Ël travèt

Per i piemontesi “travèt” ha significato di impiegato modesto e diligente di bassa leva che ritiene di avere trovato “il posto sicuro”. Umile impiegato sempre maltrattato, sciatto, monotono, servile ma utile come un travetto per sostenere l’Amministrazione pubblica piena di falle.

Il termine deriva dal nome di Ignazio Travèt, protagonista della commedia piemontese “Le miserie ëd Monsù Travèt” scritta da Vittorio Bersezio. Opera in piemontese andata in scena per la prima volta al teatro Alfieri di Torino nel 1863. Tale raffigurazione non piacque al folto numero di impiegati statali che fischiò l’opera durante la prima; ma in seguito essa ebbe un grande successo, e il nome del protagonista entrò nella lingua italiana ad indicare appunto un impiegato vessato.

Non è una parola che capita spesso di vedere o udire, ma la figura da cui nasce, l’impiegato Ignazio Travèt, ai suoi tempi ha avuto un gran mordente sull’immaginario collettivo e di quando in quando viene ancora usata da saggisti o giornalisti particolarmente colti.

Il signor Travèt (cioè “travetto”, piccola trave) nella commedia di Bersezio è un impiegato pubblico che sul posto di lavoro subisce le vessazioni di un capoufficio che lo odia, vive la continua frustrazione di vedere cani e porci venir promossi prima di lui e svolge compiti monotoni e ripetitivi. Nonostante ciò nelle proprie mansioni è diligente, puntuale, e affronta il dovere con vero spirito di sacrificio; per di più nemmeno a casa le cose vanno meglio, per il signor Travèt, visto che anche lì subisce maltrattamenti da parte di moglie, figli e domestica.

Così il travet diventa per antonomasia il piccolo burocrate dedito tanto al proprio lavoro quanto all’ingoiare rospi con modestia. Una figura che anche a circa centosessanta anni di distanza dalla prima de “Le miserie ëd Monsù Travèt” non è certo sparita. Una parola bella e incisiva che veramente può impreziosire un discorso.

Teatro Alfieri di Torino

Per comprendere meglio la vita di un modesto impiegato nel 1870 ho letto il regolamento che disciplinava il comportamento dei dipendenti nello Stato Vaticano in un libro pubblicato dalla Pontificia Universitas Gregoriana, Miscellanea Historiae Pontificiae, dal titolo: La Vita religiosa a Roma intorno al 1870 ricerche di storia e sociologia, a cura di P. Droulers, G. Martina e P. Tufari dove sono citate le norme cui dovevano attenersi tutti gli impiegati delle ditte e delle botteghe presso lo stato Vaticano.

Il regolamento in Vaticano nel 1870

  1. Gli impiegati dell’ufficio devono scopare i pavimenti ogni mattina, spolverare i mobili, gli scaffali e le vetrine.
  2. Ogni giorno devono riempire le lampade a petrolio, pulire i cappelli e regolare gli stoppini, e una volta la settimana dovranno lavare le finestre.
  3. Ciascun impiegato dovrà portare un secchio d’acqua e uno di carbone per la necessità della giornata.
  4. Tenere le penne con cura; ciascuno può fare la punta ai pennini secondo il proprio gusto.
  5. Questo ufficio si apre alle sette del mattino e si chiude alle otto di sera, eccettuata la domenica, nel qual giorno resterà chiuso. Ci si aspetta che ciascun impiegato passi la domenica dedicandosi alla chiesa e contribuendo liberamente alla causa di Dio.
  6. Gli impiegati uomini avranno una sera libera alla settimana a scopo di svago, e due sere libere se vanno regolarmente in chiesa.
  7. Dopo che un impiegato ha lavorato tredici ore in ufficio, dovrà passare il rimanente tempo leggendo la Bibbia o altri buoni libri.
  8. Ciascun impiegato dovrà mettere da parte una somma considerevole della sua paga per gli anni della vecchiaia, in modo che egli non diventi un peso per la società.
  9. Ogni impiegato che fuma sigari spagnoli, faccia uso di liquori in qualsiasi forma, frequenti biliardi o sale pubbliche, o vada a radersi dal barbiere, ci darà una buona ragione per sospettare del suo valore, delle sue intenzioni, della sua integrità e onestà.
  10. L’impiegato che avrà svolto il suo lavoro fedelmente e senza errori per cinque anni, avrà un aumento di paga di 5 centesimi al giorno, ammesso che i profitti della ditta lo permettano.

Gianni Cordola

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