Oltre settanta anni fa, nelle nostre montagne, commerciare significava portare in paese nel giorno di mercato i prodotti che ciascuno possedeva, venderli e col ricavato comprare nei pochi negozi l’occorrente per la settimana. Allora i paesi presentavano un aspetto molto diverso dall’attuale sotto il profilo delle attività commerciali e della vita quotidiana. A quei tempi non esistevano naturalmente i supermercati e i centri commerciali, inoltre i mezzi di trasporto e gli spostamenti da un paese all’altro erano assai rari. In paese si doveva trovare il necessario dai generi alimentari, alla merceria, alle botteghe del sarto o del calzolaio. I vizi come, per esempio, i sigari toscani, le sigarette e il tabacco da pipa e da naso erano comprati dal tabaccaio. Poi nei negozi si comprava sia per la cucina che per i bisogni giornalieri, il sale, lo zucchero e il caffè da macinare, le candele, le acciughe sotto sale e qualche grammo di conserva di pomodoro (che i bambini mangiavano durante il percorso dal negozio a casa). Era l’epoca in cui il tonno e la giardiniera sottaceto si compravano a peso: essi venivano prelevati da grandi scatole di latta, sgocciolati e deposti su un foglio di carta oleata o paraffinata, poi ulteriormente avvolto in carta normale. La marmellata era prelevata con un cucchiaio da grosse scatole ed era quasi sempre di albicocche o di ciliegie. Per lo zucchero, anch’esso venduto al minuto, si usava una carta blu che si chiamava appunto carta da zucchero. Il macellaio, infine usava una pesante carta di colore giallastro.
Erano allora di moda i dadi Liebig per fare il brodo, a cui si aggiunsero ben presto i formaggini triangolari avvolti in carta stagnola e, tra i dolciumi, i bastoncini neri di liquirizia, la liquirizia di legno da masticare e le pasticche di liquirizia, queste ultime vendute in scatolette cilindriche di alluminio da cui potevano essere prelevate scuotendo la scatoletta dopo aver fatto coincidere per rotazione i fori esistenti nelle due parti ad incastro della scatola. Non sempre il negoziante veniva pagato all’atto della spesa, le contadine lasciavano il debito facendosi segnare il conto su un quadernino; poi, alla fine del mese, o quando si guadagnava qualche soldo dai lavori, come la raccolta dei frutti della terra, il latte ottenuto dalle mucche, gli agnelli o altri prodotti, si saldava il conto.
Esisteva una strana diffidenza tra venditore e acquirente, legata al peso reale della merce. Contestato era l’uso abbondante di carta in cui avvolgere la merce, la vendita dei salami pesandoli con il piombino (che era di legge, ma non era commestibile).
Non tutto il commercio avveniva nei negozi del paese, esistevano anche gli ambulanti, il cui passaggio era un interessante diversivo. Erano mercanti che dopo aver passato la mattinata in un mercato, al pomeriggio giravano per le borgate raggiungibili con l’automezzo a vendere la loro merce. Una donna mi raccontava di un signore che arrivava col furgoncino nella borgata senza negozi un giorno fisso della settimana e allora passava lui con tutto il ben di Dio possibile, dalla pentola alla scopa, le mutande le calze e il grembiule, frutta e verdura di stagione, biscotti, caramelle e formaggi stagionati.
Mi dicono che era atteso perché alcune donne gli avevano ordinato chissà quale tipo di filo per il cucito. Quando arrivava suonava con il clacson e chiamava “son si bele madamin-e”, scendeva dal furgone con il suo grembiule con due tasche piene di foglietti e di monete. Le mamme erano contente di vederlo lo avevano aspettato tutta la settimana. Ai bambini dava sempre qualche caramella in regalo e le nonne quel giorno regalavano ai nipoti sempre qualcosa che acquistavano da lui, una matita o una scatola di gessetti preziosi durante i giochi, e poi ordinavano la spesa o il necessario per quando sarebbe tornato la settimana dopo.
Gianni Cordola