A volte ripensare con nostalgia ai tempi che non appartengono più alla vita attuale può essere un dolce rifugio, un tuffo in un mondo nostalgico che conosciamo bene e che ci ha segnato nel profondo. I bei tempi sono di solito quelli in cui si era più giovani. Le scienze lo confermano: i ricordi dell’adolescenza e della giovinezza sono i più numerosi e più vividi. Inoltre la distanza sfuma gli avvenimenti, e mentre la lista dei ricordi negativi si accorcia, quella dei ricordi positivi nel tempo si allunga.
Da giovani si provano emozioni per la prima volta, quelle esperienze iniziali fissano una sorta di parametro di riferimento per quelle successive, questo porta a confrontare inavvertitamente esperienze attuali con esperienze precedenti, dimenticando in base a cosa hai valutato la prima volta. Da adulti è meno facile fare un’esperienza che ci lasci stupiti e ciò può condurci a pensare che le cose andassero meglio nel passato.
Ad esempio, ricordo la prima volta che partecipai ad una festa in casa di amici, è stato emozionante, pieno di sensazioni mai provate prima, oggi ripensandoci la ricordo come una cosa divertente, ma alla base del mio giudizio di allora non c’erano altre occasioni simili con cui confrontarla.
È importante sapere da dove si viene, tenere a mente la storia della propria famiglia, quella del luogo in cui si è cresciuti. Io ricordo tutto e sono sempre stato curioso delle vecchie storie mie e dei miei parenti. Mi ricordo quando d’inverno andavo a giocare nella neve, quanto freddo faceva, la temperatura spesso sotto zero. Ma a me non interessava, ero paonazzo, ma instancabile.
Quando ero un po’ più grandicello sui 16 anni le prime cotte, la ragazzina della compagnia che mi faceva battere forte il cuore, ma spesso non ero ricambiato. D’estate ci si trovava la sera in piazza del paese per chiacchierare, nessuno si lamentava per la maleducazione e soprattutto al più tardi alle 22,00 tutti a casa. Al giorno d’oggi i bambini non sanno più giocare, sono presi coi cellulari o con i videogiochi. I giovani fanno notte bevendo birra nei giardini, con comportamenti sguaiati disturbando le altre persone.
Perché rimpiangiamo così tanto i vecchi tempi? L’essere umano tende a idealizzare il passato e a rifiutare l’innovazione. L’ansia, soprattutto in un presente di incertezza, è comprensibile. Siamo abitudinari, il cambiamento ci inquieta. Ma vivere ancorati al passato è un modo per perdere di vista il presente. Quei ricordi nostalgici possono trasformarsi in una gabbia che ci allontana dal tempo presente anche se quella è stata l’epoca dell’entusiasmoper mille progetti stimolanti. È un po’ come scegliere la meta per le vacanze: se si è stati molto bene in un luogo, è normale desiderare di tornarci. Il giusto atteggiamento, quindi, è quello di far convivere sia la memoria per il passatosia la voglia di guardare al futuro.
Tanto tempo fa, al Coindo e in tutte le borgate di Mocchie, prima del nascere dell’industria Società Anonima Bauchiero a Condove, la famiglia era composta da molti membri. Era costume che i figli maschi restassero tutta la vita all’interno della propria famiglia di origine mentre le donne, dopo il matrimonio, diventavano parte della famiglia del marito. In queste famiglie più generazioni vivevano insieme nella stessa casa, si partiva dai nonni ma a volte anche dai bisnonni e man mano i figli si sposavano generando altri figli (un minimo di quattro o cinque) la famiglia diveniva sempre più numerosa, ma tutti sottostavano all’autorità dei componenti più anziani che svolgevano dunque il ruolo di capifamiglia.
I maschi della famiglia e le donne più giovani che avevano l’età per lavorare si dedicavano ai lavori agricoli ed all’allevamento del bestiame per la sussistenza dell’intero nucleo famigliare. Le giornate iniziavano all’alba e terminavano a notte fonda, conoscevano bene l’alternarsi delle stagioni, ciò che preannunciava il temporale e quindi la necessità del darsi da fare, mentre capivano subito quando il tempo era favorevole, l’esperienza era condita dai proverbi e dai detti popolari. Si viveva di castagne, dei prodotti dell’orto, di una mucca, di qualche capra e del loro latte, della segala coltivata sulle fasce strette. Il bosco, certo: con la legna, i sentieri puliti come il letto dei torrenti e dei rii.
Le donne e uomini troppo anziani per lavorare nei campi si occupavano dell’orto, di piccoli lavori artigianali, della cura della casa e dei bambini raccontando loro storie e tramandando le usanze e tradizioni. A mezzogiorno rientravano in casa e tutti insieme prima di mangiare recitavano sempre una preghiera di ringraziamento. La preghiera e la religiosità rivestivano un ruolo molto importante nella famiglia di quei tempi. Anche alla sera quando terminava la giornata e tornavano dai campi e dalle varie attività si ritrovavano seduti attorno al camino. Ieri come oggi davanti al fuoco di un camino si lasciano fluire i pensieri e l’immaginazione alla viva fiamma della comunione e della condivisione. Intorno al camino c’era tutta la vita familiare: ci si scaldava, si cucinava, si recitava il rosario, si parlava, si ascoltavano le storie dei nonni, si raccontavano le fiabe ai bambini, c’era il passato, il presente e la speranza del futuro.
La ricchezza delle famiglie dipendeva dalle risorse possedute che recavano i profitti grazie alla loro vendita: poteva trattarsi dei frutti della terra, dei derivati del latte, di manufatti artigianali a seconda delle attività svolte. Ogni famiglia, anche la più povera, possedeva un campo per seminare patate, mais e segale, e un orticello dove coltivare fagioli, pomodori, carote, insalata e cicoria. Inoltre ogni famiglia possedeva un’estensione di prato più o meno vasta la cui erba serviva come foraggio per gli animali e sulla quale spesso crescevano spontaneamente alberi da frutto che in questo modo divenivano proprietà della famiglia.
Tutti questi prodotti erano a uso famigliare, ma qualche volta una parte di essi era venduta al mercato per ricavarne un piccolo profitto. Per poter vendere i prodotti, bisognava caricarseli in spalla nelle gerle e andare a piedi fino al mercato di Condove oppure a volte anche più lontano. Castagne e noci erano sfruttate maggiormente dai più poveri che avevano messo a punto metodi per poter conservare grandi accumuli di questi frutti senza che, col tempo, venissero assaliti dai vermi. La raccolta veniva fatta esclusivamente nel proprio terreno; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate. Per conservarle a lungo le castagne venivano messe a seccare nel solaio oppure essiccate all’interno delle abitazioni, utilizzando lo stesso focolare che serviva per cucinare i cibi e scaldare la casa.
Niente veniva buttato: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo diventando pane, polenta, castagnaccio, caldarroste, ecc. quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano per alimentare il fuoco, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle; i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi.
Con le noci invece quando non venivano anch’esse consumate come frutto, venivano utilizzate per ricavare olio con cui alimentare le lampade, a quel tempo non c’era ancora la corrente elettrica al Coindo.
Le famiglie di una volta vivevano nella semplicità di una società laboriosa, solidale e sostanzialmente buona ed onesta ma erano perennemente tormentate dalla fame e insidiate dall’arretratezza igienica, dalla scarsità di medicine, alla mercé di malattie che dilagavano e non concedevano scampo, che falciavano i bambini con le malattie infantili e la difterite, e distruggevano gli adulti con la polmonite.
Siamo portati a guardare al nostro passato con orgoglio, con soddisfazione, in qualche caso con nostalgia, ma non dobbiamo avere rimpianti. In quel tempo si aveva l’ansia di liberarsi da una condizione di miseria, dalla fame e da una vita dura e sacrificata. Quindi dobbiamo avere più fiducia nei tempi attuali ed essere felici del benessere generale delle famiglie d’oggi e delle molteplici possibilità e comodità della vita moderna, come pure della longevità che ci consente.
Tutti noi conserviamo un ricordo profumato dei luoghi in cui siamo cresciuti, quella che comunemente viene definita come l’immagine olfattiva di un luogo o il paesaggio profumato. Quando mio padre viveva al Coindo, borgata di Condove (TO), gli bastava aprire la porta di casa per sentire quei profumi di montagna, ogni giorno diversi, ad avere la sensazione di un paesaggio che appare e scompare al solo gesto di aprire e chiudere la porta nel far entrare o uscire l’aria da una stanza. Lui dalla porta osservava il sorgere del sole e l’aria carica di una sottile foschia che pian piano si alzava verso il cielo e sentiva l’inconfondibile profumo di muschio bagnato dalla rugiada.
Chi vive in montagna sa che ogni stagione, ogni giorno, ogni momento tutto cambia, compreso i profumi, profumo di primavera, di sotto bosco, di faggio, di betulle, di muschio, di ramaglie ai bordi dei sentieri, di menta selvatica, di prati ricoperti di crocus e ciclamini. E poi il debole sottofondo di odore di mirtilli, quello della corteccia e del muschio che la ricopre, a tratti il profumo dei funghi e quello delle foglie morte. Anche la terra ha il suo odore, quello della terra arida molto diverso da quello della terra umida, siamo pervasi continuamente da profumi e odori, ma non riusciamo più a riconoscerli, siamo troppo distratti.
Nella borgata si respira l’odore del bestiame e del latte appena munto che poi viene sapientemente lavorato e trasformato dal margaro in formaggio o burro. Anche l’odore del fumo dal camino contribuisce a ricaricarti di energia e puoi ritrovare equilibrio, pace ed armonia. E d’inverno avete presente quell’odore, quel profumo, di neve e freddo? L’acqua ghiacciata non dovrebbe avere odore, il freddo ancora meno… eppure quando si torna a casa ci sono i vestiti che si portano dietro quello stesso profumo. È un odore che non so spiegare come sia, ma ti rimane addosso.
Per me l’odore dell’erba tagliata di fresco, di un prato fiorito di narcisi o l’odore dei boschi mi ricorda la gioventù. Quando lo ritrovo è sempre una gradevole sorpresa e cerco di inspirare più che posso per prolungarne al massimo la sensazione di benessere e di piacere. È vero.. i profumi sono sensazioni che non cambiano con il passare del tempo, spesso un ricordo lontano parte proprio da una sensazione olfattiva.
Prato con narcisi
La montagna coi suoi profumi non è fatica: è lenta conquista del benessere e trasmette un senso di totale pace e serenità. Quando ci vado mi sento libero e mi estraneo da tutto. Sono avvolto dal silenzio e se poi mi fermo a dormire non c’è emozione più grande dell’osservare al buio la volta celeste o ammirare l’alba dai mille profumi, colori e sfumature.
Se si potesse racchiudere il profumo della montagna in un barattolo lo farei, lo metterei lì, sulla libreria, insieme alle vecchie foto, lettere, monete ad altre cose che mi ricordano il passato. Sarebbe un rimedio per evadere dalla realtà, non quella abituale, ma quando sento il bisogno di dare luce alle ombre. Nostalgie, rimpianti o chissà che…
Volendo fare un passo indietro, è inevitabile ricorrere ai primi anni ’50 del secolo scorso, periodo in cui ero bambino e gli inverni erano vissuti ben diversamente da quelli dei giorni nostri: allora nevicava veramente molto se raffrontato ai tempi attuali. L’arrivo dell’inverno con le giornate sempre più corte e fredde lasciavano prevedere l’arrivo ormai prossimo della neve. Le giornate corte costringevano chi non lavorava in fabbrica a passare molto tempo fra le mura domestiche, di solito riuniti nella cucina, l’unica stanza riscaldata della casa.
Gli inverni duravano almeno 4 mesi e la neve “la fiòca” era spesso presente con quantità considerevoli. Se la nevicata era lunga e fitta non si faceva in tempo a spalare la neve caduta che occorreva ricominciare. Poi, qualche nevicata era così intensa da creare pericolo per il tetto della casa, che potesse cedere sotto il peso della neve. Ricordo che papà si faceva aiutare da qualcuno esperto a liberare il tetto dalla neve, almeno in parte. Era una operazione tutt’altro che facile.
A casa nostra nel borgo dei Fiori avevamo un catino che dovevamo riempire d’acqua per lavarci mani e faccia al mattino. Ma nella notte tutto gelava e bisognava rompere il sottile strato di ghiaccio che si era formato. Gli inverni erano rigidi, c’erano i candelotti di ghiaccio ai tetti e il freddo che si pativa era tanto, ma nonostante i disagi nessuno in famiglia faceva troppe storie e si cercava di trascorrere al meglio la giornata. Con la neve al mattino presto, la mamma usciva di casa col badile per aprire un viottolo e cospargeva i punti più gelati del passaggio con la cenere della stufa, un metodo per far sciogliere più in fretta il ghiaccio accumulato.
Ma andiamo alla prima nevicata, la sua venuta l’avevamo già intuita. Stormi di cornacchie già da qualche tempo gracchiavano contro al cielo e venti freddi avevano finito di spogliare gli alberi dalle ultime foglie. Il suo arrivo lo si poteva anche scorgere al mattino sui prati, resi bianchi e scintillati dal suo gelido vento, e il suo candido ed ampio mantello lo si poteva già vedere sulle cime dei monti circostanti.
Nella notte è nevicato parecchio, in paese sono caduti una quarantina di centimetri. Al mattino svolazzava solo qualche fiocco di neve e il sole s’intravedeva timidamente, e subito scompariva, come se si vergognasse di dover sciogliere quelle forme tanto perfette. Gli alberi erano tutti ricoperti da uno spesso strato nevoso, che ne piegava e incurvava i rami a tal punto da richiamare alla mente l’aspetto di tante facce tristi. Ciò che colpiva era però il silenzio, tutto intorno non una persona, non un cane; solo qualche cornacchia nera che gracchiava e il suono della sirena delle Officine Moncenisio, che avvisava le maestranze di recarsi in fabbrica, rompeva quell’evidente immobilità, quell’assenza assoluta di rumori.
Non c’era l’esigenza di liberare le strade con urgenza, poiché quasi tutti andavano a piedi, le automobili erano poche. Il traffico sulle vie principali, pur essendo scarso, doveva comunque essere agevole, e così le strade comunali venivano liberate dallo spartineve trainato da cavalli. Lo spartineve “ël leson” era una grande slitta di forma triangolare, composta di due assi ad angolo unite fra loro con una stanga, e attaccate al loro vertice a un mezzo di traino (cavalli, in seguito veicoli a motore), più recentemente spinte avanti da autoveicoli.
Al suo passaggio gli abitanti liberavano gli ingressi delle proprie case. Con gran fatica, riuscivano a tracciare una sorta di sentiero. Quanto tempo è passato … e vivevo la mia infanzia felice e spensierata. L’inverno era la stagione più bella per noi bambini di allora. Era il tempo di giocare sulla neve. La raccolta del muschio per la preparazione del presepe, l’assemblaggio della neve a pupazzo, le battaglie a palle di neve tra le contrade del paese. Erano tempi duri ma la gente era contenta e noi bambini abbiamo passato gli anni più belli della nostra vita. Era proprio così: ricordo che un anno i mucchi di neve accumulati dallo spartineve a lato delle strade erano così alti e la neve così compatta che noi bambini potevamo scavare delle piccole gallerie all’interno dei mucchi stessi.
Si passava sulla neve quanto più tempo possibile, con la benedizione dei genitori, ben lieti che ci si divertisse in modo sano, ma probabilmente anche contenti di essere alleggeriti per un po’ di ore dalla nostra (gradita, ma ingombrante) presenza in casa.
Come non ricordarsi il divertimento delle “sghijaròle”, scivolare su piste ghiacciate create da noi ragazzi lungo le strade. Favolosa ma anche un po’ pericolosa era quella lungo la discesa di via G. Francesco Re una strada lastricata con ciottoli e concava con scolo al centro che una volta ghiacciato diventava una pista velocissima. Peccato che la cosa durasse in genere poco, in quanto sgradita ai grandi di ogni categoria e sesso che, ritenendosi minacciati nella loro incolumità dallo strato di ghiaccio vivo che rapidamente si formava sul percorso (si potevano vedere delle sederate spettacolari di persone dignitosissime), ricorrevano a drastiche contromisure quali lo spargimento sulla pista di antidoti vari, come sabbia, sale, cenere o segatura. Col che la festa si poteva ritenere per il momento conclusa (fino alla prossima nevicata).
Le protezioni dal freddo erano in pratica inesistenti: i guanti erano di lana “le mofle” e le scarpe di cuoio “coram” queste, in inverno, venivano unte con il grasso e alle suole degli adulti c’erano sovente i chiodini “le brochëtte” per renderle meno scivolose.
Ho fatto tuffo nel passato, un passato più povero dell’attuale ma più ricco di sentimenti, profumi e tradizioni ricordando altri inverni, più lontani e certamente più rigidi di quelli che la gran parte di noi conoscono, il riferimento va al 1885 (anno della valanga a Maffiotto), al 1929, al 1948, al 1956, al 1973 e al 1985.
Tutti i Piemontesi conoscono il Rocciamelone, una montagna delle Alpi Graie il cui nome ha origine antiche e misteriose, situato al confine con la Val di Susa e la Valle di Viù, questa montagna svetta con un’altezza di 3.538 metri. Si dice che il suo nome sia celtico: “Roc Maol” in questa lingua leggendaria “Maol” significasommità (perché appare come la più alta montagna della zona).
La vetta del Rocciamelone
Nel medioevo vi furono diversi tentativi di salita alla vetta, compreso uno da parte dei monaci dell’abbazia di Novalesa che, si legge negli annali dell’Abbazia, vengono respinti da vento e grandine. Il 1° settembre 1358 Bonifacio Rotario (Roero) da Asti compì la prima scalata documentata di una vetta alpina, collocando un prezioso ex voto, il famoso Trittico in bronzo dorato (definito “altarolo portatile”), sulla cima del Rocciamelone, dentro un piccolo antro scavato nella roccia, oggi inglobato nel Rifugio Cappella, sotto la statua della Madonna. Un’impresa tentata una prima volta arrivando solo a 2854 metri. Qui stabilì un accampamento che gli consentì poi di salire in vetta. La località, in onore dell’origine di Rotario, venne chiamata Ca’ d’Asti e vi sorgeranno una Cappella e un Rifugio.
La vetta in una immagine del secolo scorso
Questa storica impresa ebbe fin da subito un’importante eco, soprattutto a livello devozionale, non solo presso gli strati più bassi della popolazione, ma anche ai livelli più alti. Nel 1418, infatti, a sessant’anni di distanza dalla salita di Bonifacio, il duca di Savoia Amedeo VIII “il pacifico” volle salire sulla vetta del Rocciamelone. La prima menzione dell’altarolo compare in una anonima silloge epigrafica scritta poco dopo il 1585, intitolata “Inscritioni dell’antiche pietre marmoree, che si trovano in diversi luoghi di Susa”. Il Trittico rimase sul Rocciamelone, nell’antro fatto scavare dallo stesso Bonifacio e mal riparato da una precaria costruzione in legno, fino al 1673 quando si verificò un curioso episodio.
Il 6 agosto 1673 un certo Giacomo Gagnor di Novaretto nella Valle di Susa, detto “Giacomo il matto” per la sua semplicità, vedendo che molte persone si portavano nel giorno della festa per devozione sulla vetta del Rocciamelone, prelevò il Trittico dalla vetta e si recò a Rivoli alla Corte del Duca Carlo Emanuele II che lì si trovava in villeggiatura. Ammesso alla presenza del Duca e interrogato dal sovrano sul motivo della sua richiesta, disse che sapeva del desiderio di S.A.R. di vedere la Madonna del Rocciamelone, e per non fargli fare la faticosa salita, gliela aveva portata perché potesse venerarla. Da un sacco prese il Trittico e lo consegnò al Duca, il quale con tutta la Corte restò meravigliato, la fece subito collocare sull’Altare Maggiore della Chiesa dei Padri Cappuccini.
Successivamente convocò l’arcivescovo di Torino, mons. Beggiamo, perché verificasse le motivazioni che avevano spinto Giacomo Gagnor a tale gesto e questi stabilì che le intenzioni dell’uomo di Novaretto non erano state malevoli; inoltre, alcuni testimoni furono chiamati a verificare che l’oggetto portato dal Gagnor fosse effettivamente il Trittico posto sulla vetta del Rocciamelone. Di queste attestazioni è rimasta memoria in un verbale, citato da don Felice Bertolo nella sua opera “La Madonna del Rocciamelone”. Non appena si era sparsa la notizia dell’arrivo del Trittico a Rivoli, molti pellegrini si erano recati a venerare l’icona, grazie anche all’indizione di una novena di preghiera da parte della sovrana.
Alcuni giorni dopo il furto, il 15 agosto 1673, il Duca Carlo Emanuele incaricò il suo cappellano privato con il cappellano di Madama Reale di riportare il Trittico a Susa e consegnarlo al governatore della Città, il quale a sua volta lo avrebbe restituito al curato di San Paolo, don Stefano Vayr. La restituzione avvenne effettivamente il giorno dopo, 16 agosto, alla presenza del governatore e di numerosi altri testimoni e fu sancita da un atto notarile.
Il Trittico prima del 1673 era regolarmente conservato sulla vetta del Rocciamelone e solo in qualche rara occasione era riportato a valle. A conferma dei fatti vengono anche le memorie inerenti le visite pastorali condotte presso la Chiesa parrocchiale di San Paolo di Susa, al cui parroco era affidata al cura del Trittico. Sia quella del 1612 che quella del 1643, infatti, non registrano all’interno della chiesa la presenza di quest’ultimo. La situazione appare diversa nel 1702. In quell’anno si stava provvedendo a riedificare la chiesa e all’interno del nuovo edificio era prevista la presenza di due altari laterali; di essi uno doveva essere dedicato alla Madonna del Rocciamelone e doveva contenere il Trittico che in quel periodo era custodito temporaneamente presso la chiesa abbaziale di San Giusto.
Il 10 maggio 1728 l’Abate Vittorio Amedeo Biandrate di San Giorgio visitando la chiesa vide nella sacrestia, il Trittico del Rocciamelone, e seppe che era tradizione che venisse portato dal 5 al 24 agosto presso la cappella sulla cima del monte e lasciato alla pubblica venerazione con grande afflusso di fedeli.
Proprio in considerazione della grande devozione attirata dalla sacra immagine, l’abate diede ordine di non portare più il Trittico sulla vetta nei giorni della festa, ma di collocarlo in una nicchia che il curato di San Paolo avrebbe dovuto far costruire nella cappella dedicata alla Madonna del Rocciamelone. Tale disposizione fu però disattesa poiché ancora nel 1751, in occasione della propria visita pastorale alla chiesa abbaziale di San Giusto, dove l’icona era stata trasferita a causa della soppressione di quella di San Paolo, l’Abate Pietro Caissotti di Chiusano registrava che il Trittico, posto sopra l’altare delle reliquie, veniva portato sulla vetta del Rocciamelone il cinque agosto di ogni anno e lì veniva lasciato esposto alla pubblica venerazione per quindici giorni consecutivi. Segno, questo, di una devozione fortemente radicata verso l’antica icona e del forte legame della popolazione, non solo locale, con una pratica di fede che affondava le proprie radici lontano nei secoli e che ancora oggi si tramanda.
Il Trittico
Il Trittico rimase nella Cattedrale di San Giusto a Susa (Altare delle Reliquie) fino all’anno 2000 quando venne collocato nel Museo Diocesano di Arte Sacra della città situato nella chiesa della Madonna del Ponte. Esso si compone di tre parti, le due lastre laterali, incernierate, possono chiudersi come sportelli, proteggere l’interno decorato e rendere più comodo il trasporto. La tavola centrale raffigura la Vergine Madre seduta su ampio trono a cassapanca, col capo cinto da un’alta corona regale e in atto di sostenere con le braccia il Bambino Gesù; questi guarda verso la Madre, cui accarezza il mento con la manina destra, mentre con la sinistra regge una piccola sfera che simboleggia il mondo. Madre e Figlio hanno il capo circondato dall’aureola. Nell’anta collocata a sinistra di chi guarda si vede S. Giorgio a cavallo avvolto in un’armatura a maglie metalliche, la visiera dell’elmo calata sugli occhi, che con una lunga lancia trafigge nella gola il drago infernale che, riverso, è calpestato da uno zoccolo del cavallo. Sull’anta di destra sta ritto un santo barbuto, coi capelli scarmigliati e con aureola, probabilmente S. Giovanni Battista, Patrono dei Cavalieri detti anticamente di Gerusalemme, che presenta alla Madonna, ponendogli le mani sulle spalle, un guerriero inginocchiato, con le mani giunte in atto di supplica.
Non sono di buona memoria ma mi piace pensare di essere un aiuto nel ricordo delle botteghe, che ai tempi furono per molti anni, un vero e proprio presidio del territorio, fiorente attività, nonché punto di riferimento per le famiglie di contadini e montanari di tutto il paese.
Negli anni cinquanta del secolo scorso, a Condove la vita si svolgeva principalmente all’interno del paese, dove ci si conosceva tutti, tanto che molte famiglie venivano identificate con soprannomi spesse volte stravaganti, legati a caratteristiche somatiche o comportamentali del capostipite. Attorno alla piazza e nelle vie adiacenti c’erano il Comune, le scuole, l’asilo, l’ufficio postale, la Cassa di Risparmio, la Chiesa, il cinema e tante botteghe: la ferramenta di Alpe, il tabacchino delle sorelle Della Valle, la cartoleria, l’alleanza cooperativa torinese, le macellerie di Chiariglione e Benetto, la panetteria di Votta, il calzolaio, il barbiere, la merceria, la farmacia e poi tante osterie e la Bocciofila.
Nelle botteghe alimentari i prodotti in vendita non erano confezionati bensì si vendevano sfusi. Si vendeva di tutto un po’, poco ma di tutto. Si poteva acquistare al dettaglio: due etti d’olio di semi (era contenuto in fusti e al momento della vendita veniva versato nella bottiglia di vetro portata dal cliente) , quattro acciughe, un cavolo, due etti di pastina per la minestra o un chilo di riso, una bottiglia di candeggina, un sapone di Marsiglia, un pacchetto di olandese (surrogato per scurire il caffè fatto in casseruola), mezzo chilo di zucchero avvolto nella carta blu; o prendere dal mastello le mele ruggine o le mele in composta. La pasta era contenuta in cassetti e quando un cliente la voleva comprare il bottegaio la pesava e la incartava in un foglio dal tipico colore giallo ocra. Il droghiere è un po’ farmacista, per questo si potevano anche acquistare dei fiori di tiglio, malva, camomilla, chiodi di garofano, pepe, miele e altre erbe e spezie. Anche le caramelle non mancavano: mentine o pasticche (liquirizia e fiori di acacia) erano sempre sul bancone, per la gioia dei bambini. C’era il bottegaio più economico, quello che vendeva a “bon pat” (a buon mercato) ed anche quello che faceva “bon pèis” (buon peso) e quello che “at ciolava al pèis” (ti fregava al peso).
Man mano che si aprivano le porte, si sentiva l’odore del cuoio modellato da maestri calzolai, l’odore di mortadella e di salumi vari, di tome e burro. Sentiamo l’odore del legno e delle vernici nella bottega del falegname. Sentiamo nel negozio di ferramenta l’odore di petrolio, che serviva ad alimentare quelle vere e proprie opere d’arte che erano i lumi a petrolio, ancora molto in uso nelle borgate di montagna e negli alpeggi per l’illuminazione delle case.
Le botteghe rappresentavano il momento di incontro quotidiano dove risuonava solo il dialetto, due chiacchiere, uno scambio di informazione o, meglio, un aggiornamento su quanto era accaduto nei dintorni, una o più tappe obbligate nel percorso della giornata. Erano dei veri e propri centri da cui si apprendevano, e diramavano, notizie su fatti e persone del paese e dove, se fossero passati stranieri o, meglio,“forestieri” (appellativo con cui i Condovesi definivano tutti gli sconosciuti provenienti da altri paesi) non sarebbero, di certo, passati inosservati.
Le botteghe erano, inoltre, luoghi di confidenze, che vanno ben oltre il semplice pettegolezzo, che spaziavano dai consigli su cosa cucinare a pranzo e cena fino a spingersi su terreni più ampie complessi come il suggerimento di ingredienti, qui siamo al confine con l’alchimia e la magia, con cui curare i malanni o ritrovare la felicità. Il bottegaio diventava, così,un vero e proprio confidente da cui ci si attendeva molto più che la vendita di prodotti.
E chi entrava in bottega, lo faceva anche per scambiare “quattro chiacchiere” con un amico oppure con un conoscente, c’era il cliente che comprava sempre lo stesso tipo di formaggio, la massaia che amava farsi consigliare sempre e solo dal negoziante dalla battuta sempre pronta. I titolari delle botteghe di una volta conoscevano a memoria le abitudini alimentari delle famiglie del paese che frequentavano quotidianamente il loro negozio da anni. Si viveva per davvero, a quei tempi, in una grande famiglia allargata.
Una quotidianità più semplice e, senza dubbio, meno pretenziosa di quella attuale, in cui le relazioni umane rivestivano ancora un ruolo importante, fondamentale. Perfino con i negozianti si tendeva ad instaurare un rapporto sincero, di fiducia reciproca, che sottendeva la certezza di un buon acquisto.
Poi, come dice l’antico proverbio,il pesce grande mangia quello più piccolo, e la magia è svanita in una nuvola di bolle, l’espandersi di super e ipermercati hanno quasi cancellato questo tipo di negozi così accoglienti e famigliari.
Comuni che vanno, vengono, scompaiono, riappaiono o cambiano nome per italianizzarlo. La storia amministrativa comunale in Valle di Susa è assai complessa.
I nomi dei luoghi sono carichi di valori simbolici e la loro conoscenza condivisa all’interno della comunità può essere considerata come una delle manifestazioni della sua coesione. Tuttavia accade spesso che a livello ufficiale si impongano denominazioni di luoghi la cui forma, fissata nel tempo attraverso la scrittura, è molto lontana da quella che vive nell’oralità.
Durante il ventennio fascista, coerentemente con la politica di italianizzazione, un disegno del regime fascista che ha interessato tale periodo della storia d’Italia con l’intento di diffondere la lingua italiana, si cambiò la denominazione di alcuni comuni del Piemonte e della Valle d’Aosta. L’originale grafia francofona venne quindi italianizzata e trasformata, spesso con risultati comici. Fortunatamente i nomi originali furono in parte ripristinati dopo la seconda guerra mondiale.
Vediamo quali comuni in Valle di Susa sono stati oggetto di questa italianizzazione e quando è stato ripristinato il nome originale:
Nome originale
Nome italianizzato
Data
Ripristino
Chianoc
Chianocco
1939
no
Chiavrie
Caprie
1936
no
Clavières
Claviere
1939
no
Exilles
Esille
1939
1953
Oulx
Ulzio
1939
1960
Sauze d’Oulx
Salice d’Ulzio
1928
1947
Salbertrand
Salabertano
1939
1955
Sestrières
Sestriere
1935
no
Vayes
Vaie
1939
no
Venaus
Venalzio
1939
1967
I piccoli comuni della Valsusa furono cancellati in seguito ad una semplificazione avvenuta per una legge del 1927, che prevedeva la cancellazione delle piccole municipalità. Attuata l’anno successivo ebbe come vittime moltissimi comuni dell’alta valle di Susa. La causa principale fu lo spopolamento della montagna dovuto all’industrializzazione del fondo valle.
Sestriere e Champlas du Col nel 1934 si scambiarono i ruoli, un caso unico in Italia. Si arrivò poi al 1936 con la soppressione dei comuni sopra Condove per insolvenza economica dovuta alla costruzione della strada carrozzabile. Rollières, Fenils, Sauze di Cesana e Villar Dora passarono da un comune all’altro per poi trovare il posto che occupano tuttora. Oggi sopratutto a causa della crisi economica, c’è un ritorno verso i comuni piccoli, servirà a preservare le piccole municipalità? Vediamo le frazioni ieri comuni, e le municipalità che furono sciolte e poi ripristinate.
Gli ex Comuni della Valle di Susa
Desertes, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.
Bousson aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.
Mollières aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese
Rollières, aggregato nel 1870 al comune di Bousson e nel 1928 a Cesana Torinese.
Fenils, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.
Solomiac, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.
Beaulard, aggregato nel 1928 al comune di Oulx.
Savoulx, aggregato nel 1928 al comune di Oulx.
Rochemolles, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.
Les Arnauds, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.
Millaures, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.
Melezet, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.
Foresto, aggregato nel 1928 al comune di Bussoleno.
Sestriere, divenuto comune nel 1934 su terreni della frazione Sauze di Cesana.
Champlas du Col, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese, distaccato da quest’ultimo nel 1934 per andare a far parte del nuovo comune di Sestrières.
Thures, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.
Sauze di Cesana, aggregato nel 1882 al comune di Cesana Torinese e nel 1934 a quello di Sestriere per tornare nel 1947 a far parte del ricostituito comune.
Frassinere, aggregato nel 1936 al comune di Condove.
Mocchie, aggregato nel 1936 al comune di Condove.
Villar Dora, riunificato nel 1928 con Almese e Rivera per tornare nel 1955 a far parte del ricostituito comune.
Per i montanari l’anno iniziava l’11 di novembre, San Martino, un chiaro collegamento con la festa Celtica di Samhain che veniva festeggiata nella notte fra l’ultimo giorno di Ottobre e il primo di Novembre. Per i Celti questa festività segnava il Capodanno Celtico, importante momento di passaggio nel calendario agricolo e pastorale, legato al ciclo delle stagioni. In questo giorno si aprivano le porte fra il Regno dei vivi e l’aldilà territorio del divino e residenza dei defunti. Nella notte di Samhain secondo la tradizione celtica cadevano le barriere: vivi e morti potevano passare dall’uno all’altro dei due Regni. Oggi noi conosciamo Halloween e pensiamo sia una festa americana, ma in realtà è l’antica festa di Samhain, appunto, conosciuta e festeggiata da sempre nelle vallate piemontesi.
Con modalità diverse, ricorreva la volontà di avvicinarsi ai propri defunti nella notte tra la festa di Ognissanti e il giorno dei morti,
Al Coindo in onore dei defunti si usava recarsi al cimitero di Laietto a portare fiori sulle lapidi, lasciando a casa la tavola apparecchiata in modo che le anime dei defunti potessero rientrare nelle loro case e banchettare. Alcune famiglie per la cena del primo novembre apparecchiavano la tavola con un coperto in più dedicato ai defunti. Al rientro dalla visita al cimitero pasteggiavano con quanto trovato sulla tavola imbandita e si riscaldavano con del “vinbrulé”.
A Laietto la sera del 1 novembre, i campanari usavano fare una veglia notturna in ricordo dei defunti. Accendevano un fuoco nella base del campanile e preparavano delle castagne abbrustolite. Chiunque si presentasse in quella notte riceveva un po di caldarroste ed un bicchiere di vino e gli era permesso di suonare un tocco di campana in ricordo dei suoi defunti. Naturalmente il vino e le castagne erano stati raccolti nei giorni precedenti tra gli abitanti del Laietto e borgate limitrofe.
Si narra anche della processione dei morti che nelle notti senza luna uscivano incappucciati dalle tombe del cimitero di Laietto e s’incamminavano lentamente nei dintorni del cimitero stesso, rischiarandosi la strada col dito mignolo acceso, per poi recarsi nella cappella cimiteriale di San Bernardo dove a mezzanotte uno spettrale sacrestano suonava la campanella e accendeva le candele: allora un misterioso prete celebrava la messa dei morti nel silenzio raggelante della lugubre assemblea. Finita la messa, le candele si spegnevano ed i fantasmi sparivano e guai a chi si fosse arrischiato a curiosare. Si racconta di persone che incontrata la processione furono costrette a seguirla e poterono poi far ritorno a casa sane e salve riconoscendo gli errori che avevano commesso nella loro vita e chiedendo perdono a Dio.
La processione dei morti
Per la festa dei morti tradizionalmente si preparavano cibi appositi, soprattutto cavolo e castagne. Si mangiava la “supa dij mòrt”e si passava la serata mangiando castagne. In qualche casa si preparavano anche gli “òss dij mòrt”, biscotti duri e croccanti ai quali davano la tipica forma di osso. I cibi venivano lasciati per i morti sulle tavole oppure ai quattro angoli della casa oppure ancora sui davanzali delle finestre. Si lasciava un lumino acceso alla finestra perché i morti potessero trovare la strada.
Si lasciava per loro sul davanzale un piatto di castagne lesse “ij maron broà dij mòrt”, talora anche con un bicchiere di vino. Va da sé che normalmente i vecchi mangiavano le castagne e bevevano il vino per far credere ai nipoti che le anime dei morti fossero passate davvero ed avessero gradito l’offerta di cibo e bevande.
ZUPPA DEI MORTI (Supa ‘d còj ò supa dij mòrt a la mòda dël Coindo ‘d Condòve)
Ingredienti per 4 persone: un cavolo verza, 50g di burro, una cipolla, uno spicchio d’aglio, rosmarino, 100g di lardo, 1,5 litri brodo di gallina, 8 fette di pane di segala tostate; toma stagionata a pezzettini.
Pulite e lavate il cavolo, stracciate le foglie a pezzetti. Fate soffriggere nel burro un trito di cipolla, lardo, aglio e rosmarino quindi aggiungete le verze che farete insaporire molto bene nel condimento. Unite ora il brodo, pepate e all’occorrenza salate un poco. Lasciate cuocere a mezzo bollore finché il cavolo sarà pronto. Versate la zuppa nei piatti in cui avrete preparato fette di pane di segala tostate sulla stufa cosparse di abbondante toma stagionata a pezzettini.
La tradizione vuole che questa zuppa venga preparata la sera del 1 novembre e che al termine della cena, ne venga conservato un piatto in onore e ricordo dei defunti.
ZUPPA DEI MORTI (Supa dij mort a la mòda ‘d Susa)
Ingredienti per 4 persone: 1 cipolla grandezza media; 100 gr. di burro; 2 cucchiai d’olio; una cucchiaiata di erbe dell’orto tritate (rosmarino, timo, salvia, basilico); 2-3 cucchiai di salsa di pomodoro fatta in casa; 500 gr. di grissini o pane raffermo; brodo di gallina quanto basta, sale; una manciata di toma stagionata a pezzettini.
Far soffriggere la cipolla tritata con l’olio e il burro, aggiungere i gusti dell’orto, il pomodoro, i grissini spezzati grossolanamente o il pane raffermo e aggiungere il brodo. Cuocere per circa 30 minuti, cospargere di toma a pezzettini e dorare in forno.
La zucca di Halloween
Persino la tradizione di intagliare la zucca per la festa di Halloween non è del tutto Irlandese; nel Veneto, tradizionale zona di produzione di questo ortaggio, un tempo i contadini fabbricavano la “lumassa”, che in dialetto veneto significa lumicino, ovvero una zucca che conteneva una candela e a cui venivano praticati dei fori. Questa veniva collocata in luoghi oscuri per simulare delle scherzose apparizioni di anime defunte e per esorcizzare la paura della morte. Spesso infatti le “lumasse” facevano la loro macabra comparsa vicino ai cimiteri per spaventare i viandanti di notte.
Per intagliare la zucca di Halloween, ecco cosa occorre:
una zucca grande
un coltello sottile e ben affilato
un cucchiaio o uno scavino
un pennarello
una candela o un lumino
Eliminate la calotta superiore. Attraverso questa apertura dovrete svuotare la zucca dall’interno, quindi fate in modo che sia abbastanza grande da poter facilmente inserire una mano.
Non buttate via la calotta! Una volta svuotata, la zucca andrà richiusa con la sua calotta. Rimuovetela e pulitela dalla polpa e dai semi. Con l’aiuto dello scavino o del cucchiaio svuotate la zucca da tutto il suo contenuto (polpa, filamenti, semi).
Una volta che la zucca è vuota, disegnate con il pennarello una larga bocca, un naso dalla forma triangolare e due occhi grandi.
Intagliate la zucca con il coltello seguendo il disegno appena fatto. Inserite una candela piccola, o meglio un lumino dentro la zucca, accendetela e.. voilà! La zucca di Halloween è pronta!
Am mangio crua, sëcca, brusatà, broà e bujìa, chërso ‘n montagna e am ciamo castagna (Mi mangiano cruda, secca, arrostita, lessata e bollita, cresco in montagna e mi chiamo castagna).
Arriva l’autunno: le giornate grigie e questa breve filastrocca ripetuta spesso dalla mamma mi riporta agli anni cinquanta del secolo scorso, quando la raccolta delle castagne era un lavoro molto importante. Avevamo un piccolo castagneto al di sotto della borgata Coindo in prossimità delle case già disabitate di Chiandone. Partivamo al mattino presto da Condove papà mamma e figli su per la mulattiera. Già nei giorni precedenti il castagneto era stato ripulito da erbacce e falciato con cura. Gli alberi si trovavano su terreno in pendenza e per favorire la raccolta delle castagne si preparavano, in fondo al terreno, delle siepi con fascine di legna per permettere alle castagne cadute di raccogliersi e non rotolare troppo in basso, disperdendosi lungo i pendii o rotolando in proprietà altrui. La raccolta veniva fatta esclusivamente nel proprio terreno; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate.
Arrivati sul posto tutti si mettevano al lavoro, l’aria era pungente, ma piena di profumi del bosco. Per me bambino era veramente bello raccogliere le castagne e vedere il cesto riempirsi di questi frutti. Il problema più difficile erano i ricci, che pungevano le mani e gli scivoloni nel ripido castagneto. Mamma per lavorare meglio indossava un grembiale con una grande tasca e man mano che era piena la svuotava nei sacchi di iuta, si stava curvi sulla schiena per ore.
Le castagne si raccoglievano verso i primi giorni di ottobre. Poi dopo i Santi, cioè dopo il primo novembre si raccoglieva con cura tutto. Per far cadere i ricci ancora attaccati ai rami si utilizzava una lunga e pesante pertica di legno con la quale mio padre batteva i rami. La raccolta dei ricci a terra era compito della mamma e noi bambini, si raccoglievano con delle pinze in legno di castagno per non doversi chinare ed evitare di pungersi. Per separare le castagne dai ricci si usava un martelletto in legno oppure un semplice bastone. Dopo la raccolta delle castagne, bisognava anche occuparsi della pulizia del sottobosco perché il castagneto era un tappeto di foglie e di ricci.
I ricci venivano ammucchiati e bruciati sul posto; qualcuno li portava negli orti e nei campi come concime. Poi rastrellavano le foglie con il rastrello e riempivano una coperta di canapa o di tela che caricata a spalle o sulla testa veniva portata nel fienile. Molti anni fa, nelle stalle, si faceva la lettiera di foglie, oppure con le foglie si facevano i materassi. Per conservarle a lungo le castagne venivano messe a seccare nel solaio oppure essiccate all’interno delle abitazioni, utilizzando lo stesso focolare che serviva per cucinare i cibi e scaldare la casa. Chi aveva un grande raccolto usufruiva del metato o seccatoio, un casotto in pietra nel castagneto, destinato all’essiccazione delle castagne che, accumulate su graticci, venivano sottoposte a moderato calore. Poi si mettevano in un sacco di iuta che veniva sbattuto contro uno scalino o un ceppo per aprire la buccia della castagna. Quando la buccia era rotta le castagne si mettevano in una specie di cesta che si scuoteva finché il frutto non si liberava completamente della sua pelle, che veniva fatta cadere a terra. Si stava assieme in quei giorni mangiando nei boschi un pezzo di pane e formaggio e un bicchiere di vino per gli adulti e se la stagione era buona si portava a casa qualche fungo raccolto lungo la strada del ritorno a casa.
Se il raccolto era abbondante le castagne più grandi venivano vendute, mentre le medie e le piccole si tenevano per utilizzarle nelle ricette dei mesi invernali a costituire una componente importate della alimentazione. Per riconoscere e scartare le castagne non buone basta metterle a bagno in acqua fredda per circa un’ora: quelle che verranno a galla saranno da scartare perché sicuramente non buone.
Niente veniva buttato: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo diventando pane, polenta, castagnaccio, caldarroste, ecc. quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano per alimentare il fuoco, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle; i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi. Il suo legname serviva a riscaldare i casolari e materia prima per costruire attrezzi di uso quotidiano.
Alcune ricette popolari tramandate dai nostri nonni
CALDARROSTE
Per avere delle castagne arrostite facili da sbucciare incidere la buccia con un piccolo taglio in orizzontale sulla parte bombata del frutto, per evitare che le castagne scoppino durante la cottura e lasciarle in ammollo in acqua a temperatura ambiente per un’oretta prima di metterle nell’apposita padella coi buchi. Appena pronte mettetele in un sacchetto di carta o avvolte in un panno: il caldo renderà più facile il distacco della pellicina.
CASTAGNE BOLLITE
Castagne cotte al forno o bollite, aiutano a combattere la stanchezza tipica d’inizio autunno perché ricche di magnesio e manganese.
FARINA DI CASTAGNE
Questa può essere utilizzata per la preparazione di torte, ciambelle, frittelle e pane. Il pane fatto con farina di castagne può essere un gradevole sostituto del pane integrale. Si lega bene con verdure e ortaggi. E’ invece sconsigliata l’associazione con frutta acida, proteine animali, zucchero e vino perché può scatenare fenomeni fermentativi.
CASTAGNE CRUDE
Durante il giorno qualche castagna cruda addensa la saliva e forma anticorpi per proteggere dai malanni stagionali, tonifica i muscoli, i nervi e le vene.
DECOTTO DI CASTAGNE I decotti preparati con le foglie di castagna sono ottimi per effettuare i gargarismi in caso di infiammazione della bocca e della gola e rappresentano un ottimo rimedio per combattere la tosse. Per la preparazione del decotto di castagne si fanno bollire due cucchiai di foglie essiccate sminuzzate in mezzo litro di acqua per 5-6 minuti. Si lascia raffreddare e si filtra. Il liquido così ottenuto va bevuto a piccoli sorsi.
RIMEDIO PER MACCHIE DELLA PELLE
Per schiarire le macchie della pelle far bollire le castagne e schiacciarle riducendole ad una purea alla quale si dovrà aggiungere del succo di limone; il composto così ottenuto va applicato sulle macchie e lasciato agire per una ventina di minuti.
Chi non è stato almeno una volta intorno ad un fuoco dalle fiamme vive e guizzanti? In campeggio o nella casa di campagna? Il fuoco è un luogo evocativo che ispira la gioia e il piacere del ritrovarsi insieme. Più di centomila anni fa gli uomini già avevano acquisito la capacità di controllare il fuoco, mantenendolo acceso e impedendo che si propaghi. Fu un punto di svolta nell’evoluzione culturale dei primi uomini, e consentì loro il controllo di una fonte di luce e calore. In particolare, tale scoperta permise la cottura dei cibi, l’espansione in climi freddi, lo sviluppo dell’attività umana nelle ore notturne, la protezione dai predatori e la costruzione di migliori utensili per la caccia e le altre attività.
Ma oltre a questo aspetto utilitaristico, il fuoco aveva poi un aspetto sociale. Sedersi attorno al falò significava per i nostri antenati, socializzare elaborando contenuti etico-spirituali. La sera davanti al fuoco si svolgevano cerimonie, si raccontavano storie, si cantava, si danzava. Una volta nei conventi c’era il cosi detto “fuoco comune”, quando di sera i frati si radunavano davanti al camino per un momento di svago e di fraternità. Il “fuoco comune” rimane nell’immaginario collettivo il luogo domestico per eccellenza che richiama l’intimità e l’affetto della famiglia. Ieri come oggi davanti al fuoco di un caminetto si lasciano fluire i pensieri e l’immaginazione, ci si rilassa e ci si riscalda alla viva fiamma della comunione e della condivisione. Intorno al camino c’era tutta la vita familiare: ci si scaldava, si cucinava, si recitava il rosario, si parlava, si ascoltavano le storie dei nonni, si raccontavano le fiabe ai bambini, c’era il passato, il presente e la speranza del futuro.
Bisognava alimentare quel fuoco, era un’incombenza importante. In alcuni paesi quando un figlio si sposava, prendeva un tizzone acceso dal focolare della propria famiglia e con esso accendeva il camino della sua nuova casa: un passaggio di testimone importante e denso di significato.
Se consultiamo un dizionario della lingua italiana, alla parola “fuoco” troviamo, tra le varie definizioni, anche quella di “nucleo familiare”. Mio nonno per capire quante persone abitavano in una borgata non conosciuta contava i comignoli: il camino era necessario per il riscaldamento e per cucinare, non mancava mai nelle abitazioni e nel contare calcolava che ad ogni camino ci fosse una comunità di 4 o 5 persone.
Per chi lo abbia sperimentato almeno una volta nella sua vita il fascino del camino è ineguagliabile, tanto più quando esso diventa sede e strumento di iniziative famigliari o sociali. In realtà esso è il risultato di un’evoluzione notevole rispetto all’antico focolare situato al centro della stanza in cui si viveva durante il giorno.
Il camino moderno, come lo conosciamo, nacque nel 1200, con la finalità di prevenire gli innumerevoli incendi, in più parti vennero promulgate leggi che imponevano la costruzione delle abitazioni in pietra. Da questo momento in poi ci si poteva permettere il lusso di non avere più l’ingombro del fuoco al centro dell’ambiente e di posizionarlo a parete con la possibilità anche di creare una canna fumaria vera e propria. È nato il camino moderno, così come lo conosciamo noi. Ci sono camini piccoli, altri grandi e profondi, camini monumentali nelle case patrizie e nelle grandi abbazie, intorno ad essi sono state costruite le civiltà.
È un’arte l’accensione del fuoco: legnetti piccoli, un ceppo più grande, la carta sotto a tutto, le pigne che danno profumo. La scelta della legna è importante, quella umida riempirebbe la stanza di fumo.
Oggi è raro avere il camino e anche chi ce l’ha difficilmente lo accende. Eppure le nostre famiglie possono ancora essere fuochi, riunendo intorno alla tavola parenti e amici. Il camino può essere accora acceso, metaforicamente, col nostro amore, la nostra amicizia, la nostra fratellanza. La nostra società è più che mai bisognosa di famiglie che tornino ad essere fuochi.
Novembre 2022 – In Cognomi Condovesi, sono pubblicate le ricerche sulle origini di 47cognomi Condovesi.
Aggiornato in La Storia – Il Francoprovenzale il piccolo vocabolario Italiano-Francoprovenzale-Piemontese in formato pdf.
In Cercando le nostre radici – Come si viveva una volta, percorriamo la strada alla scoperta della vita al Coindo e Laietto nel 1900÷1905, vita difficilissima irta di difficoltà e di miseria per i montanari, ma anche il mondo da cui deriviamo e che non dobbiamo dimenticare.
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