciuti provenienti da altri paesi) non sarebbero, di certo, passati inosservati.

Le botteghe erano, inoltre, luoghi di confidenze, che vanno ben oltre il semplice pettegolezzo, che spaziavano dai consigli su cosa cucinare a pranzo e cena fino a spingersi su terreni più ampie complessi come il suggerimento di ingredienti, qui siamo al confine con l’alchimia e la magia, con cui curare i malanni o ritrovare la felicità. Il bottegaio diventava, così,un vero e proprio confidente da cui ci si attendeva molto più che la vendita di prodotti.

E chi entrava in bottega, lo faceva anche per scambiare “quattro chiacchiere” con un amico oppure con un conoscente, c’era il cliente che comprava sempre lo stesso tipo di formaggio, la massaia che amava farsi consigliare sempre e solo dal negoziante dalla battuta sempre pronta. I titolari delle botteghe di una volta conoscevano a memoria le abitudini alimentari delle famiglie del paese che frequentavano quotidianamente il loro negozio da anni. Si viveva per davvero, a quei tempi, in una grande famiglia allargata.

Una quotidianità più semplice e, senza dubbio, meno pretenziosa di quella attuale, in cui le relazioni umane rivestivano ancora un ruolo importante, fondamentale. Perfino con i negozianti si tendeva ad instaurare un rapporto sincero, di fiducia reciproca, che sottendeva la certezza di un buon acquisto.

Poi, come dice l’antico proverbio, il pesce grande mangia quello più piccolo, e la magia è svanita in una nuvola di bolle, l’espandersi di super e ipermercati hanno quasi cancellato questo tipo di negozi così accoglienti e famigliari.

Gianni Cordola

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