Mi piace scavare nel passato, ma soprattutto, amo i luoghi abbandonati della montagna Condovese che assomigliano a fantasmi di pietra, dove vecchie storie raccontano eventi e situazioni passate dai nostri avi, storie che sanno di semplicità, povertà e onestà. Mi piace entrare nelle case abbandonate e guardare cosa resta della memoria di chi era vissuto.
Oggi faccio un salto alla borgata di origine della mia famiglia e di tante altre con lo stesso cognome Cordola: il Coindo (Ou Couindou in francoprovenzale, ël Coindo in piemontese – si pronuncia Cuindu) un piccolo borgo rurale del comune di Condove diviso in due agglomerati di case denominati l’uno Superiore e l’altro Inferiore (Couindou damoùn e daveù).
Sino al 1936 le due borgate han fatto parte del Comune di Mocchie poi aggregato con il Comune di Frassinere a Condove. La parrocchia di appartenenza è Laietto. Le frazioni sono collocate sul versante esposto a sud della Valle di Susa e poste in destra idrografica del torrente Sessi. Il terreno, su cui si alternano principalmente faggeti, castagneti e pascoli, è caratterizzato da una decisa pendenza verso il fondo valle ed il torrente Sessi.
Al borgo superiore si arriva a piedi dopo aver percorso una mulattiera dalla provinciale che porta alla frazione di Laietto. Case a due piani, la stalla e la cucina sotto e sopra le camere, a volte un fienile, tetti coperti da lastre di pietra.
Solo 100 anni fa, una cinquantina di persone sopravviveva in questa borgata, che fu abbandonata quasi di colpo perché arrivarono strade migliori e la gente riuscì a scappare da quella che considerava una schiavitù, consegnandosi al paese dove, dal 1906, stava crescendo la prima grande industria: La Società Anonima Bauchiero per la costruzione di veicoli ferrotranviari. Sono rimaste case, mulini, barme, fontane: ruderi coperti di polvere, ragnatele, divorati dalle erbacce e dal tempo. Paese fantasma che è ormai difficile scorgere, nella boscaglia. Però sono ancora lì, nascosti e a loro modo vivi: testimonianza di un tempo recente eppure lontanissimo che meriterebbe di essere conosciuto, ricordato.
Una borgata che era davvero molto popolosa, gente di montagna, gente d’altri tempi, dalla tempra e dal carattere forte come le rocce che neanche il vento riesce a scalfire. Persone laboriose, avvezze al lavoro e alla fatica quotidiana, ma, al contempo capaci di sorridere, anzi, di ridere con quei modi di essere arguti e sornioni.
Le giornate iniziavano prima dell’alba e terminavano a notte fonda, conoscevano bene l’alternarsi delle stagioni, ciò che preannunciava il temporale e quindi la necessità del darsi da fare, mentre capivano subito quando il tempo era favorevole, l’esperienza era condita dai proverbi e dai detti popolari. Si viveva di castagne, dei prodotti dell’orto, di una mucca, di qualche capra e del loro latte, della segala coltivata sulle fasce strette. Il bosco, certo: con la legna, i sentieri puliti come il letto dei torrenti e dei rii.
Mia nonna “Melain (Cordola Melania 1858-1929)” curava la casa, le bestie nella stalla, il piccolo orto davanti casa e lavorava il latte. Il nonno “Djàn dla bèrdzera (Cordola Giovanni 1862-1946)” si occupava dei lavori nei campi, nel bosco e di un pergolato davanti casa carico di grappoli d’uva che ogni autunno trasformava in vino. Il fratello del nonno “Miqlin (Cordola Michele 1846-1929)” valente falegname creava oggetti in legno per tutta la piccola comunità; si trattava di arte povera limitata alle cose essenziali cioè armadi, sedie, tavoli, cassapanche, sgabelli e tutto ciò che poteva servire in casa, con un lavoro di pialla e scalpello. Alla sera si radunavano nella stalla del nonno oppure in quella di “Carlin (Cordola Carlo 1847-1929)”, “Cetch (Cordola Francesco 1851-1918)” o “Tounin (Cordola Antonio 1845-1930)”.
Là, alla luce del lume a petrolio le donne più anziane filavano la lana, le più giovani facevano la maglia o rammendavano, i giovani incontravano le ragazze nubili sotto lo sguardo vigile delle madri, gli uomini chiacchieravano, giocavano a carte e soprattutto raccontavano di fatti magici vissuti o risaputi, mentre i bambini ben svegli sgranavano gli occhi per l’interesse e per la paura, pronti a farsi accompagnare per andare a dormire onde non rischiare improvvisi avvistamenti delle masche. La serata finiva con un buon bicchiere di vino.
Non mancava lo spirito di collaborazione: quando una mucca doveva partorire tutti, in quella stalla davano il meglio e diventavano veterinari.
Lascio il Coindo e raggiungo i ruderi della borgata Chiandone affrontando grovigli di liane e di rovi, come un esploratore a colpi di roncola. Riscopro questi luoghi perché non ne vada perduta la memoria: scosto porte cigolanti, mi avventuro sotto tetti pericolanti, trovo piccoli dettagli: un paio di scarpe sfondate, lo scheletro di un letto, piatti sbeccati e cocci di bottiglia, una scritta a carbone sulla pietra, che raccontano storie infinite.
A volte tornando in questi luoghi sento un brivido come percepissi delle presenze e mi convinco che un giorno la gente capirà che questi posti non devono essere abbandonati e tornerà ad abitarli. Una casa al Coindo è già stata ristrutturata nonostante la mancanza di una strada carrozzabile e mi auguro non resti l’unica ma venga seguita da altri interventi.
Gianni Cordola