Quando andavamo a mangiare il Gran bollito Piemontese

Oggi mi ritorna in mente un luogo che evoca ricordi di tempi passati ma anche di piaceri semplici, sto parlando di Carrù un paese del Cuneese dove da moltissimi anni si celebra la fiera del “bue grasso”. Negli anni 70 del secolo scorso con i colleghi di lavoro era diventata tradizione in un giorno libero nel periodo invernale recarsi a gustare il piatto tipico: il “Bollito”, un monumento della tradizione gastronomica piemontese.

Si partiva con una o due macchine con destinazione Carrù ad un ristorante in centro paese, il piatto del giorno inutile ricordarlo perchè eravamo li per quello era il “gran bollito alla piemontese”. Iniziavamo con due antipasti che consistevano negli affettati e il vitello tonnato, poi saltavamo i primi per prepararci al grande piatto della tradizione culinaria Piemontese: il bollito. Un piatto molto amato sia dal re Vittorio Emanuele II che da Camillo Benso Conte di Cavour.

La sua preparazione semplice, ma lunga e paziente, in tempi di frettolosità culinaria lo ha reso sempre meno frequente sulle tavole famigliari, ma è molto amato da chi di cucina se ne intende.

Il Gran bollito misto piemontese ha una storia molto antica con una preparazione meticolosa, fatta di segreti e accorgimenti che portano alla buona riuscita del piatto. Innanzitutto, la scelta della carne è fondamentale: deve essere di bue adulto, il quale doveva essere ben frollato e meglio se grasso.

Ed eccolo, il carrello del bollito, spinto dal cuoco col cappello bianco, con il fumo che sale e i grandi coperchi che sgocciolano, una immagine che non si può dimenticare.

Il carrello dei bolliti

Il gran bollito misto Piemontese si compone di sette tagli: tenerone, scaramella, muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello del prete. Questi tagli devono essere steccati con chiodi di garofano e poi immersi in acqua bollente appena salata, con cipolla, sedano, carota, rosmarino e uno spicchio d’aglio. In pentole diverse si cuociono invece i sette ornamenti: la testina di vitello completa di musetto, la lingua, lo zampino, la coda, la gallina, il cotechino e la rolata.

Il piatto è accompagnato da vari tipi di verdure e salse differenti. Le verdure utilizzate solitamente sono: le cipolline saltate al burro, le carote lesse, finocchi ripassati al burro, foglie di verza lessate, rape lesse, zucchine passate al burro e le patate lesse.

A completamento almeno quattro sui sette bagnetti che la tradizione ci propone. I più classici sono quello verde (bagnet vert), una salsa ottenuta da prezzemolo, acciughe, aglio e mollica di pane raffermo; quello rosso (bagnet ross), con pomodori, aglio, senape e aceto rosso, la salsa al cren, a base di una radice commestibile chiamata rafano, dal sapore molto fresco, aspro e pungente, la cognà piemontèisa una salsa dolce a metà tra una mostarda e una conserva di frutta o una salsa al miele.

Sul tavolo c’era pane grosso, grissini, pane con noci, una buona barbera, ampolle di olio extra vergine per condire le patate e per allungare i bagnetti e le salse. Due piatti, uno per le sole carni e uno per i bagnetti e contorni di verdure. Ancora pepe e ciotole di sale grosso da spargere sulla carne togliendolo poi col coltello al momento di fare il boccone, piattino di burro da schiacciare con le patate bollenti.

Alla conclusione del nostro pranzo ci portavano una piccola tazza di brodo ristretto. Per il dolce non c’era più posto, solo un caffè e un buon amaro.

Quel giorno noi dovevamo presentarsi ben vuoti, riposati e ben disposti, non fare calcoli di tempo e men che meno di calorie.

Gianni Cordola

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