Un tempo d’inverno al Coindo , borgata montana di Condove, le mucche ruminavano tranquille nelle stalle e la gente della borgata si riuniva per “fé la vijà”. La “Vijà” (veglia) era il ritrovarsi giovani ed anziani della borgata in una stalla. Era il locale più grande della casa e il più caldo, da una parte stavano gli animali, dall’altra, seduti sulle foglie o su sgabelli le donne più anziane filavano la lana, le più giovani facevano la maglia o rammendavano, i giovani incontravano le ragazze nubili sotto lo sguardo vigile delle madri, gli uomini chiacchieravano, giocavano a carte, ciccavano tabacco e soprattutto raccontavano qualcosa per rendere meno lunga la serata. C’era ancora il lume a petrolio e le storie vere o inventate che si raccontavano di fatti magici vissuti o risaputi lavorando di fantasia diventavano episodi accaduti il giorno prima. Poi qualcuno raccontava della “fisica” (lanciare il malocchio, fare fatture o incantesimi), già perchè qualcuno nelle borgate vicine faceva la fisica. A questo punto nella stalla tutti tacevano, era un modo di far paura, un gioco che si tramandava ed al quale poi si finiva per credere. Si raccontava che in un paese dietro la Sacra di San Michele c’era una donna che non poteva attraversare un ruscello. Quando se lo trovava davanti urlava, sbraitava e neppure con la forza si riusciva a farla attraversare. Le avevano fatto la “fisica”. Qualcuno rideva, poi però tornando a casa aveva paura; fuori era buio e se non c’era la luna bastava qualche ombra, un rumore, un gatto o un gufo per far drizzare i capelli e darsela a gambe levate. Gli ascoltatori più attenti erano i bambini che ben svegli sgranavano gli occhi per l’interesse e per la paura, pronti a farsi accompagnare per andare a dormire onde non rischiare improvvisi incontri con le masche. Già le vicende delle masche erano l’argomento principale durante le veglie invernali ed il mondo montano è permeato di riferimenti alla superstizione di questi esseri in cui confluivano le caratteristiche delle streghe e dei fantasmi, ma anche quelle degli spiriti dispettosi, più che malvagi. Avevano il potere di spaventare la gente umile, che non conosceva i fenomeni della natura. Tutto ciò che era incomprensibile o che accadeva accidentalmente era dovuto alle masche. Le masche nella credenza popolare assumevano la figura di una vecchia che viveva nella stessa borgata o in quelle vicine ed era individuata in persona nata deforme o che viveva isolata, strana od asociale; poteva assumere sembianze di animali, gatti, capre, serpi e uccelli notturni.
Come in altre località montane anche nei pressi del Coindo esisteva la “rocca delle masche”, luogo misterioso e un po’ temuto nel quale le masche si darebbero appuntamento per celebrare tra magia e culto dei diavoli i loro malefici rituali: il sabba, un raduno notturno alla presenza del diavolo dove si ballava, cantava, mangiava e si praticavano sacrifici. I sabba erano quattro ogni anno: il 2 febbraio (Candelora – Festa della luce), il 1 maggio (Calendimaggio – Festa della prosperità), il 1 agosto (Festa del raccolto) e il 31 ottobre (La Calendo – Tempo del sacrificio e festa dei morti), coincidenti con le quattro feste stagionali celtiche. Per combattere le masche si ricorreva all’acqua santa, l’ulivo e l’imposizione della croce. In contrapposizione agli spiriti maligni i vecchi raccontavano del corteo di fate al Civrari, monte tra le valli di Susa e di Viù, ove le leggiadre creature avrebbero il loro luogo deputato di ritrovo per sottrarsi alla curiosità degli umani.
Masca è indubbiamente il termine che più di altri è entrato a far parte dei luoghi comuni, acquisendo uno spazio semantico sempre più ampio e indefinito in relazione alla tradizione leggendaria in cui questa figura occupa un ruolo molto importante. Le radici del termine risalgono al longobardo “masca” significante uno spirito ignobile simile alle streghe od anche al francoprovenzale che identificava donna malvagia. Le masche non erano soltanto credenza popolare, ma un fenomeno che risaliva ai secoli passati e che coinvolgeva ampie fasce della popolazione culminando nel XIV° secolo con la caccia alle streghe. Una caccia che ha lasciato tracce e ferite profonde nella nostra storia. Anche la Valsusa ebbe i suoi processi a fattucchiere e streghe. Nel 1276 certo Martina della Valsusa affermò che anni prima il giudice mistrale della Val Cenischia, aveva fatto correre nude attraverso le strade di Novalesa, due fattucchiere per poi espellerle dalla comunità. Nel 1327 tal Giacometta de Iohanna fu accusata dalla curia abbaziale di San Giusto di Susa di essere una fattucchiera. Nel 1328 Guigona della Bocchiassa di Meana fu processata a Susa per azioni malvagie da fattucchiera. Sempre a Susa nel 1346 Loenetta Favro fu processata per aver fatto uso della corda per le impiccagioni con fini magici. Altro processo a Susa nel 1385 contro Giovanetta Fava indicata come fattucchiera. Nel 1424 una strega fu arsa sul rogo ad Oulx ed un’altra Jeannette Garcine ad Exilles. Quattro donne ed un uomo di Chiomonte nel 1429 furono torturati, processati e condannati al rogo. Nel 1436 altri sei Chiomontini furono condannati al rogo. Nel 1602 Maddalena Rumiana di Desertes ma trasferitasi a Giaglione morì di stenti in carcere dopo essere portata al cospetto dell’inquisitore ed aver subito tortura. Nel 1620 Maria Gotto di Rubiana fu accusata di stregoneria e di vari crimini connessi al culto del diavolo; fu trovata morta in prigione probabilmente suicida. Nel 1742 Margherita Richetto di Chianocco considerata una pericolosa masca fu più volte imprigionata e rinchiusa nelle carceri di Susa dove morì nel 1746. Tutte vittime della comune superstizione o della propria esaltazione, scontarono con la vita chissà quali fantastici delitti di avvelenamenti e fatture. Visti questi trascorsi è facile capire il perchè la tradizione popolare è ricca di storie di masche e fattucchiere e di tutte le superstizioni dei tempi passati. Quando una persona stava male e moriva si diceva, che se scucendo il cuscino del letto, le piume o il crine del cuscino formavano quattro candele con una bara il maleficio era provocato da una masca. Quando un animale della stalla stava male o moriva si diceva che era stata una masca a fare una maledizione perché ce l’aveva con loro. Le masche erano sempre coinvolte in gravi malattie o morti, delle quali non si sapeva nemmeno il motivo. Un’altra volta al Coindo una donna considerata masca passò vicino alla culla di un bambino di 6 mesi toccandolo, il piccolo cominciò a piangere senza interruzione, il giorno dopo la mamma con alcune foglie di ulivo bagnate nell’acqua benedetta andò da quella donna intimandogli di far tornare il bimbo normale, al ritorno a casa il bimbo sorrideva beatamente.
Si racconta che tanto tempo fa, un giorno, un giovanotto del Coindo stava andando al pascolo e vide una baita che prima non aveva mai notato abitata da due donne: madre e figlia con due capre. Il giovane prese a frequentare la figlia ed andava a trovarla spesso. Ma la madre del giovane quando si accorse del fatto mise al collo del ragazzo una croce e gliene diede un’altra da portare alla ragazza, perchè né lei né la madre le ispiravano fiducia. Il giovane ubbidì e consegnò la croce alla ragazza che in cambio gli diede uno scialle da portare a sua madre. Ma questa non volle usarlo e ancor meno toccarlo, anzi disse al figlio di appenderlo in casa sotto il crocefisso a fianco del camino, e come lo attaccò avvampò in una fiammata. Allora la donna disse al figlio: “Vedi che avevo ragione, quelle due donne hanno un potere diabolico sono delle masche!”. Incurante di quanto diceva la madre il giovane si recò dalla fanciulla, ma quando arrivò dove doveva esserci la baita, non trovò più nulla. Niente donne, niente capre e al posto della casa solo dei ruderi. Disperato si mise a cercare la ragazza ma cadde in un dirupo e morì, certo per intervento delle due donne che avevano voluto portarlo con loro. Altra storia narra di una donna di Laietto rimasta vedova con diversi figli che cercava di tirare avanti poveramente ma dignitosamente. Dopo un po’ di tempo nel silenzio della notte cominciò a sentire il ringhiare di un cane con gemiti, rantoli, guaiti e miagolii che spaventava lei e i suoi bimbi. Una notte preso il coraggio a quattro mani, usci di casa e vide un enorme cagnaccio nero che ringhiando le mostrava tutti i denti. La povera donna chiese allora aiuto a parenti e amici del defunto marito che subito si resero disponibili. Una sera di luna piena sei uomini si appostarono dietro la casa della vedova armati di nodosi bastoni. All’improvviso sentirono anche loro il ringhiare di un animale e cominciarono a correre coi bastoni incontro a quella losca figura. Il cagnaccio nero era lì e si apprestava a mordere ma tutti presero a bastonarlo di santa ragione fin quando non si diede alla fuga. L’indomani una donna di una borgata vicina, da alcuni considerata una masca, uscì di casa zoppicante, piena di lividi e con un occhio nero. Diceva in giro che era caduta da una scala ma dopo quella notte nessuno disturbo più la vedova. Oppure possiamo ricordare il prete di Laietto Don Margaria che nei primi anni del 1900 non riuscendo ad aprire il tabernacolo esclamò tra l’irato e il preoccupato “ma a-i son le masche sì?” (ma ci sono le masche qui?).
Altra usanza del Coindo era quella che la madre segnasse sul capo del bambino prima di dormire un segno di croce, per tenere lontani da lui gli spiriti del male. Il bambino era un essere debole ed indifeso, per cui si credeva che le masche cercassero per vendicarsi di offese patite di nuocere ai bambini e si credeva che avessero dei poteri persino sui nascituri: la donna incinta, infatti non doveva assolutamente incontrare una masca. Ed è per questo che ben raramente usciva di casa da sola. Inoltre non doveva mai tenersi al collo una catenina o una collana, poiché il bimbo poteva nascere col cordone ombelicale avvolto al collo, né doveva mangiare, per questa ragione, dolci rotondi con un buco al centro, proibiti quindi i torcetti che allora si preparavano al forno, in casa. Quando il bambino nasceva, si cercava di battezzarlo il più presto possibile, perché un neonato ancora non battezzato non doveva uscire fuori di casa, in quanto facile preda degli incantesimi delle masche.
Se un bambino presentava qualche difetto, oppure piangeva più del normale, la causa doveva essere ricercata in qualche maledizione scagliata contro di lui. In questi casi si pensava alle masche. Alla masca, infatti, era fatto risalire un improvviso mal di pancia del bambino, una crescita ritardata, il piede caprino e tutte le malattie in genere. Se si trattava poi di difetti fisici evidenti, allora si era certi che la causa era sicuramente una maledizione.
La masca però serviva molto come alibi. Dire infatti che un figlio era storpio o strabico perché appena nato gli era stata fatta la fisica, era un conto, ma dire apertamente che era nato così, la cosa era ben diversa. Nel primo caso, l’impedimento fisico non gli impediva di sposarsi, mentre nel secondo la cosa si faceva ben più difficile, per timore della discendenza. Era brutto avere dei disgraziati in casa nella dura vita dei campi: accrescevano solo le preoccupazioni e anche la diffidenza da parte dei vicini e dei conoscenti. Quando si pensava che una masca avesse compiuto la fisica su un bambino, si poteva ricorrere al sacerdote, perché lo benedicesse o pronunciasse qualche esorcismo.
Si narrava anche della processione dei morti che nelle notti senza luna uscivano dalle tombe del cimitero di Laietto e s’incamminavano lentamente nei dintorni del cimitero stesso, rischiarandosi la strada col dito acceso, per poi recarsi nella cappella cimiteriale di San Bernardo dove a mezzanotte uno spettrale sacrestano suonava la campanella e accendeva le candele: allora un misterioso prete celebrava la messa dei morti nel silenzio raggelante della lugubre assemblea. Finita la messa, le candele si spegnevano ed i fantasmi sparivano e guai a chi si fosse arrischiato a curiosare.
Dopo questo viaggio “nell’altra storia” quella del costume e delle tradizioni di una borgata di montagna, che ama scoprire nel passato improbabili tracce di diavoli e masche con frammenti di ritualità celtica immaginiamo che la vijà sia finita e facciamo ritorno a casa tirandosi sulle orecchie il berretto e coprendosi con il mantello.
(Gianni Cordola)