Gli inverni di una volta a Condove

Volendo fare un passo indietro, è inevitabile ricorrere ai primi anni ’50 del secolo scorso, periodo in cui ero bambino e gli inverni erano vissuti ben diversamente da quelli dei giorni nostri: allora nevicava veramente molto se raffrontato ai tempi attuali. L’arrivo dell’inverno con le giornate sempre più corte e fredde lasciavano prevedere l’arrivo ormai prossimo della neve. Le giornate corte costringevano chi non lavorava in fabbrica a passare molto tempo fra le mura domestiche, di solito riuniti nella cucina, l’unica stanza riscaldata della casa.

Gli inverni duravano almeno 4 mesi e la nevela fiòca” era spesso presente con quantità considerevoli. Se la nevicata era lunga e fitta non si faceva in tempo a spalare la neve caduta che occorreva ricominciare. Poi, qualche nevicata era così intensa da creare pericolo per il tetto della casa, che potesse cedere sotto il peso della neve. Ricordo che papà si faceva aiutare da qualcuno esperto a liberare il tetto dalla neve, almeno in parte. Era una operazione tutt’altro che facile.

A casa nostra nel borgo dei Fiori avevamo un catino che dovevamo riempire d’acqua per lavarci mani e faccia al mattino. Ma nella notte tutto gelava e bisognava rompere il sottile strato di ghiaccio che si era formato. Gli inverni erano rigidi, c’erano i candelotti di ghiaccio ai tetti e il freddo che si pativa era tanto, ma nonostante i disagi nessuno in famiglia faceva troppe storie e si cercava di trascorrere al meglio la giornata. Con la neve al mattino presto, la mamma usciva di casa col badile per aprire un viottolo e cospargeva i punti più gelati del passaggio con la cenere della stufa, un metodo per far sciogliere più in fretta il ghiaccio accumulato.

Ma andiamo alla prima nevicata, la sua venuta l’avevamo già intuita. Stormi di cornacchie già da qualche tempo gracchiavano contro al cielo e venti freddi avevano finito di spogliare gli alberi dalle ultime foglie. Il suo arrivo lo si poteva anche scorgere al mattino sui prati, resi bianchi e scintillati dal suo gelido vento, e il suo candido ed ampio mantello lo si poteva già vedere sulle cime dei monti circostanti.

Nella notte è nevicato parecchio, in paese sono caduti una quarantina di centimetri. Al mattino svolazzava solo qualche fiocco di neve e il sole s’intravedeva timidamente, e subito scompariva, come se si vergognasse di dover sciogliere quelle forme tanto perfette. Gli alberi erano tutti ricoperti da uno spesso strato nevoso, che ne piegava e incurvava i rami a tal punto da richiamare alla mente l’aspetto di tante facce tristi. Ciò che colpiva era però il silenzio, tutto intorno non una persona, non un cane; solo qualche cornacchia nera che gracchiava e il suono della sirena delle Officine Moncenisio, che avvisava le maestranze di recarsi in fabbrica, rompeva quell’evidente immobilità, quell’assenza assoluta di rumori.

Non c’era l’esigenza di liberare le strade con urgenza, poiché quasi tutti andavano a piedi, le automobili erano poche. Il traffico sulle vie principali, pur essendo scarso, doveva comunque essere agevole, e così le strade comunali venivano liberate dallo spartineve trainato da cavalli. Lo spartineve “ël leson” era una grande slitta di forma triangolare, composta di due assi ad angolo unite fra loro con una stanga, e attaccate al loro vertice a un mezzo di traino (cavalli, in seguito veicoli a motore), più recentemente spinte avanti da autoveicoli.


Al suo passaggio gli abitanti liberavano gli ingressi delle proprie case. Con gran fatica, riuscivano a tracciare una sorta di sentiero. Quanto tempo è passato … e vivevo la mia infanzia felice e spensierata. L’inverno era la stagione più bella per noi bambini di allora. Era il tempo di giocare sulla neve. La raccolta del muschio per la preparazione del presepe, l’assemblaggio della neve a pupazzo, le battaglie a palle di neve tra le contrade del paese. Erano tempi duri ma la gente era contenta e noi bambini abbiamo passato gli anni più belli della nostra vita. Era proprio così: ricordo che un anno i mucchi di neve accumulati dallo spartineve a lato delle strade erano così alti e la neve così compatta che noi bambini potevamo scavare delle piccole gallerie all’interno dei mucchi stessi.

Si passava sulla neve quanto più tempo possibile, con la benedizione dei genitori, ben lieti che ci si divertisse in modo sano, ma probabilmente anche contenti di essere alleggeriti per un po’ di ore dalla nostra (gradita, ma ingombrante) presenza in casa.

Come non ricordarsi il divertimento delle “sghijaròle”, scivolare su piste ghiacciate create da noi ragazzi lungo le strade. Favolosa ma anche un po’ pericolosa era quella lungo la discesa di via G. Francesco Re una strada lastricata con ciottoli e concava con scolo al centro che una volta ghiacciato diventava una pista velocissima. Peccato che la cosa durasse in genere poco, in quanto sgradita ai grandi di ogni categoria e sesso che, ritenendosi minacciati nella loro incolumità dallo strato di ghiaccio vivo che rapidamente si formava sul percorso (si potevano vedere delle sederate spettacolari di persone dignitosissime), ricorrevano a drastiche contromisure quali lo spargimento sulla pista di antidoti vari, come sabbia, sale, cenere o segatura. Col che la festa si poteva ritenere per il momento conclusa (fino alla prossima nevicata).

Le protezioni dal freddo erano in pratica inesistenti: i guanti erano di lana “le mofle” e le scarpe di cuoio “coram” queste, in inverno, venivano unte con il grasso e alle suole degli adulti c’erano sovente i chiodini “le brochëtte” per renderle meno scivolose.

Ho fatto tuffo nel passato, un passato più povero dell’attuale ma più ricco di sentimenti, profumi e tradizioni ricordando altri inverni, più lontani e certamente più rigidi di quelli che la gran parte di noi conoscono, il riferimento va al 1885 (anno della valanga a Maffiotto), al 1929, al 1948, al 1956, al 1973 e al 1985.

Gianni Cordola

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