Perché quando si rifiuta, abbandona o lascia una persona qualcuno dice “gli ho dato il due di picche” mentre un piemontese sicuramente dice “i l’hai daje ‘l bleu” (letteralmente gli ho dato il blu)?
Questo, come altri detti piemontesi, nasce da una particolare condizione di luogo e di tempo, per capire cosa significa e l’origine dobbiamo tornare indietro nel tempo di oltre duecento anni, all’annessione del Piemonte alla Francia ed al Regno d’Italia fondato da Napoleone Bonaparte nel 1805 e disciolto nel 1814.
Con la normalizzazione attuata dalle potenze europee con il Congresso di Vienna a termine l’occupazione Francese e con il ritorno di Vittorio Emanuele I a Torino restaurato nei suoi domini ha inizio l’epurazione delle persone che avevano collaborato con l’occupante, l’abolizione delle leggi napoleoniche e l’abbandono di tutto ciò che era francese nel tentativo di riportare indietro le lancette della storia come se nulla fosse accaduto.
I Torinesi in fase di restaurazione, decisero di cancellare ogni insegna o decorazione relativa all’occupazione francese, affinché venisse definitivamente dimenticata. Pertanto tutto venne ricoperto con generose mani di vernice di colore blu Savoia. Da qui l’espressione “i l’hai daje ‘l bleu” viene usata dai piemontesi generalmente in senso disdegnoso, quasi tracotante, e si applica alla volontà di troncare nettamente con il passato o con una persona, senza se e senza ma.
Allo stesso periodo storico risale il detto piemontese “dël pento” letteralmente “del pettine”, espressione usata molto spesso per indicare un’azione, un oggetto od un lavoro di nessun valore. Durante l’occupazione francese Napoleone fece coniare dalla zecca una moneta da un soldo. Da una parte era raffigurata la testa dell’imperatore e dall’altra una corona che per i torinesi aveva l’aspetto di un pettine. Tale moneta battezzata dai torinesi “ël sòld dël pento” venne presto messa fuori corso e perse quel poco di valore che aveva, da qui l’espressione usata in senso denigratorio e dispregiativo.
Era abitudine dei Piemontesi dare un nome alle monete, basta pensare alle “Galin-e” (nate nel 1755 avevano su una faccia la figura a codino del sovrano e portavano sull’altra uno di quegli uccellacci araldici simili all’aquila), o alle “Mote e mese mote” del 1794 in sostituzione del “set e mes”. Il nome “Mote” sembra derivasse da una spiritosa immagine che il popolino derivava dalle “motte” formelle di concia da bruciare che prima erano delle dimensioni di un pane da munizione e poi ridotte a minime dimensioni dalla taccagneria dei produttori, come succedeva al valore della moneta. Anche “ël sòld dël pento” moneta Napoleonica del Regno d’Italia con l’imperatore su una faccia e una corona arieggiante un pettine da trecce, non è sfuggita all’ironia dei Piemontesi vista la sua svalutazione e da lì il detto.
La moneta da un soldo coniata dalla zecca di Milano
Altri studiosi ritengono che il detto abbia origine dai commercianti che all’inizio del secolo scorso girando per paesi e borgate acquistavano i “cavèj dël pento” i capelli che restavano impigliati nelle spazzole e nei pettini che venivano raccolti e conservati. Merce di scarso valore rispetto alle trecce intere. Il significato vero penso sia quello da me descritto in quanto mia madre del 1905 mi raccontava di queste persone che acquistavano i capelli ma non quelli del pettine bensì quelli tagliati alle donne. Nel primo novecento era usuale dalle mie parti nella stagione invernale mandare le ragazze a servizio nelle case di famiglie benestanti in città, a Torino. Alle ragazze appena arrivate nella casa di destinazione venivano cambiati i vestiti, lavate e tagliati i capelli per paura dei pidocchi. Da qui era diventato normale tagliare i capelli alle ragazze prima di andare a Torino e poi venderli ai compratori per ricavare qualche soldo. Non ho mai sentito raccontare che comprassero i capelli rimasti nel pettine, e mi pare improbabile vista la scarsa quantità e qualità.
Gian dij Cordòla