Aspetti di vita Condovese

NB – I termini in corsivo virgoléttato sono in lingua Piemontese

La piazza di Condove sul finire degli anni 30 del secolo scorso

Siamo a Condove, sul finire degli anni 30 del secolo scorso, e precisamente per le vie del commercio: “l’ala granda” la tettoia per il mercato dei coltivatori, la via Cesare Battisti, via degli Orti e “la piassa granda” la grande piazza Vittorio Emanuele II (l’attuale piazza Martiri della Libertà) stipate di popolo. A quei tempi una moltitudine di persone scendeva dalla montagna il mercoledì, giorno di mercato, a vendere i prodotti agro-pastorali delle loro terre (tome, burro, patate, uova, castagne, segale, ecc.) e si univa ai contadini provenienti dai paesi vicini ed ai mediatori di ogni genere. La folla si pigiava, si urtava, andava sgomitando, cumuli di mercanzia di ogni genere e di ogni specie stesa al suolo come in una grande fiera. Si trovava di tutto “dle brajëtte, dij cotin, dij sòco, dle tomatiche, dle tome, dël bur, dij polastr, dij colomb, dle quaje, dij arnèis ëd cusin-a, dle tràpole për ij giari e tuta sòrt ëd ròba”. E la folla di donne, di serve, di contadini, estasiata si muoveva lentamente, sostava davanti alle merci, attratta anche dagli inviti dei venditori: “Ch’a ven-a avanti madamin, bela ròba a bon pat” , “ Veul caté monsù?”, “Ij pì bej e pì gròss euv ch’i l’eve mai pijà”, “Le pì bele e bon-e trìfole ‘d Mòce”, “Bele tòte vardé ij cotin”. La visita al mercato, la vetrina più vasta del paese era nelle abitudini di molti: chi andava, per vendere, chi per comprare e chi per fare una passeggiata vagabonda. Attorno alla piazza e nelle vie adiacenti c’erano la farmacia, l’albergo del Gallo, la Tampa e diverse botteghe “negòssi”: il tabacchino delle sorelle Della Valle, generi alimentari di Manelli, la cooperativa, la “cavagnera”, la merceria e vicino al tabacchino il chiosco dei giornali. “Ij maslé” macellai erano due Chiariglione e Benetto, “ël panaté” Votta Candido era vicino alla tettoia del mercato. L’ufficio postale era in piazza Bugnone. I montanari dopo aver terminato i loro negozi, con parte del ricavato, si rifornivano di quanto loro occorreva per tutta la settimana. Nelle botteghe la vendita al minuto di prodotti alimentari e non, era prevalentemente al mattino e al pomeriggio, la serata era dedicata all’ordine del magazzino, aggiustare la merce nei cassoni, rifornimento degli scaffali incompleti di merce e pulizia locale. Si vendeva ogni genere di cose, poco, ma di tutto.

Condove - anno 1940 - Piazza Vittorio Emanuele II - Il mercato

Condove – anno 1940 – Piazza Vittorio Emanuele II – Il mercato

Vendita di quantitativi minimi anche per i generi alimentari e di condimento: un etto di “euli ‘d grumele” olio di semi, mezzo etto di conserva di pomodoro, “doe anciove” acciughe per condire l’insalata, “la salada ‘d còj”, due dadi Liebig per fare il brodo, un etto e mezzo di “bombonin” (tipo di pastina alimentare per minestrine). Erano tempi di magra per tutti, ma pochi nella montagna di Condove, Mocchie e Frassinere sfuggivano alla dura condizione della vera povertà. Nelle botteghe di allora non erano in uso, od erano rarissime, le confezioni di detersivi. Si vendevano soda e lisciva sfuse, bianca o gialla, pomice macinata, bottiglie di “conegrin-a” candeggina, sapone di Marsiglia od altri tipi di sapone comune. La pasta alimentare, il riso, la farina da polenta, si vendevano ad ettogrammi. Lo stesso dicasi per i legumi: “faseuj” fagioli di ogni qualità, “lentìe” lenticchie, ceci, “pòis” piselli, fave secche e castagne. Le farine di grano, di ceci, di castagne, si vendevano sfuse. Il caffè, se ne vendeva poco sfuso ed esclusivamente da macinare, in alternativa il pacchetto di cicoria (surrogato del caffè una volta in auge) da mescolare alla poca polvere di caffè vero. E poi c’era il pacchetto di “olandese” per fare il caffè nero nella casseruola. C’era chi andava abitualmente a comprare ogni sera un quinto di litro di petrolio, oppure una candela stearica, del tipo corto, a volte un pezzo di “bambas” (stoppino da lanterna) da sostituire nel lume a petrolio. Frutta secca, anche questa si vendeva per lo più sfusa a peso. “Bërgne” prugne, “fì” fichi, “nos” noci, uva passa, pinoli, ”màndole” mandorle, “ninsòle” nocciole, “bagigie ò giaponèise” arachidi tostate, qualche volta le arance “ij portugaj”; i generi erano moltissimi ed il consumo notevole. Lo zucchero “sùcher” arrivava dai depositi in sacchi di tela di iuta da 50 chili, ed era venduto sfuso nella classica carta da zucchero di colore blu. Questa carta veniva spesso riutilizzata per fare impacchi medicamentosi su varie parti del corpo. Anche i dolciumi non mancavano: caramelle, “bërle ‘d rat ò boton da prèive, sùcher d’òrdi” (zucchero d’orzo). Vicino alla porta, nella stagione giusta, si poteva trovare un mastello “sëbber” pieno di “pom rusnent o pom an compòsta”, mele un po’ acidule, ma di buon sapore, appetitose. In bottega si vendevano anche candele di sego, allume di rocca, solfati di rame e tanti altri prodotti per le infinite bisogna della vita famigliare e delle varie attività. Non dimentichiamo che il droghiere in passato era un po’ “spëssiari” speziale ed erborista, quindi si poteva acquistare fiori di “tij” tiglio, malva, “canamìa” camomilla, semi di anice, cannella, “ciò ‘d garòfo” chiodi di garofano, “pèiver” pepe bianco e nero, “amel” miele e tante altre erbe o spezie in uso a quel tempo. Oggi i prodotti sono confezionati in tanti modi, in pacchi, bustine, flaconi sotto nomi commerciali diversi, quelli che sono reclamizzati fino alla noia sui giornali, dalla radio e dalla televisione, niente viene venduto sfuso. Prima del ritorno alle borgate il montanaro sostava “a l’òsto dij Fiorì” all’Osteria dei Fiori per farsi un “quartin” di quello buono e fumare “na sigala” in compagnia e qualche volta risalendo la mulattiera passava dal “fré” fabbro Col alle Fucine ad acquistare attrezzi per i lavori agricoli quali zappe, vanghe, falci, roncole, accette, ecc.

Il mercato

Il mercato

Le condizioni di vita, già difficili sul finire degli anni 30, con lo scoppio della guerra peggiorano ulteriormente. Gli uomini validi partono per i vari fronti , a casa rimangono donne, vecchi , ragazzi e bambini. Le abitudini alimentari cambiano in applicazione della legge sul razionamento dei consumi, approvata il 6 maggio 1940, la distribuzione dei generi alimentari di più largo consumo è effettuata esclusivamente attraverso la carta annonaria. Ben presto per tutti arriva la “tessera”, un cartoncino grigio, con un numero, il nome e tanti piccoli tagliandi a ognuno dei quali corrisponde una certa quantità di pasta, riso, olio, burro, zucchero.

cerchio

La festa patronale di Condove

Essere condovesi è una bellissima emozione che non puoi e non vuoi scrollarti di dosso. Certo, qualche volta puoi lasciare il paese, salutare la piazza, dire addio agli amici, recarti nelle città vicine per lavorare ma Condove non puoi non portartela nel cuore. Più dei vicoli, più dei bar, più della bocio e della piazza, quello che non lascerà mai la mente di un vero paesano nato negli anni 40/50 del secolo scorso è il ricordo di come una volta si festeggiava il giorno del santo patrono.

L’atmosfera di festa si apprezzava fin dal momento del risveglio con una sensazione quasi fisica. Il clima era estivo (la festa si celebra per antica tradizione nella domenica più prossima al 27 luglio, giorno di San Pietro in Vincoli, patrono di Condove). Il sole era caldo ma l’aria era fine, soprattutto di primo mattino, come di regola in Valsusa. Io giocavo sotto la tavola nella cucina di casa mentre mio padre e mia madre, tutti vestiti a pennello per la festa agghindavano i mie fratelli, da lontano si sentiva un suono che si avvicinava a poco a poco: era la Banda musicale che stava girando per le vie e i borghi di Condove ad allietare il dì di festa. La musica era vita per il paese e nessuno era indifferente al fascino di questo suono. Nei giorni della festa patronale la banda musicale girava di strada in strada anzi da cortile a cortile a suonare e la gente faceva donazioni oltre ad offrire paste e da bere. Dopo qualche ora passata a suonare e bere sotto il sole la banda cominciava a essere decimata, ad ogni fermata vi era un caduto che non si reggeva più sulle gambe.

All’ora stabilita poco tempo prima della messa solenne iniziava il suono delle campane. La gente sciamava ormai verso la chiesa; quasi tutte le donne del paese, le bambine e alcune villeggianti. Anche gli uomini erano presenti in gran numero ostentando un aspetto rigido, festivo appunto, quasi fossero ingessati nell’abito buono. Al termine della funzione religiosa, giunti a casa si trovava la tavola già imbandita, preparata da chi aveva assolto il precetto festivo alla prima messa, la celebrazione liturgica del primo mattino (allora non si parlava ancora di messa prefestiva introdotta da Papa Pio XII nel 1953 perché questa possibilità non era stata recepita immediatamente in tutte le parrocchie). I cibi erano pronti e già se ne apprezzava il piacevole preludio olfattivo. Quanto ai beveraggi, il vino veniva recuperato dalla cantina e l’acqua era quella fresca della fontana.

Nei giorni precedenti già girava una voce: son tornati i baracconi! Con questa esclamazione pronunciata quasi con un grido, ci si aggiornava e ci si informava tra ragazzi quando si veniva a conoscenza dell’arrivo di questa carovana del divertimento. I baracconi , per noi condovesi e forse anche per i ragazzi di altri paesi, non erano altro che le giostre o, per dirla coi termini d’oggi il Luna Park. Quest’ultima espressione mai è stata nostra, condovese intendo; con quest’ultima definizione si toglierebbe ai baracconi l’anima, l’emozione racchiusa nella semplice espressione locale. Per i ragazzi condovesi (quelli delle vecchie generazioni intendo) le giostre sono e resteranno sempre definite baracconi o, per dirla in piemontese “ij baracon”. Questi animavano la nostra centrale Piazza Martiri con i loro divertimenti, in una bolgia incredibile e con decine di motivi musicali in simultanea.

Sicuramente oggi il numero di attrazioni è maggiore rispetto a quello delle giostre che animavano allora il centro cittadino; c’era l’autoscontro, la giostra coi seggiolini volanti, le gabbie, quella dei cavalli per i più piccoli, il tiro a segno, il tiro alla foto, il tiro di palle ai barattoli, quella dove vincevi i pesciolini rossi lanciando delle palline e il pungiball dove i giovani si sfidavano per far colpo sulle ragazze.

pungiball

pungiball

La parrocchia allestiva per l’occasione il banco di beneficenza e immancabilmente c’era il ballo al palchetto oltre al chiosco dello zucchero filato ed il banco dei torroni e croccanti.

Le giornate di sole di luglio, presso le giostre, riservavano mille sorprese. I baracconi erano belli in qualunque maniera, sia che si andasse sulle giostre, sia godendo del divertimento di chi aveva qualche lira in più e si poteva permettere di girare ancora, quando altri avevano già finito le scorte. I ragazzi erano sollecitati dalla presenza costante di decine di ragazze che subivano, anche più dei maschietti, il fascino ed il richiamo delle musiche, dei colori, del frastuono e del divertimento di questa carovana itinerante.

Ragazze di ogni ceto sociale, da sole o con mamma e papà, affollavano, in relazione all’età, la giostra preferita. Certe sbarbine, che fino all’anno prima gustavano cavalcare un destriero sulla giostra dei bambini, quella con magnifici cavalli bianchi che oscillavano appesi a pali cromati dai riflessi d’oro, improvvisamente sentivano un’attrazione irresistibile per la giostra con i seggiolini agganciati alle catene che ruotavano ad una certa velocità e godevano in maniera inverosimile nel farsi dare vivaci spinte, in genere dal maschio di turno, per andare sempre più in alto, alla ricerca e alla conquista del magico fiocco che regalava loro un giro supplementare sulla giostra stessa.

Giostra dei seggiolini volanti

Giostra dei seggiolini volanti

Durante gli anni 40 e 50 le ragazze non avevano ancora l’abitudine di indossare i pantaloni e quindi per tutti gli astanti lo spettacolo, oltre a quello più complessivo delle giostre, era assicurato. Poco importava se nella foga del lancio una gonna saliva troppo oppure una mutandina faceva capolino per una frazione di secondo. Erano troppo acute e vive le emozioni e le sensazioni che il vorticoso andare della giostra trasmetteva loro, per dover prendere in considerazione quei piccoli, insignificanti particolari. Se poi i ragazzi si riempivano gli occhi di celestiali visioni buon per loro. Forse andavano ai baracconi esattamente con quel proposito.

Autoscontro

Autoscontro

Dopo i seggiolini volanti noi ragazzi ci scatenavamo sull’autoscontro dove il divertimento era scontrarsi con le vetturette guidate da ragazze. L’idea delle ragazze, e delle femmine in generale, occupava già la parte predominante del cervello, nascevano forse proprio lì, ai baracconi, i primi amori giovanili fatti più di sogni e sensazioni che di cose reali.

Per i più grandi l’attrazione migliore era il ballo al palchetto dove alcuni elementi della banda musicale intrattenevano gli astanti a suon di valzer mazurke tanghi e polke. La musica e i balli attiravano tutti gli abitanti del luogo e i giovani accorrevano anche dai paesi vicini per corteggiare le ragazze locali. Ma col passare delle ore e dopo abbondanti libagioni i giovani del posto che non gradivano questa invasione al grido di “domje a-j forësté” (diamogli ai forestieri) rincorrevano gli avversari che lesti come leprotti correvano per le strade e tornavano alle loro case.

Una volta non esistevano solo i festeggiamenti del Santo ma si cercava di prolungare questo senso di “condovesità” che veniva coltivata durante tutto l’anno con spettacoli e tanti appuntamenti. Mi vengono in mente bellissime serate alla bocciofila o alla Festa dell’Unità, i tornei di bocce, il bello di Condove era quello di essere un piccolo paese dove tutti conoscevano tutti.

Oggi mi sembra di non riconoscere più il paese della mia giovinezza che rievoco con una punta di malinconia: «E’ tanto che non vivo più a Condove ma spesso torno per venire a trovare i miei fratelli e ogni volta mi viene il “magone”. Ad esempio sono venuto la scorsa settimana e mi è sembrato un paese pieno di auto si ma vuoto, nessun gruppo di ragazzini ne capannelli di persone quasi nessuno a passeggio di pomeriggio. Fa male pensarci ma di certo è un fenomeno che si verifica in tutti i paesi». Direi che più di ogni altra cosa sono andati perduti i personaggi, quelli che aggregavano e che erano immediatamente riconoscibili.

Gianni Cordola (Novembre 2013)

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