Le nostre leggende

Ormai settantenne, raggiungo il mio paese Condove e imbocco la strada che porta alle borgate montane, parcheggio l’auto sulla provinciale per Laietto (“Ou Lieut”) nei pressi della Brera e percorro la mulattiera che porta al Coindo, borgata dove vivevano i miei genitori. Sapevo bene che i miei avevano coltivato la terra e sfruttato i pascoli di questa zona per sopravvivere. Avevo sentito parlare tante volte di fatica e miseria, ma a me erano sempre sembrate così lontane e irreali come nelle favole. Da bambino ero venuto molte volte quassù con mamma e papà, che non si stancavano mai d’insegnarmi i nomi dei luoghi, di raccontarmi gli aneddoti e le avventure delle persone della zona tramandati dalla gente, di farmi capire come si viveva una volta in montagna.

Solamente ora, però, guardando i ripidi prati del Coindo mi rendevo conto che tagliare il fieno nei “tsamp dl’anvers” verso Chiandone e trasportarlo a spalle, in grossi fasci, su nel fienile doveva essere una bella fatica. Una borgata che era popolosa, gente di montagna, gente d’altri tempi, dal carattere forte. Persone laboriose, avvezze al lavoro e alla fatica quotidiana, ma, al contempo capaci di sorridere, con quei modi di essere arguti e sornioni. Circa cento anni fa, una cinquantina di persone vivevano in questa borgata, che fu abbandonata perché arrivarono occasioni migliori e la gente riuscì a scappare da quella che considerava una schiavitù. Era stato mio padre nel 1936 a decidere di trasferirsi con la propria famiglia al piano, a Condove nella vecchia contrada dei Fiori, vendendo in seguito parte di tutto ciò che qui possedeva. Tornando in questi luoghi e vedendo l’abbandono delle case mi assale una tristezza infinita per cui ritorno all’automobile. Procedo verso Laietto e raggiungo Pratobotrile (Papoutrii in franco-provenzale, Pabotrì in piemontese) borgata dei miei nonni materni dove faccio uno spuntino alla locale trattoria. Nel pomeriggio opto per una passeggiata lungo la mulattiera che porta al ponte delle Turne.

Stavo ancora meditando sui fatti del mattino, quando mi si para davanti il “Rok lounck” (in franco-provenzale) o “Ròch longh” (in piemontese). Ad altri avrebbe detto poco o niente quel pietrone aguzzo; qualcuno avrebbe pensato alle difficoltà di arrampicata altri ne avrebbero calcolato a vista le misure; forse qualcuno non l’avrebbe neanche notato; probabilmente pochi avrebbero pensato che avesse anche un nome.

Nella mia mente scomparve invece ogni altra rimembranza per lasciar affiorare le parole che diceva mio nonno materno Battista Pautasso (Tita dou Ieun) ogni volta che passavamo insieme in quel luogo. “Questo è “lou rok lounck” portato dal diavolo quando voleva distruggere una baita per vendicarsi di torti subiti e, presa la cima di una rupe aguzza, la caricò sulla schiena volando con rapidità, verso la baita, per farla piombare su di essa; ma per una ragione incomprensibile, e prima che egli giungesse alla meta del suo viaggio perdette ogni forza lasciando cadere il masso qui”. E continuò: “Ecco se osservi bene quelle scanalature che lo attraversano, ti accorgi che sono state scavate da una grossa corda di ferro. Era la corda con cui il diavolo l’aveva legato per tenerlo ben saldo sulla schiena e trasportarlo fin qui. E se guardi in alto, vedi che è un po’ scavato, come se si fosse ammaccato in due punti, e precisamente dove poggiava sulla testa e sulla schiena ricurva del diavolo”.

Lou roc lounck

Nonno fece una pausa per accendersi il sigaro ed aggiunse: “Devi sapere che questa roccia è magica e si apre lungo quella fenditura alla mezzanotte precisa del giorno di S. Giovanni per lasciar intravedere il tesoro che nasconde”.

Ed ecco affiorare anche il ricordo della mia solita domanda di bambino: “Nonno, ma non è possibile andare a prendere quel tesoro?” Risposta: “Si, si può, ma solo quando la pietra si apre, a mezzanotte in punto del giorno di S. Giovanni; però bisogna fare presto, perché si richiude subito”.

Ricordavo anche l’altra domanda di rito: “Nonno, ma non c’è mai stato nessuno che l’ha fatto?”. Ed ecco la consueta risposta: “Si, una volta Notou dou Tcheuk ha aspettato che si aprisse, si è infilato dentro, ha visto il tesoro, ma non ha fatto in tempo a raccogliere poche monete d’oro che la roccia si è richiusa. Notou è rimasto chiuso fino all’anno successivo, quando, nella notte di S. Giovanni, appena la roccia si è aperta, pieno di paura, è uscito in tutta fretta, senza preoccuparsi di portar via il tesoro. Si era talmente spaventato che i capelli gli erano venuti bianchi ed inoltre era diventato cosi magro che quando inaspettatamente arrivò a casa, i suoi non l’avevano riconosciuto”.

La mia mente di bambino continuava però a fantasticare; si rifiutava di credere che fosse una leggenda e quasi si convinceva fosse tutto vero, del resto, quel nome così specifico con tanto di paternità che il nonno pronunciava in modo convinto, non poteva essere inventato Notou sarà esistito veramente, era vera la sua esistenza, per cui poteva essere vera anche l’esistenza del tesoro.

Ma oggi non posso continuare a rivivere le esperienze di bambino; ora desidero scoprire i motivi per cui ci sono diverse leggende che parlano di tesori nascosti nella stessa zona come al Collombardo, Collombardino e alla Tomba di Matolda; perché l’apertura dou Roklounck avviene proprio nella notte di S. Giovanni il 24 giugno. E man mano che proseguo nella mia passeggiata tante domande e curiosità si affacciano nella mente, ma sento che manca qualcosa per poter dare a tutte una risposta esauriente, e che forse avrei potuto farlo con l’aiuto del nonno “Ah se ci fosse ancora, perché senza di lui mi è così difficile?” mi domando.

Nella mia lunga e solitaria meditazione mi sono reso conto che occorre possedere la cultura dei montanari per scoprire nel mondo della natura l’anima delle cose. E ora che questa cultura si sta perdendo, chi trasmetterà alle nuove generazioni i nomi, le sensazioni, le leggende che permetterebbero loro di scoprirla? In fin dei conti io mi sento ancora un privilegiato perché posso far tesoro di quel poco che di questa cultura mi ha trasmesso il nonno.

Gianni Cordola (scritto nel 2017)

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