Le stagioni del montanaro ieri

La vita una volta si svolgeva molto all’aria aperta. L’economia delle borgate di montagna nei comuni di Mocchie e Frassinere (ora Condove) nella Valle del Sessi e del Gravio era un’economia di sussistenza. Ogni famiglia, anche la più povera aveva un orticello dove coltivare fagioli, pomodori, carote, insalata e cicoria, ed un prato più o meno vasto la cui erba serviva come foraggio per gli animali e sulla quale spesso crescevano alberi da frutto e un campo per coltivare patate, segale o altri cereali. Tutti questi prodotti erano a uso famigliare, ma una parte di essi era venduta al mercato per ricavarne un piccolo profitto. Per poter vendere i prodotti, bisognava caricarseli in spalla nelle gerle e scendere a piedi fino al mercato settimanale di Condove.

L’impegno lavorativo dei contadini di montagna era scandito dalle stagioni. La primavera imponeva ritmi più pressanti, l’estate era sicuramente la stagione più impegnativa mentre l’autunno portava qualche lavoro durante il quale era anche possibile divertirsi, generalmente l’inverno non richiedeva ritmi di lavoro faticosi.

PRIMAVERA

Con l’arrivo della primavera i ritmi di lavoro si facevano più pressanti. Nei posti a media altitudine tutti i campi dovevano essere arati e seminati entro aprile. La semina dei campi veniva fatta manualmente. La tradizione fissava il giorno della festa di San Giorgio come termine ultimo per la semina dei campi. Per quella data anche tutti gli steccati e le recinzioni danneggiati dalla neve dovevano essere riparati e messi in ordine.

Generalmente alla fine di marzo la neve è tutta sciolta ed i prati attorno a Laietto rinverdiscono in brevissimo tempo. È tutto un animarsi dopo il lungo periodo invernale: i bambini vanno in cerca delle prime viole, e gli adulti si accingono ai primi lavori. Incominciano con la pulizia dei prati che consiste nella rimozione di qualche piccola pietra, estirpazione di eventuali cespugli, pulizia e riattivazione dei canali di irrigazione.

Non vanno dimenticati i muri a secco, e la loro durata dipendeva dall’abilità di chi li sapeva fare. Era indispensabile trovare il posto giusto per ogni pietra, servirsi di quelle più larghe e più regolari per disporle a strati continui in lunghezza del muro in opera. I muri fatti a terrazzamento e sostegno dei campi, richiedevano di essere riparati sovente, anche perché greggi pascolanti che nella primavera e nell’autunno attraversavano questi terreni, ne causavano il crollo. Lungo le mulattiere che raggiungono Laietto vi sono muri ancora in discrete condizioni, costruiti in corvée da montanari che possedevano tanta pratica e capacità.

Terminata la pulizia dei prati si procedeva a portare il letame nei campi destinati alla coltura delle patate ed a trasportare un grosso solco di terra dal fondo in cima al campo. Questo accorgimento veniva riservato specialmente per quei campi che avevano una notevole pendenza. Ai primi di aprile, o fine marzo eccezionalmente se la stagione era avanzata, si seminava l’avena, utilizzando i campi in cui l’anno precedente si era raccolta la segale, quindi non si adoperava il letame; si riteneva che fossero sufficientemente fertilizzati dalle stoppie di paglia rimaste.

Contemporaneamente all’avena venivano seminati fave e piselli. Questi due prodotti non venivano coltivati negli orti, ma nei campi per averne una quantità sufficiente anche per il bestiame.

L’orzo si seminava qualche settimana dopo, non più tardi della festa di San Giorgio (23 aprile). Infatti un proverbio dice: a San Giorgio semina l’orzo. Nella seconda quindicina di maggio si trasportava il letame nei campi destinati alla semina della segale in autunno. Successivamente avveniva la prima aratura, che doveva aver termine non più tardi della fine di giugno.

Il terreno così preparato rimaneva a riposo fino ai primi di settembre, epoca in cui si procedeva alla seconda aratura e semina di segale, e un po’ più tardi anche quella del frumento.

Tra la metà di aprile e i primi di maggio si seminavano le patate; dopo circa 20 giorni si rincalzavano, poi si facevano i solchi per poterle irrigare a scorrimento a tempo dovuto. Poi giungeva l’epoca degli orti con porri, sedani, cavoli, anche questi concimati e arati in precedenza. I fagioli, le fave, i piselli, conservati per la semina venivano fatti essiccare nei solai.

Nei lavori di campagna i contadini seguivano con particolare attenzione le fasi della luna. Quando era nuova, di pochi giorni, non bisognava neppure smuovere la terra, poteva far crescere le erbacce; tanto meno porre le piantine da orto di sedano e porri e seminare l’insalata, perché rischiavano di montare e perdere del loro sapore. Le patate dovevano essere seminate non più tardi dei primi giorni dell’ultimo quarto di luna. A parte i fiori non si doveva seminare nessun prodotto prima che la luna avesse un mercoledì ed un venerdì.

Anche il taglio della legna era condizionato dalla fase lunare. Trattandosi di legna da ardere, l’abbattimento delle piante si effettuava in luna crescente: la legna per manufatti doveva invece essere ricavata da piante abbattute in periodo di luna calante. La canapa veniva seminata in primavera inoltrata, il terreno doveva essere sufficientemente caldo, per non incorrere nel rischio di una gelata improvvisa.

A giugno le famiglie che avevano più animali salivano all’alpeggio, accompagnati da un fedele cane pastore. Esso consisteva nel trasferimento, per l’intero periodo estivo, del bestiame e della famiglia in baite a quote più elevate tra i 1400 e 1800 metri e coincideva solitamente con il periodo che va dai primi di giugno a metà settembre. In quei mesi gli uomini scendevano al mattino dall’alpeggio per continuare ad effettuare i lavori nei campi giù in borgata e facevano ritorno la sera.

ESTATE

Da giugno fino alla fine di settembre c’era ben poco da riposare. I lavori più importanti erano la fienagione e la mietitura dei cereali: la segale, l’orzo, il grano saraceno e l’avena. A giugno nei prati la fioritura è completa e quasi incomincia a sfiorire, il fieno è maturo, è giunto il momento della fienagione di primo taglio che si concluderà a settembre, con il fieno di secondo taglio: giornate faticose, specialmente per gli uomini.

Ci si alzava molto presto e si partiva con le falci a spalla quando il cielo era ancora stellato e la mulattiera per raggiungere i prati appena visibile. La martellatura della falce era già stata fatta la sera precedente. Il lavoro veniva compiuto interamente a mano ed impegnava duramente e a lungo l’intera famiglia.

Il giorno successivo, quando comunque il fieno aveva subito una parziale trasformazione e cominciava ad appassire, si provvedeva con il rastrello a formare lunghe file orizzontali. Quando era accertata la completa essiccazione, si provvedeva alla raccolta per mezzo del tridente in grandi mucchi, mentre con i rastrelli si provvedeva alla minuziosa raccolta del fieno rimasto sul terreno.

Per la raccolta a seconda della quantità e della distanza da casa si avvaleva di diversi metodi: la coperta da fieno, la fraschera, il barione e la trappa. Quanta fatica prima che il fieno fosse sistemato nel fienile.

Anche la segale nella seconda metà di luglio ha lasciato il suo bel colore verde ed è diventata bionda con lunghe spighe cariche di chicchi, ed aspetta di essere falciata. L’attrezzo principale era la falce con il necessario corredo di cote e portacote che servivano ad affilarla. La mietitura veniva fatta a mano. Un uomo con la falce iniziava a tagliarne una striscia e una donna dietro di lui raccoglieva la segale facendone dei fasci legandoli con la stessa paglia di segale e lasciandoli sparsi nel campo. Quando erano terminate la fienagione e la mietitura che sospiro di sollievo.

AUTUNNO

L’autunno portava con se anche alcuni lavori durante i quali ci si divertiva, perché non erano pesanti e si svolgevano in compagnia, come per esempio la lavorazione della canapa e del lino, che coinvolgeva la famiglia e il vicinato. L’autunno era anche la stagione della trebbiatura, che doveva essere portata a termine prima dell’inizio dell’inverno, e mentre nelle zone ben esposte tipo Villa di Mocchie, Gazzina, Bertolere, Borlera, Bonaudi, Pralesio e Roceja era la stagione della vendemmia, più in alto si raccoglievano le castagne.

Trascorsa l’estate, l’autunno avanza e rimangono ancora molti lavori da sbrigare prima che l’arrivo della neve obblighi tutti, animali e montanari ad un lungo riposo invernale. Il terreno preparato, già fertilizzato ed arato nel mese di giugno, rimaneva a riposo fino ai primi di settembre, epoca in cui si procedeva alla semina della segale e, qualche giorno più tardi,a quella del frumento. Come non ricordare la figura del seminatore, con la sua grossa sacca allacciata al collo ed il suo largo gesto del braccio che spargeva la semente in tutto il campo. I semi non tardavano molto e germogliare e dare vita ad una nuova piantina che resterà poi per tutto l’inverno sotto la neve e il gelo in attesa della primavera.

Dopo la semina si procedeva alla raccolta delle patate: venivano estratte col bidente. Le patate si lasciavano asciugare qualche ora nel campo, poi si portavano nella cantina, dove venivano sistemate negli spazi loro riservati. I cavoli ed i porri erano gli ultimi ad essere estratti, si poneva ogni cura affinché un poco di terra rimanesse tra le loro radici e poterli quindi trapiantare in cantina nell’apposito strato di terra e sabbia. Le carote poi, spogliate dalle foglie e distribuite a strati in cassette, venivano completamente ricoperte di sabbia asciutta, e si conservavano fresche per alcuni mesi.

Nel mese di ottobre si raccoglievano con molta cura le mele prodotte dalle poche piante esistenti, mele rosse che conservate sopra la paglia su degli appositi ripiani,in luogo fresco ma non freddo, erano veramente deliziose. A maturazione completa le noci venivano abbacchiate con una lunga pertica e fatte seccare riposte in cesti appesi nei solai: pochissime noci venivano mangiate come frutta, la maggior parte servivano per ricavarne olio.

Prima che le foglie cadessero ad ogni pianta di frassino si tagliavano con cura i rami con tutto il fogliame, se ne facevano delle fascine, sistemandole poi nella grangia su delle apposite sbarre e costituivano un ottimo mangime per le pecore durante l’inverno. Le fascine si portavano alla stalla la sera precedente perché fossero meno friabili e si davano alle pecore come primo pasto. In seguito si raccoglievano i rami che servivano poi per accendere il focolare. Il secondo e terzo pasto erano costituiti da fieno e foglie secche.

Rimaneva ancora da falciare quel poco d’erba cresciuta nei prati irrigati. Non era certo abbondante, ma più difficile era farla seccare. Le giornate in questa stagione sono meno lunghe e poco soleggiate, spesso pioviggina e talvolta occorreva portarla a casa ancora verde. Era un vero guaio perché non si doveva ammucchiare così umida nel fienile, sarebbe marcita, la si sparpagliava quindi nei ripiani più arieggiati sopra il fienile per diversi giorni.

Quando incominciavano a cadere le foglie, bisognava raccogliere anche quelle, sarebbero servite come mangime per le pecore o come lettiera per gli animali. Si partiva da casa con un rastrello di legno, e un lenzuolo di campagna con quattro legacci e, poiché il paese è circondato da piante, si preparavano i mucchi che si potevano portare a casa direttamente sulle proprie spalle.

Si doveva anche pensare alla raccolta della legna: ci si accontentava di vecchi ceppi e rami caduti. Naturalmente per trascorrere il lungo inverno non bastavano, allora ognuno, nelle sue proprietà, tagliava qualche vecchia pianta di frassino o di ciliegio, il cui legno dava un’ottima resa come riscaldamento.

Le pecore durante le ore di sole brucavano i pochi fili d’erba rimasti nei prati vicino alle case, ed erano le ultime a rientrare definitivamente nelle stalle per rimanervi, nel loro recinto per tutto l’inverno salvo qualche rara uscita alla fontana per far loro sgranchire le gambe.

Col termine del pascolo e il rientro degli ovini nelle stalle, si procedeva alla tosatura della lana. Una per volta, le pecore venivano tolte dal loro recinto e legate insieme le quattro zampe con una buona corda,si dava inizio a questo lavoro. Si stendeva un lenzuolo di canapa in un angolo della stalla o del cortile, vi s i faceva cadere sopra l’animale e si procedeva al taglio della lana con delle apposite forbici.

A lavoro ultimato, la lana si metteva in cesti e veniva immersa nell’acqua della fontana per diverse ore, ciò serviva per togliere il più grosso dello sporco. Si portava poi a casa lavandola accuratamente con acqua tiepida e un po’ di soda che la rendeva bianca e soffice, meglio ancora se si poteva lavare con acqua piovana.

Dopo averla pulita e ben risciacquata si provvedeva a farla asciugare sui balconi o in un luogo ben arieggiato della grangia. Nei giorni seguenti,con attrezzi speciali si provvedeva alla prima cardatura. L’autunno avanzava, la grangia era piena di fasci di segala e di frumento in attesa di essere trebbiati. Si iniziava con la segala. L’aia, un largo corridoio vicino al fienile e adatto per la trebbiatura era stato accuratamente pulito.

INVERNO

I lavori di campagna erano terminati, le giornate sempre più corte e fredde lasciavano prevedere l’arrivo ormai prossimo della neve. Le giornate corte costringevano a passare molto tempo fra le mura domestiche, di solito riuniti nell’unica stanza riscaldata dell’abitazione oppure a tirar tardi nella stalla, dove si poteva sfruttare il calore degli animali. Erano i mesi dedicati ai lavori domestici stagionali: la filatura, la tessitura, la costruzione di accessori e mobili per la casa. L’attività più impegnativa, faticosa e pericolosa dei mesi invernali era il trasporto a valle dei tronchi ricavati dal taglio degli alberi d’alto fusto. L’anno si apriva con il lavoro di preparazione dei campi e dei prati, occorreva innanzitutto concimarli spargendo il letame prodotto dagli animali della stalla.

Se si partiva presto, per andare a prendere, per esempio, fieno o legname, il pomeriggio rimaneva per lo più libero; oppure, se la mattina era molto freddo, si poteva starsene per una oretta a scaldarsi in casa e altrettanto nel pomeriggio. In ogni caso, andavano fatte il mattino e la sera le operazioni di pulitura della stalla e bisognava occuparsi dell’alimentazione e mungitura delle mucche.

Alle mucche si erano tolti i campanacci e trascorrevano le giornate attaccate alla catena, le pecore nel loro recinto: tutte queste creature paiono soddisfatte, riparate dai rigori del freddo, anche se costrette ad adattarsi ad un riposo forzato per diversi mesi.

L’inverno portava un sensibile cambiamento nella vita dei montanari: nelle case le camere fredde venivano abbandonate; nessun ambiente era riscaldato, a parte la cucina nella quale si accendeva il fuoco per la preparazione dei pasti. Una parte della stalla diventava allora sala da pranzo, salotto, laboratorio, camera da letto.

Per darle un senso di maggior accoglienza e di pulito si intrecciavano dei mazzetti di paglia di segala e si disponevano uno vicino all’altro, appesi ad una piccola sbarra di legno, in modo da ricoprire una parte che facesse da schienale; per terra si stendeva uno strato di paglia di segale pulita da rinnovarsi ogni giorno. I pasti si consumavano al calduccio della stalla ad un tavolo sempre troppo piccolo; qualcuno doveva spesso servirsi come tavolo delle proprie ginocchia.

L’inverno portava un po’ di riposo alla faticosa vita dei paesani, ma oltre alla cura degli animali, tante cose restavano da fare. Riparare gli arnesi di campagna, affilare le lame, filare lana e canapa; si può dire che con l’inverno arrivava l’epoca dei piccoli mestieri. Ognuno aveva il suo, il tessitore, il calzolaio, il sarto, il falegname; non mancava certamente il lavoro, ma la vita era più calma, più distesa. Si seguiva l’orario del sole, e quindi la sera si mangiava molto presto. Dopo cena le famiglie si riunivano per le veglie che avevano inizio da metà del mese di ottobre, per terminare alla festa dell’Annunciazione il 25 marzo.

Nelle lunghe veglie invernali le donne filano nel tepore delle stalle. Durante queste serate regnava un’atmosfera tutta particolare; le persone si raggruppavano per categorie: le donne si disponevano a cerchio attorno al debole lume a petrolio che pendeva dal soffitto: facevano ronzare gli arcolai; le più giovani facevano le calze per tutta la famiglia. Si utilizzava a questo scopo la lana delle proprie pecore: i montanari erano autosufficienti nelle esigenze economiche.

Nel calduccio della stalla il gruppo degli uomini un po’ in disparte si accingeva a stigliare la canapa cioè liberare dagli steli le fibre, la quale dopo essere stata messa in precedenza ad essiccare, aveva raggiunto le condizioni ottimali per essere lavorata: ognuno arrivava alla veglia col proprio fascio di canapa e questo costituiva l’occupazione maschile ed anche dei bambini per tutta la serata.

Man mano che la stigliatura procedeva, sul dito medio della mano destra dell’addetto aumentava il mazzo della fibra e quando questo aveva raggiunto una certa dimensione, veniva messo da parte, dopo avergli praticato un nodo su se stesso. La fibra così confezionata era portata a cardare e, dopo un procedimento speciale, veniva filata dalle donne di casa. I gomitoli di filo affidati al tessitore, diventavano tela per le camicie, lenzuola per i letti e per lavori di campagna, sacchi per la segale e per gli altri prodotti. Inoltre una parte della canapa stigliata serviva anche per intrecciare piccole funi, necessarie per gli usi più disparati, specialmente per legacci da applicare alle lenzuola di campagna usate nel ritiro delle derrate, la raccolta di fieno e foglie secche.

Anche i letti erano sistemati nella stalla, contenevano paglia di segale o foglie, le lenzuola confezionate con tela di canapa ruvida, specialmente da nuove non avevano la morbidezza di quelle di lino, ma erano apprezzate ugualmente. Durante quelle lunghe serate si provvedeva alla sgranatura di piselli, fagioli, fave, ben essiccati in precedenza , per essere destinati alla prossima semina. Si rompevano le noci messe da parte dopo il raccolto e se ne sceglievano i gherigli.

Mentre si svolgevano questi lavoretti nella stalla, c’era sempre qualcuno che raccontava fatti e novità da chi aveva avuto occasione di recarsi nei paesi vicini come Avigliana e Borgone: altre volte si trattava di storie fantasiose del passato, rispolverando vecchie leggende, storie di streghe, di masche, aggressioni di lupi a malcapitati che a notte inoltrata si fossero trovati lontani da casa.

Gianni Cordola