Lungo le strade di paesi e borgate della Valle di Susa si annunciava con il suo grido caratteristico: “Dòne a-i é ël molita” (donne c’è l’arrotino). Un tormentone che molti giovani non hanno mai sentito riecheggiare per le vie del paese, ma che molte altre persone invece rimpiangono. E subito iniziava la processione di donne che portavano coltelli, forbici e mezzelune. Un uomo di una certa età, barba incolta, capelli arruffati, mani callose che conduceva una bicicletta con applicata dietro il manubrio una ruota in pietra (la mola), azionata dal movimento dei pedali che l’arrotino faceva girare dopo aver sollevato la parte posteriore della bici su un cavalletto.
L’arrotino pedalava da fermo, con la bicicletta sollevata e così faceva girare vorticosamente quella ruota di pietra sulla quale molava le lame dei coltelli. Si vedevano scintille, mentre l’arrotino operava e per noi ragazzini di una volta era uno spettacolo. La bicicletta era dotava anche di una borraccia di acqua che serviva per raffreddare i metalli. Questo artigiano della strada, avvicinava con maestria alla mola i coltelli, le asce, le roncole e li affilava.
Di buon mattino arrivava in paese e si collocava sempre allo stesso posto. Le prime clienti erano le casalinghe con coltelli da cucina e forbici, poi gli uomini con scuri, falci, roncole per essere affilati. L’uomo che azionava la mola prima di eseguire il lavoro pattuiva il prezzo. Un vero e proprio contratto verbale non sempre facile. Le donne riuscivano meglio degli uomini in questa trattativa, quelle giovani e carine ancora di più.
Allora gli utensili da taglio periodicamente si affilavano. Si faceva in modo che gli utensili durassero e fossero efficienti da cedere poi ai figli, ai nipoti. La riparazione allora apparteneva al modo di pensare, di conservare anche un modesto coltello. Era un vanto possedere una scure o una falce appartenente ai nonni o ai bisnonni.
Il “molita” era un artigiano esperto che conosceva e valorizzava il metallo e consigliava il cliente su come far durare a lungo l’affilatura. Si vantava della sua arte, di mettere a nuovo ogni tipo di lama come forbici di grandi o piccole dimensioni o prodotti d’acciaio come le forbici da seta dal filo particolarmente sottile. Per arrotare un utensile, l’arrotino imprimeva alla ruota un movimento ben ritmato e continuo e con abili gesti delle mani lo passava sulla mola fino a che la lama non diventava tagliente.
Noi bambini osservavamo con gli occhi sbarrati la mola girante che sprigionava scintille a contatto dell’oggetto metallico affilato e, con stupore, contavamo le gocce d’acqua che bagnavano lentamente la mola, servivano per non danneggiare il metallo. La presenza di noi bambini gli era gradita perché il nostro chiasso pubblicizzava la sua presenza.
I grandi lo chiamavano per nome e non gli risparmiavano critiche sull’utensile affilato. La sua perentoria affermazione non si faceva attendere: “Se non taglia, riportamelo”. All’onestà dell’arrotino faceva seguito la furbizia del cliente che contestava l’affilatura per ottenere un piccolo sconto.
Gli arrotini provenivano dalle vallate di montagna, dove era più facile trovare le pietre per le mole, verso la pianura, trascinandosi il materiale su un carretto per strade sterrate e polverose. Poi è arrivata l’epoca della bicicletta, poi della lambretta e in seguito del motocarro APE, più comodo e funzionale. L’arrotino tanti anni fa svolgeva il suo mestiere girando per tutte le strade, si fermava in un angolo o entrava nei cortili, poi chiedeva ospitalità per dormire in qualche fienile e si spostava il giorno successivo in un altro paese o borgata. L’arrotino tornava di rado a casa sua, era una vita molto grama: ambulante, senza fissa dimora, dormiva dove capitava, in una stalla o in un fienile, dentro in un sacco di tela, si lavava alla pubblica fontana, mangiava quasi sempre a secco un pezzo di pane e formaggio, più raramente un piatto caldo in qualche osteria. Costretto a pedalare, era esposto ad ogni intemperia, portando la bicicletta su strade non asfaltate o di montagna, in equilibrio tutto il giorno sui pedali.
Da molti decenni questo personaggio non c’è più, l’utensile che non taglia o si cambia o lo si manda ad affilare in qualche officina. Riservare un piccolo ricordo e merito a questo artigiano del passato è doveroso, se non altro per aver facilitato e alleggerito in passato il lavoro della casalinga, del falegname, del macellaio, del boscaiolo con le sue pazienti affilature. Con lui è uscito di scena un modesto artigiano che lavorava per pochi soldi e con tanta passione. Come tutti i mestieri di un tempo, con l’arrivo della tecnologia, anche questa attività ambulante è quasi del tutto scomparsa, almeno con queste modalità, portandosi dietro innumerevoli ricordi di una vita che non c’è più e anche un po’ di bellissimi ricordi della nostra fanciullezza.
I giovani, al giorno d’oggi, non dimostrano passione per imparare a fare l’arrotino, la cui formazione avviene sul campo, affiancandosi a un maestro esperto. Oggi è interessante conoscere questo mestiere: si possono utilizzare materiali più evoluti per rendere gli attrezzi più efficienti anche perché gli oggetti da affilare sono più sofisticati e non come i semplici coltelli di un tempo. Inoltre bisogna avere conoscenze chiare sui materiali e le paste abrasive, capire i tipi di pietra più adatti per costruire le mole e sapere come le particelle del materiale che si utilizza reagiscono al calore e al freddo .Dunque quello dell’arrotino è un lavoro sempre più specializzato e interessante.
Gianni Cordola