Antiche lavorazioni

Coltivazione e lavorazione della canapa per tessuti
(Canapa: la càuna in piemontese, la rita in francoprovenzale)

La coltivazione e lavorazione della canapa (Cannabis sativa L.) è stata per anni protagonista della vita contadina della nostra montagna, vanta un lungo e articolato passato e, oggi, solo le persone anziane ne preservano il ricordo. Faceva parte di quel processo di approvvigionamento autosufficiente che caratterizzava l’economia rurale: la famiglia patriarcale di una volta traeva dall’agricoltura e dall’allevamento quanto era necessario per vivere, tra questi la canapa, la materia utile per la confezione di stoffe e vestiti. Con i tessuti ottenuti si faceva fonte al fabbisogno di indumenti e di biancheria per la casa. La coltivazione della canapa è andata scomparendo nella prima metà del Novecento con l’arrivo in quantità dei prodotti tessili industriali .

La canapa si coltivava nel territorio dei Comuni di Mocchie e di Condove, ed in tutta la montagna della Valle di Susa, dove si adattava bene al clima. Essendo una pianta annuale si seminava a fine marzo inizio aprile, in terreni ben esposti, riparati dal vento, facilmente irrigabili ma in cui non ristagnasse l’acqua, e le piante giungevano a maturazione in luglio-agosto.

Parlare del suo ciclo di lavorazione significa penetrare nella realtà del lavoro contadino, delle classi povere e soprattutto delle donne. La lavorazione della canapa consisteva in un procedimento lungo e faticoso. Il prodotto finale però era resistente e poteva durare tutta una vita. Corredi, lenzuola, asciugamani, capi d’abbigliamento, in gran parte costituiti da questa fibra vegetale, erano caratterizzati dalla ruvidezza tipica della canapa. Ora questo tipo di tessuto si trova solo più nei bauli e negli armadi delle nostre bisnonne. Non si produce e non si usa più e con esso si è estinto anche una lavorazione tradizionalmente femminile.

Le piante di canapa germogliavano precocemente, dopo poche settimane dalla semina già si distinguevano le piante maschili da quelle femminili: le prime erano più alte ma meno vigorose, le seconde più robuste con molte foglie. La canapa giunge alla maturazione tecnica della fibra dopo 110-120 giorni, prima con le piante maschili, immediatamente dopo l’emissione del polline e due settimane dopo con le piante femminili. In quest’epoca il fusto, nella parte inferiore, passa dal colore verde al giallo pallido e perde le foglie, mentre nella parte superiore queste cominciano ad appassire più tardi.

Canapa per tessuti

Canapa per tessuti

Un tempo, nei piccoli appezzamenti, la raccolta veniva fatta a mano in due riprese, raccogliendo prima la canapa maschile, che dà fibra più fine, poi quella femminile, ottenendo in tal modo fibra di qualità molto omogenea. Nel mese di luglio le piante maschili venivano quindi estirpate a mano, legate a piccoli mazzi e ammassate al bordo del campo per far seccare le foglie. Le piante femminili venivano tagliate a maturazione per poter raccogliere i semi per la semina dell’anno successivo o per altre lavorazioni (olio o mangime per galline).

Ad agosto anche le piante femminili venivano estirpate, legate in fasci e lasciate sul campo per qualche giorno a seccare. In seguito tutte le piante sia maschili che femminili venivano trasportate in apposite fosse con acqua appena scorrevole o stagnante per la macerazione. I fasci di canapa venivano immersi completamente nell’acqua delle fosse e vi restavano per circa 30 giorni, questo permetteva poi di staccare la fibra dal fusto. Terminata la macerazione i fasci erano lasciati scolare e trasportati all’asciutto nella casa in attesa dell’inverno quando iniziava la preparazione vera e propria della fibra.

L’estrazione della fibra avveniva percuotendo i fusti con dei bastoni in modo da rompere definitivamente la parte legnosa, dagli steli, utilizzati poi per accendere il fuoco, venivano liberate le fibre, che erano raccolte in mazzetti e intrecciate in modo da formare una matassa. Questa veniva pestata con un martello di legno in un mortaio di pietra. Successivamente la fibra veniva affinata fregandola su una lama e ripetute pettinature con una spazzola dai lunghi aghi di ferro. Raccolta in matasse era di nuovo pronta per essere pettinata su tre pettini di misure diverse dalle quali si ottenevano filamenti di qualità diversa: grossolana, normale e fine.

Le donne provvedevano alla filatura. La tessitura invece era un lavoro generalmente da uomini perché duro, faticoso che logorava le mani: il filo grezzo tagliava la pelle. La tela ottenuta era portata durante la primavera fino al torrente, dove si cercava di sbiancarla sciacquandola più volte ed esponendola al sole. Dalla canapa tessuta si ricavavano principalmente tela e corde, indispensabili per la vita e il lavoro, lenzuola, asciugamani e fodere per il corredo. Anticamente il prodotto della canapa serviva per molti usi per chi ci credeva: si usava anche per togliere il fuoco di Sant’Antonio, guarire le scottature e formare fasciature rigide con il bianco dell’uovo nel caso di slogature. Semi, olio e succo della pianta venivano anche usati quali medicamenti per uso esterno ed interno (malattie della pelle, ferite aperte). I semi erano considerati un accertato rimedio per la cura del male alle orecchie, causato dall’otturazione del canale auricolare.

Nel passato tante famiglie destinavano qualche appezzamento di terreno a questa coltura. Oggi possono essere coltivate solo le varietà che hanno un contenuto di THC (tetraidrocannabinolo) nelle infiorescenze inferiore allo 0,2%. E’ assolutamente necessario utilizzare seme che sia stato certificato da Ente autorizzato perché, se tale limite viene superato, si incorre nelle sanzioni penali stabilite dalla legislazione sulle sostanze stupefacenti. Le varietà di Cannabis sativa ammesse alla coltivazione nell’ambito della Unione Europea sono elencate nel Reg. CE 1251/1999. Attualmente ci si deve quindi accontentare delle poche varietà disponibili (la più comune è chiamata Carmagnola) e auspicare che vengano presto riprodotte e migliorate le varietà di origine italiana, che sono state utilizzate in tutto il mondo per costituire un gran numero di altre varietà di pregio.

Gianni Cordola

La lavorazione della lana

Una volta quasi tutte le famiglie della montagna Condovese allevava un certo numero di ovini, non per il latte, fornito dai bovini, ma per la lana. La lavorazione della lana dal vello dell’animale al filato avveniva in diverse fasi: tosatura, cernita e lavaggio, cardatura e filatura.

La tosatura è un passaggio indispensabile dell’allevamento ovino, veniva effettuata solo per necessità e non per il valore intrinseco della lana. Le pecore potevano essere tosate due volte l’anno: la prima volta verso fine febbraio e la seconda verso fine settembre.
La lana tosata a febbraio è più fragile e un po’ meno resistente perché la pecora è rimasta nella stalla tutto l’inverno, mentre quella tosata in autunno è più morbida, più resistente e più facile da lavorare perché è resistita al sole e alla pioggia nei pascoli. La tosatura, un tempo, avveniva in un prato o nel cortile di casa.
La pecora con le zampe legate era sdraiata su un tavolo o su un telo, oppure tenuta tra le gambe in posizione verticale sulle zampe posteriori per mezzo di un particolare strumento: il morsetto da tosatura. La pecora veniva tosata con normali forbici usate anche in casa e di solito si cominciava a tagliare vicino alla cute, per poi procedere verso il basso. Il vello così ottenuto è poi diviso in varie parti da cui si ottengono vari tipi di lana. Il peso medio del vello tosato dalle razze migliori è di circa 4,3 kg per capo di bestiame.

Il vello si presenta come una massa di fibre intrecciate. Le fibre verranno prima sottoposte ad una cernita per la classificazione della qualità, legata fondamentalmente alla corrispondenza della parte del corpo dell’animale; la qualità migliore proviene da fianchi e spalle, poi dalla schiena, dalle cosce, dal collo e così via. Nella cernita delle fibre vengono inoltre fatte valutazioni finalizzate alla destinazione d’uso e legate alle caratteristiche di lunghezza e di finezza delle fibre; vengono accoppiati quei velli con caratteristiche simili per realizzare filati più sottili e morbidi o più robusti e resistenti.

La fase successiva è il lavaggio delle fibre per l’eliminazione dello sporco e delle impurità, naturalmente presenti nel vello dell’animale: grasso, sudore, terriccio, escrementi e residui vegetali. Il lavaggio avveniva in primavera in questo modo: le donne riempivano un grande mastello di legno con la lana sporca e lo deponevano sotto allo scolo delle grondaie per utilizzare se possibile l’acqua piovana. Il contenuto veniva mescolato spesso e non veniva usato nessun sapone. Si poteva anche ricorrere al lavaggio nel torrente o in un rio: la lana veniva deposta in cesti immersi nell’acqua in modo che la corrente svolgesse la parte più grossa del lavoro di pulizia e poi si passava al mastello. La lana pulita veniva riposta in cesti a sgocciolare e successivamente stesa su ringhiere di legno o steccati ad ad asciugare. Dopo diversi giorni a girarla e rigirarla la lana ben secca veniva riposta in sacchi per la cardatura.

Cardatrice per lana

Cardatrice per lana

La cardatura è la procedura di preparazione del filato di lana che precede la fase finale di filatura delle fibre. In questa fase, i fiocchi di lana vengono pettinati e districati per allineare ed ordinare parallelamente le fibre. L’utensile tradizionale per la cardatura manuale è una speciale spazzola in legno con i denti di ferro. La lana viene lavorata con l’impiego di due spazzole. Una spazzola è tenuta ferma e su di essa vengono disposti alcuni fiocchi di lana, pochi per volta. La seconda spazzola viene passata sopra con movimenti regolari per districare e ordinare le fibre. Le fibre allineate vengono quindi arrotolate in batuffoli, pronte per l’operazione di filatura. In tempi antichi questa lavorazione era realizzata con l’impiego di un fiore di cardo secco, dal quale deriva il nome di cardatura. Con la cardatura la lana poteva già essere usata nell’imbottitura di cuscini e materassi.

La fase finale è l’operazione di filatura, fatta dalle donne di casa nei pomeriggi delle giornate invernali e durante le lunghe veglie serali nelle stalle. Questa consiste nel tiraggio e nella torsione delle fibre cardate, per formare un filo continuo tramite un arcolaio. Le donne più abili ottenevano un bel filo avvolto su una spoletta che, una volta piena, veniva infilata su una bacchetta di ferro dell’arcolaio stesso. Dalle spolette si passava ai gomitoli e alle matasse.

Arcolaio

Arcolaio

La lana era usata nel suo colore naturale, ma poteva essere tinta con tinture casalinghe ricavate da erbe e piante (foglie di frassino, mallo delle noci, ecc.) presenti nel territorio, in grosse pentole che bollivano sul fuoco del camino. Il filo dei gomitoli veniva in parte lavorato ai ferri per maglie, sciarpe, calze, ecc. ed in parte portato dal tessitore per ricavarne tessuto o coperte.

Gianni Cordola

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