Piccoli passi di storia passata

I PASSI DI LUIGI GALLIZIO (1913-1999) E TOURNOUD MARIA

di Monica Cordola


I RACCONTI DI NONNO LUIGI

Ogni tanto mi fermo a ricordare quando al Constans¹ (Coutan in occitano) ero seduta nella vecchia sala, sprofondata nella poltrona di legno tra i larghi cuscini dalle fantasie colorate ed impensabili, guardando un film in bianco e nero con mio nonno.

Finiva sempre col commuoversi quando c’erano delle scene di guerra o qualcuno moriva o pativa sorti avverse. Mi faceva sempre un certo effetto, vedere lui, così grande e imponente, con la faccia larga quasi burrosa e poche rughe a segnarla, che piano piano abbassava il tono voce e si arrabbiava per il mancato lieto fine scoppiando in improvvisi singhiozzi.

Lui che tante ne aveva viste …

Nonno Luigi

Sorseggiavamo insieme un beverone che si faceva preparare da mia nonna: vino, caffè e zucchero, caldo e buonissimo, un po’ meno per le coronarie si intende, ma a quell’epoca il colesterolo non era ancora una priorità!

E così senza neanche rendermene conto, in pochi minuti mi ritrovavo assorta ad ascoltare i racconti della guerra o altre peripezie della sua vita. Ora che mio nonno non c’è più e che mia nonna non ha più molta memoria e prova dolore e tristezza nel ricordare il passato, posso solo affidare i loro, ed ora, miei racconti ad una penna stilografica virtuale.

 LUIGI E LA GUERRA IN AFRICA

Aveva combattuto nella guerra d’Etiopia.

Nonno Luigi in Africa, è il terzo da sinistra

All’epoca aveva già fatto il militare ma venne comunque richiamato per la guerra in Africa, sotto Mussolini. L’Italia aveva già colonizzato l’Eritrea e parte della Somalia negli ultimi decenni del XIX secolo ma era desiderio del Duce vendicare la sconfitta subita ad Adua durante la Guerra di Abissinia.

Venti milioni di uomini, un cuore solo, una sola volontà di combattere” proclamava Benito il 2 ottobre del 1935 dal balcone di Palazzo Venezia.

Centinaia di migliaia di ragazzi provenienti da tutta Italia insieme ai soldati delle colonie italiane (Eritrea, Libia, Somalia), i cosiddetti ascari (termine che significa soldato) si riversano sui campi di battaglia per affrontare le truppe abissine, guidate dai capi tribù detti ras.

La guerra d’Etiopia, che dalla sua portò alla liberazione di oltre 400.000 schiavi, aveva già tutte le caratteristiche dei conflitti moderni: le vaste proporzioni, l’impiego di aerei, mezzi corazzati ed artiglieria pesante, l’utilizzo, nonostante le convenzioni internazionali lo vietassero, di aggressivi chimici ed armi proibite da ambo il lati (l’iprite da parte italiana, i proiettili esplosivi Dum Dum da parte etiope).

Un giorno curiosa ho letto alcune lettere di mio nonno in guerra da Abou Edaga, Eritrea del 1936. Probabilmente si tratta di Edaga Abbakullo.

Me le aspettavo diverse: piene di dolore, lamentele e brutture. Forse perché se fossi stata io lì avrei approfittato delle lettere come valvola di sfogo, e perché comunque mio nonno mi è sempre sembrato a suo modo deciso e testone.

Invece erano brevi, tenere ed a volte accompagnate da foto: diceva sempre e solo dove si trovava e dove si spostavano; che gli dispiaceva molto non essere sui campi con loro per aiutarli e se avesse incontrato qualche commilitone del paesello o dei paesini vicini da cui proveniva.

Invece di raccontare della guerra o di far preoccupare la famiglia per lui, si preoccupava lui per loro!

Retro della fotografia precedente

Immagino i parenti di mio nonno ascoltare alla radio le dichiarazioni, i proclami e le canzonette facili e orecchiabili come Faccetta nera o Adua, Stornelli neri, O morettina, In Africa si va, L’ha detto Mussolini. All’epoca i comunicati del Ministero Stampa e Propaganda sulla campagna di Etiopia venivano ascoltati nei posti di ritrovo e persino nelle fabbriche oltre che nelle case se si disponeva di un apparecchio radio. Immagino la sua mamma adottiva leggere amorevolmente le lettere dal fronte o ascoltare la propaganda del regime sperando di cogliere qualche notizia sull’esito dei combattimenti.

Sembrano epoche lontanissime, invece solo pochi anni ci separano da quegli eventi.

A me invece di quel periodo raccontava alcuni particolari. Mi ripeteva sempre che faceva molto caldo anzi caldissimo per lui che proveniva da un paesello di montagna all’altezza di 1100 metri, Oulx, a circa 76 km da Torino, al centro dell’ Alta Val di alla confluenza tra la Dora Riparia e la Dora di Bardonecchia, ed in particolare dalla minuscola frazione di Constans. Lì dove anche in estate si dorme con la coperta in quelle case vecchie dai muri spessi.

Il suo incubo peggiore erano le tende in cui dormivano in Africa perché di notte dei serpentelli ‘mortali’ si infilavano da sotto il pavimento composto da un semplice telo.

Ho letto poi per mio conto che nel complesso, gli italiani persero più uomini per malattie e incidenti che non per la guerra.

La guerra vide come protagonista De Bono sul fronte Nord, successivamente sostituito da Badoglio e Graziani sul fronte Sud, anch’egli poi rimpiazzato da Amedeo D’Aosta, un esponente di casa Savoia.

Nel maggio del 1936 l’Italia annetté ufficialmente l’Abissinia e Mussolini annunciò la fine della guerra, proclamando la nascita dell’Impero e riservando per Vittorio Emanuele III la carica di Imperatore d’Etiopia e per entrambi quella di Primo Maresciallo dell’Impero.

Eritrea, Abissinia e Somalia Italiana vennero riunite sotto un unico Governatore con il nome di Africa orientale italiana. Il sogno imperiale durerà tuttavia poco perché quei territori saranno conquistati nel 1941 dalla Gran Bretagna.

GLI ANNI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Luigi apparteneva al corpo degli Alpini, cosa di cui andava veramente fiero, fondato ad Oulx nel 1872. Nella guerra d’Africa si distinsero gli Alpini della divisione Pusteria.

Sembra che Luigi appartenesse al 3° reggimento alpini – battaglione Exilles che partecipò alla campagna d’Etiopia del 1936/1937. Mi ricordo che partecipò alla battaglia per la conquista dell’AMBA ARADAM nel febbraio 1936. Il suo grado era caporal maggiore.

Successivamente verrà richiamato anche per la campagna di Russia ma era stato assunto in ferrovia, e quindi essendosi già reso, secondo le regole di allora, “utile alla nazione” riuscì a non partire una seconda volta. Per fortuna, perché in caso contrario, forse non l’avrei conosciuto.

I conflitti mondiali intervennero a turbare la Valle anche a causa dell’importante linea ferroviaria da cui era attraversata, che la connetteva col centro Europa: il traforo ferroviario del Frejus completato nel 1871 dopo 13 anni di lavori. Su punta Clotesse e sulla Grand’Hoche così come sulle montagne di Oulx e Bardonecchia si trovano ancora oggi bunker, cavalli di frisia (tre assi di metallo saldati insieme in modo da formare una figura a sei piedi) e spesso ordigni inesplosi.

Durante il fascismo il nome di Oulx viene italianizzato in Ulzio, ed il paese si ingrandisce, inglobando le frazioni e diventando sede di Pretura. Dal 1945 riprende il nome originale di Oulx.

Aveva trovato lavoro alla ferrovia a Collegno.

Andava su e giù in treno fino ad Oulx e poi da Constans ad Oulx in bici.

Successivamente lavorò alla ferrovia di Oulx e copriva la distanza Oulx-Constans sempre in bici fino a quando, durante la loro ritirata, i tedeschi gli confiscarono la bici.

Infine anche lui si motorizzò e comprò finalmente una motoretta.

 LUIGI BAMBINO DATO IN AFFIDAMENTO

Luigi era stato adottato non da una coppia, ma da zia Francesca Danne e dai “di lei” fratelli: allora era consentito.

Si viveva in famiglie allargate composte dai genitori, dalle loro famiglie di origine e dai loro discendenti, fratelli e sorelle in poche stanze. E pensare che oggi si fatica ad andare d’accordo pur stando in case diverse!

In particolare l’adozione l’aveva fatta zia Francesca a suo nome, che lui chiamava mamma; vivevano tutti assieme: mio nonno con la mamma adottiva Francesca, i fratelli di Francesca, zio Firmino e zio Luigi; c’erano anche altri fratelli ma erano sposati e/o vivevano in altre borgate nei paraggi. Zio Luigi che adorava mio nonno morì nel 1921 tre anni dopo la sua adozione. Anche la sua morte fu dovuta ad un atto di generosità: un incendio stava distruggendo la borgata Villar e lui con altri paesani accorse per aiutare nello spegnimento e a causa dell’acqua e fuoco contrasse la polmonite che con le poche cure dell’epoca lo portò alla morte. Zia Francesca morì nel 1947, zio Firmino invece visse a lungo sino al 1960 e si aiutò a crescere tutti i nipoti, i figli di Luigi e Maria (mia nonna). Ancora adesso tutti vanno a posare i fiori sulla sua tomba al cimitero di Beaulard.

Si è tramandata la storia dell’adozione di mio nonno: Francesca la madre adottiva, che non era mai uscita dal Constans in vita sua, andò a prenderlo in treno all’orfanotrofio di Torino. Lui aveva già 5 anni. Al ritorno, non essendo pratica, aveva chiesto informazioni per scendere a Beaulard, la fermata più vicina al paese, ma poi si era sbagliata ed erano scesi a Bardonecchia: tenendo per mano il piccolo Luigi avevano percorso a piedi gli 8 km che li separavano dalla vecchia casa del Constans dove li aspettavano gli altri fratelli.

Al tempo davano un piccolo contributo per ogni orfano preso in affidamento, e famiglie già numerose, che non riuscivano a mangiare, adottavano gli orfani per ricavarne un compenso economico e per sfruttarli sino all’inverosimile nei lavori agricoli..

Il contributo era all’incirca di 6-8 lire al mese fino al raggiungimento dei 12÷15 anni; poi potevano tenerli per sé ricevendo un ulteriore sussidio dalle 30 alle 120 lire (una tantum) da parte dell’Istituto per l’Infanzia Abbandonata o potevano essere anche “restituiti” perché non era una vera e propria adozione, bensì un affidamento. Infatti, i bambini avevano un nome e cognome che era il loro di origine e non prendevano quello della famiglia affidataria. All’epoca, quasi tutte le famiglie anche già con figli prendevano dei bambini in affidamento, quasi sempre maschi per avere un aiuto in più nel lavoro e per avere il contributo: è triste dirlo ma era così.

Al contrario di molti altri orfani, fortunatamente, mio nonno fu benvoluto ed amato tantissimo e giunto in età adulta fu aiutato a mettere su casa e famiglia.

Da adulto, pochi anni prima di morire, mio nonno aveva condotto delle indagini per trovare la sua vera mamma. Risulta che fosse stato lasciato in ospedale e che probabilmente fosse figlio di una ragazza di buona famiglia che era rimasta incinta. Molti Gallizio risultano presenti dalle parti di Marene. Purtroppo, la ricerca non arrivò a conclusioni certe.

 

NONNA BIS MARIA ED I 5 FIGLI

Come dice il detto, accanto ad un grand’uomo c’è sempre una grande donna: Maria, nata nel 1919, fortunatamente ancora con noi, e degna bisnonna di tantissimi nipoti e pronipoti. Si erano conosciuti perché lui era di Constans e lei di Savoulx, due frazioni limitrofe.

Savoulx – Chiesa San Gregorio

Madre di cinque figli, tutti vicini di età: Angelo, Luigina, Lucia, Andrea e Gabriella.

Dormivano tutti nella stessa stanza, Angelo il più grande raccontava le storie dell’Africa: il punto clou della favole era quando prendeva il leone per la coda e lo faceva roteare vorticosamente!

Non avevano mai potuto tenere tra le mani un libro di fiabe, perché a mala pena potevano permettersi i testi scolastici. Nonna bis comunque raccontava oralmente le favole di Cappuccetto Rosso e Cenerentola così come le aveva sentite da sua mamma.

Nonna Maria ed io

LA SCUOLA: L’AVVIAMENTO E LE MEDIE

La scuola elementare era a Savoulx e tutti i ragazzi vi arrivavano a piedi da tutte le frazioni: Savoulx, Signols, Clots e Constans, invece per la scuola secondaria andavano in bicicletta, 6 km circa solo andata, da Constans a Oulx.

Dei 5 figli, quando erano piccoli, Angelo e Luigina avevano frequentato l’avviamento (al tempo le medie unificate ancora non esistevano), Lucia e Gabriella, più giovani, le medie.

Mia nonna mi racconta ancora con orgoglio che lei ed il nonno erano andati a parlare con la preside della scuola media a Oulx, che aveva consigliato di non iscrivere le due figlie perché troppo poveri e non era scuola per loro considerando i lavori e la vita che avrebbero fatto, ma mia nonna si oppose. Nonostante la povertà, Maria e Luigi tenevano in elevatissima considerazione l’istruzione e fecero moltissimi sacrifici pur di far studiare tutti i figli.

Scuola elementare Savoulx – Lucia Gallizio penultima in 2° fila da sx (dietro la più piccola della prima fila)

Al tempo sia alle medie, sia all’avviamento già si studiava una lingua straniera, il francese.

Contrariamente alle previsioni, mia madre e mia zia frequentarono poi il liceo classico , terminato il quale, mia zia fece la scuola per assistente sociale mentre mia madre si laureò in scienze naturali. Purtroppo al tempo le differenze di classe e di ricchezza contavano molto e gli studenti ricchi erano ben accetti nelle scuole perché le famiglie facevano delle donazioni. Forse i presidi non si ricordavano più che, in tempo di guerra, quando anche loro non avevano da mangiare, i poveri (poveri di averi, ma ricchi di animo) gli portavano in regalo le patate ed altri viveri per sfamarsi.

Anche se la scuola, terminava al medesimo orario, mentre le ragazze tornavano subito a casa, i fratelli arrivavano 1 o 2 ore più tardi. Si fermavano a tirare due calci al pallone dai salesiani, poi salivano a piedi lungo la ferrovia e salivano su una barca ancorata lungo le sponde di un piccolo laghetto (lago Borello) lì vicino.

A casa ogni tanto li attendeva il nonno con la frusta, ma solo in caso di marachelle super … un tempo capitava.

COME CI SI DIVERTIVA UNA VOLTA? …. CON LA SLITTA!

Ovviamente si giocava con tutto quello che capitava a tiro, anche se tempo per giocare ce ne era ben poco. D’inverno si facevano delle gare strepitose con l’ibarüs che era una slitta di legno, ma per le strade …. cosa pericolosissima. Per fortuna allora macchine ce n’ erano poche soprattutto in alta montagna e le strade d’inverno erano ricoperte di neve; gli spazzaneve non passavano poche ore dopo la nevicata come al giorno d’oggi! Addirittura pensate, che nella valle a fianco, quella di Cesana, c’erano ragazzi che andavano giù in slitta da Claviere a Cesana per lo stradone, poi tornavano su a piedi e si facevano spedire la slitta il giorno dopo a Claviere con la posta!

Sì, perché allora la “slitta”non serviva per il trasporto non soltanto di concime, fieno e legna, ma anche per i trasporto di persone. E non esisteva solo la slitta ad un posto, ma anche quella grande dove ci si poteva stare in molti!

Questa con le pecore sono io

Tra i tanti figli, non si può non citare Andrea, già da piccolo con la vocazione di diventare prete.

LA CASA VECCHIA

Al Constans vivevano in una casa vecchia dai muri di pietra che si apriva con una chiave enorme lunga quasi 15 centimetri. Era priva di bagno, che era dislocato diversi metri a monte presso il fienile.

Borgata Constans negli anni 50 del secolo scorso

Per lavare la biancheria o per prendere l’acqua da bere o per la cucina dovevano andare alla fontana, anche d’inverno quando la temperatura scendeva. La stradina da percorrere coi secchi al ritorno era tutta in salita, sterrata e spesso ghiacciata. Molto spesso capitava, raccontano i figli, che i 2 secchi da 16 Kg ciascuno che portavano sulle spalle appesi ad un bastone si rovesciassero perché si scivolava sul ghiaccio.

Nella casa vecchia l’acqua potabile arrivò solo nel 1953. Di notte faceva molto freddo nei letti: l’unico rimedio era barricarsi sotto le coperte e mettere un mattone scaldato nella stufa al fondo del letto.

Solo nel 1975, si trasferirono col nonno nella casa nuova, dotata di tutti i confort.


IL FOENS

Fino agli anni 50 del secolo scorso d’estate si trasferivano da metà giugno circa alla borgata Foens. Si saliva su sopra Constans a piedi per un sentiero oppure in epoca più recente per una strada sterrata tutta tornanti fino a quota 1750 metri, ammirando dall’alto Savoulx con il campanile romanico della chiesa parrocchiale intitolata a S. Gregorio. Poche case di pietra, piccole e basse, abitate al tempo da diverse famiglie e con una fresca fontana ad accogliere i visitatori. Sono circa 6 km da Savoulx fino alle grange.Per la spesa si doveva comunque ridiscendere a Savoulx, ove c’era un solo negozio che vendeva di tutto. Inizialmente il pane era fatto in casa, poi veniva comprato: 3 kg per tutta la famiglia.

La cappella del Foens

Dalla borgata si può anche proseguire fino al forte Foens realizzato nel 1897-98, eretto in modo da dominare il settore centrale della valle del torrente Bardonecchia e, dirimpetto, i pericolosi passaggi dalla Grand Hoche al Colle della Mulattiera. Insieme alla Batteria Jafferau, realizzata sempre in quegli anni sulla cresta del monte omonimo ed alla famosa Batteria Chaberton che sorge sopra Cesana e Claviere, è una delle fortificazioni delle Alpi della Val Susa.

Una fontana del Foens

 

LE TOME BLU, I GÒFRI, LE CAJETTES, LE FRITTELLE DI SANGUE DI PECORA

I contadini-montanari avevano già il loro daffare con il quotidiano problema del sopravvivere tra calamità e malattie (molte erano ancora le morti per parto), tra i pesanti lavori nei campi e l’inverno che sopraggiungeva, quindi la cucina era molto povera ed il sostentamento era basato sugli animali che quasi tutte le famiglie possedevano (mucche, pecore, galline) e sui pochi alberi da frutto o prodotti dell’orto.

Nonna Maria racconta sempre di aver fatto un numero esagerato di tome che diventavano sempre “blu”, si pensa grazie al grado di umidità ed ai funghi forse presenti nel vecchio armadio di pino cembro della casa del Foens, purtroppo razziato da ignoti.

Domandai a mio zio Andrea “ma quanto tempo le facevate stagionare?” e lui mi rispose “giusto il tempo di mangiarle!”. La fame era veramente tanta.

Si facevano con il latte di mucca scremato, lasciato 1 o 2 giorni all’aperto perché si formasse la panna in superficie che veniva poi asportata. Successivamente si aggiungeva la quantità giusta di presame (caglio) a seconda della forma per formaggio che veniva utilizzata. Prima di metterlo nella forma, questa veniva foderata con una fazzoletto di stoffa così la cagliata si separava dal siero che scendeva attraverso dei fori perché liquido. Il latte era sempre presente, in tutte le sue forme liquida e solida (burro, formaggio …). Si beveva prevalentemente il latte di mucca, mentre quello di pecora-capra era usato dalla famiglia per il formaggio.

Per uno dei 5 figli, nonna Maria aveva avuto problemi per l’allattamento perché il piccolo/la piccola sembrava non tollerare bene il latte vaccino ed allora il dottore aveva suggerito di usare il latte di capra. Al contrario di oggi, mio nonno Luigi non era andato al supermercato a comprare il latte di capra o a prendere il latte in polvere ma un giorno era tornato a casa con una capretta in carne ed ossa! Direttamente dal produttore al consumatore!

Si cucinavano spesso anche i gaufres e li si condivano o con il formaggio o col miele di montagna o con il rarissimo lustré, un estratto di bacche di ginepro che un tempo era anche utilizzato per condire le carni. Le bacche venivano raccolte con un cestino di vimini basso e largo e si usavano dei guanti spessi perché i rami pungevano. Mia nonna le raccoglieva con sua mamma. La composta di bacche di ginepro richiedeva intere giornate per la sua preparazione perché le bacche dovevano consumarsi sul fuoco per molte ore.

Il gòfri (anche chiamato gaufre, gòffree, gòfre, ecc…) è una specialità dell’Alta Val Chisone e Alta Val Susa. E’ una cialda croccante di forma rotonda a nido d’ape con contorno smussato fatto con un impasto a base di acqua tiepida, farina, sale e lievito, con aggiunta a volte di uova e latte, fatto lievitare anche per una notte intera: è un piatto povero che sostituiva il pane nei mesi invernali e veniva fatto cuocere su piastre di ghisa bivalve sagomate (le gofriere), precedentemente unte con il lardo.

Il gòfri

I piatti erano molto poveri anche perché non c’era la disponibilità di materie prime che ci poteva essere nel sud d’Italia, ovvero c’era scarsità di pomodori e quindi di sugo, quasi assente il pesce, molto rara la carne perché la si aveva solo quando si macellavano gli animali che servivano per procurarsi quotidianamente il latte ed il formaggio …

Quindi i componenti base delle pietanze erano per lo più patate (dette “tartifle”), cavoli, zucche e porri, spinaci, carni bovine suine ed ovine, cipolle ed aglio, selvaggina e formaggi insaporiti dalle erbe di montagna come il serpillo e le mente selvatiche, le bacche di ginepro, i semi di cumino e gli aghi di pino. Per esempio, nelle cajettes i protagonisti indiscussi sono la “tartifle” e le costine.

Si trattadi un primo piatto semplice e gustoso con ingredienti: costine, cipolle miste, gialle e rosse, patate di montagna, uova, farina bianca, profumi di stagione (timo, rosmarino etc.), cotte nel brodo di carne (possibilmente di montone) e servite sia in brodo che asciutte. Sono dei grossi gnocchi formati con le mani della dimensione di una noce. Ogni famiglia le cucina in modo simile ma non identico, un po’ come la pastiera nel Sud Italia. Nella nostra famiglia si fanno asciutte col sugo rosso.

Mi ricordo che mia nonna ogni tanto cucinava le frittelle di sangue di pecora, grandi e sottili, di color rosso scuro, buonissime perché avevano un sapore indefinito tra il dolce ed il salato. Oggi purtroppo non è più possibile gustarle perché vietate alla stregua del sanguinaccio.

E poi immancabili le frittelle di mele, non quelle tipiche del fritto misto piemontese, ma una variante più povera e semplice, meno legata all’estetica: si mescolano insieme farina e latte, forse una punta di lievito, si buttano dentro le fettine sottili di mele e prendendone la giusta quantità con un mestolo si friggono e dopo si cospargono con lo zucchero. Ancora oggi le cuciniamo io, mia mamma, la nonna bis.

Lucia, Gabriella e gli altri figli raccontano che spesso quando andavano il pomeriggio o l’intera giornata a pascolare le mucche d’estate avevano come cibo le frittelle, ma non facevano in tempo a sedersi in un prato che le avevano già finite!

Tra le pietanze in uso c’era anche una sorta di strudel di mele (l’unico frutto che, con le noci, non mancava quasi mai), poco dolce perché realizzato con una pasta simile a quella del pane.

Con i grissini avanzati spezzettati e cotti nel sugo si faceva anche un altro piatto unico tipico: la zuppa grassa. Insomma, non si buttava nulla.

E poi non posso dimenticare, quando io stesso ero piccola ed andavo a trovare i miei nonni, i panini con burro e zucchero e quelli con burro e sale: fantastici!


IL PATOIS

Nel Constans ed in tutta l’Occitania si parlava e si parla ancora adesso il patois occitano: una parlata all’apparenza incomprensibile, molto simile al francese, differente sia dal piemontese sia dal francoprovenzale il patois più noto della bassa Val di Susa, Valli di Lanzo e Val d’Aosta. Questo dialetto locale è ancora vivo negli usi e costumi, nelle feste patronali e nella cucina tradizionale.

Cito come esempio una traduzione dall’italiano al patois pubblicato sul sito del Comune di Oulx:       http://www.comune.oulx.to.it

Patois in  alta valle di Susa

Il patois con tutte le sue differenze e particolarità proviene in gran parte dal latino e fa parte delle lingue gallo-romanze.
Viene chiamato Occitano, lingua occitana, o piuttosto Occitano Provenzale Alpino, per noi è indifferente: è sempre il nostro patois.

Ël patouà bou toutta sa diferansa e sa maniera ou ven dou latin e ou fai pâr dlâ lënga gallo-romanza.
La s’dì Occitano, lënguë ouzitanë o, ploutò, Occitano Provenzale Alpino quë par nzaoutre la sarî la mèmë chozë: ou l’î cioû notrë patouà.

 

MARIA E LE SUE FATICHE

Non basterebbero 1000 parole per descrivere nonna bis Maria: capelli lunghissimi grigi, occhi anch’essi grigi, naso adunco, di buona corporatura. Nelle foto appare sempre con uno scialle a cingerle la testa e l’espressione seria.

Di poveri natali, da giovane, per mantenersi, aveva fatto la donna di servizio presso una famiglia benestante di Torino. Si occupava della casa e della bambina dei padroni ed in cambio riceveva vitto ed alloggio similmente ad una badante dei giorni nostri.

Il cibo che le dava la signora era pochissimo e poco nutriente, per lo più pane raffermo e acqua. Un giorno, mi racconta ancora adesso con la paura e la fame negli occhi, mia nonna andò nella sala dei padroni, lì vide un pentolone di pasta fumante e non resistette: presa dai morsi dell’inedia, la prese con le mani ed incominciò a mangiarla voracemente di nascosto. Solo dopo, si accorse che il padrone, il signore di casa, era lì e la stava guardando attonito. La immagino, timida e paurosa, con lo sguardo impietrito ed il timore di perdere il lavoro o di essere punita, non riuscire più ad inghiottire il boccone né a proferir parola.

Una volta tanto i signori si dimostrarono tali anche nell’animo e nel cuore: il padrone andò da sua moglie e la redarguì violentemente perché si era reso conto che nel loro lusso e nei loro agi, facevano morire di fame la loro domestica.

Note:

Constans¹ – Borgata del comune di Oulx che nella parte alta raggiunge, i 1180 metri di altitudine. Sino al 1928 fece parte del Comune di Beaulard poi soppresso. Tra le case una cappella dedicata a San Bernardo custodisce una bella ancòna (tavola posta a decorazione) in legno scolpito policromo; sulla facciata riporta la data del 1720 ma è molto più antica. Il borgo è attorniato da alcuni piloni votivi. In questa borgata ebbero i natali nel 1860 l’arcivescovo di Reggio Calabria Camillo Rousset oltre al vescovo di Ventimiglia Agostino Rousset.

Autore: Monica Cordola (scritto nel gennaio 2013)