Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierten – IMI) era il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori controllati dal Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all’armistizio del 8 settembre 1943.
Le autorità tedesche intesero riconoscere questo status ai soldati italiani nelle loro mani per non definirli prigionieri di guerra e far sì che la loro detenzione – la più dura dopo quella di ebrei e rom nei campi tedeschi e polacchi – non rientrasse nelle casistiche previste dalla Convenzione di Ginevra. Nemmeno la Croce Rossa si curò mai di loro perché nessuna nazione si rese disponibile a farsene “protettrice”. Oltre l’80 per cento dei 630.000 internati rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, unica via d’uscita dai lager, per non rinnegare il giuramento al Re: un atto d’eroismo e Resistenza solo recentemente riconosciuto dallo Stato Italiano, il quale con la legge n. 296/2006, ha concesso una Medaglia d’Onore ai cittadini italiani (militari e civili) che nell’ultimo conflitto mondiale furono deportati e internati nei lager nazisti e, nel caso che il diretto beneficiario sia deceduto, al familiare più stretto. Per gli stenti, il lavoro coatto e le malattie furono almeno in 50.000 a morire tra il settembre 1943 e il maggio del 1945.
Durante la seconda guerra mondiale, la Germania aveva mobilitato un enorme numero di militari per cui cominciò a scarseggiare la manodopera delle fabbriche. Il regime nazista iniziò quindi a usare gli internati militari e civili come “lavoratori volontari” negli stabilimenti. In quanto internati militari e non prigionieri, gli italiani non erano tutelati dalle Convenzioni di Ginevra. Gli IMI con questa qualifica erano obbligati al lavoro e utilizzati in condizioni vietate dalla Convenzione di Ginevra, sotto controllo militare germanico, oppure impiegati presso ditte che producevano materiale bellico per le Forze Armate. Una sorte simile ebbero i lavoratori coatti rastrellati nei territori della R.S.I., infatti durante gli anni di Salò molti italiani vennero deportati e costretti a lavorare per la Germania nazista.
Come già anticipato la storia degli IMI ebbe inizio l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio sottoscritto dall’Italia con le Forze Alleate, una data che cambiò, dopo tre anni di guerra, il corso del Secondo conflitto mondiale. Militari e civili, dislocati su più fronti, furono sorpresi dalla cessazione delle ostilità contro gli alleati. Catturati dalle truppe tedesche in Francia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Polonia, Paesi Baltici, Russia e Italia stessa, subirono la deportazione e l’internamento nei campi di concentramento tedeschi che erano sparsi un po’ dovunque in Europa, soprattutto in Germania, Austria e Polonia.
Caricati dai tedeschi sui treni, i militari catturati partono per una destinazione a loro ignota. I treni utilizzati sono carri merci, riempiti in maniera inverosimile, 40 e più persone per vagone, senza acqua, senza cibo, senza recipienti per le necessità fisiologiche. I trasferimenti possono durare anche diversi giorni, con varie tappe e soste interminabili.
Appena arrivato nel lager, comincia per il prigioniero il sistematico tentativo di fiaccare la sua personalità, per costringerlo a cedere alle proposte di un trattamento migliore in cambio della collaborazione con i tedeschi.
Il prigioniero viene immatricolato con un numero di identificazione che sostituirà il nome e che sarà inciso su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo. Tra le formalità d’ingresso ci sono l’annotazione dei dati personali in duplice copia su appositi documenti di riconoscimento e la perquisizione personale e del bagaglio, durante la quale gli IMI vengono spogliati di tutto.
I tipi di lager in cui vengono internati i militari italiani sono: STALAG – campo di prigionia per sottufficiali e militari di truppa e OFLAG – campo di prigionia per ufficiali.
Il campo è uno spazio con molte baracche e un recinto di filo spinato che lo separa dall’esterno. I letti all’interno delle baracche sono a castello, con brande di legno e pagliericcio. Le latrine sono fossati esterni ricoperti alla meno peggio di tavole.
Una pratica quotidiana è l’appello, si viene chiamati con il numero di matricola con cui all’ingresso nel campo è stato registrato. All’interno del lager i reclusi conducono una vita durissima a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’avvilimento fisico e morale derivante dalla prigionia.
Poco dopo l’ingresso nel lager, gli IMI sono posti di fronte a pressanti richieste da parte dell’amministrazione tedesca che promette un trattamento migliore quanto a logistica e cibo, in cambio di una semplice firma di adesione a continuare la guerra con l’esercito dell’istituita Repubblica di Salò, a fianco dei tedeschi.
Per ordine del Führer, d’accordo con Mussolini, gli IMI il 12 agosto 1944 cambiano di status e vengono trasformati in “lavoratori civili, formalmente liberi”.
Una volta arrivati nei campi, i militari italiani vengono utilizzati come lavoratori coatti in Germania nelle fabbriche o per lavori necessari nei campi e in miniere o impiegati nello sgombero delle macerie e nella sepoltura dei cadaveri dopo i bombardamenti.
La vita dei militari avviati al lavoro coatto è molto dura: sveglia prima dell’alba e, dopo l’appello, le colonne di prigionieri, scortati da qualche militare tedesco, sono costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi d’impiego; altrettanto percorso è quello del ritorno.
Il lavoro nelle fabbriche arriva fino a 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, con piccolissime pause e poco cibo. La brodaglia che viene servita non permette agli uomini di tenersi in forze per lavorare.
A partire da febbraio del 1945, iniziano le avvisaglie del crollo ormai imminente della Germania: attacchi aerei, riduzione del personale di sorveglianza, distruzione da parte dei tedeschi di documenti. Quando i responsabili dei lager, le guardie e gli impiegati scompaiono dai campi e dalle fabbriche, gli ex IMI capiscono che la prigionia è terminata.
La liberazione avviene in momenti differenti, per lo più tra il gennaio e i primi di maggio del 1945 in Polonia e Germania e prima ancora nei Balcani.
Il rimpatrio si svolge soprattutto nell’estate 1945, da Germania, Francia, Balcani e Russia. Quello dalla Germania è particolarmente caotico e presenta ritardi per ingolfamenti e scarse sollecitazioni delle nostre autorità.
Nell’Italia del primo dopoguerra, la tragica vicenda degli IMI e anche degli internati civili è presto dimenticata. Al loro ritorno in patria essi sono accolti con indifferenza e diffidenza, se non con ostilità, da un popolo che non vuole più sentir parlare di guerra. Gli IMI rispondono con il silenzio, facendo scattare un vero e proprio meccanismo di rimozione, convinti quasi dell’inutilità del sacrificio loro e dei caduti. Solo da qualche decennio gli studiosi hanno cominciato ad occuparsi degli IMI ancora in tempo per far conoscere questa pagina di storia e rendere il giusto omaggio ai «630 mila» che, con il loro sacrificio, contribuirono a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese.
Gianni Cordola