Il ponte del diavolo di Lanzo

Nel comune di Lanzo Torinese, piccolo centro di circa 5000 abitanti a due passi da Torino, si trova il famoso e suggestivo Ponte del Diavolo.

Il ponte del Diavolo fu edificato nel 1378 con il consenso del vice castellano di Lanzo, Aresmino Provana di Leynì, collaboratore di Amedeo VI di Savoia, noto come il Conte Verde. La spesa per costruirlo, interamente sostenuta dalla Castellania di Lanzo, fu di 1400 fiorini, per sostenere questa spesa venne imposta una tassa sul vino per dieci anni. Il ponte in pietra (detto il Pont dël Ròch in piemontese) serviva a collegare Lanzo e le sue valli con Torino superando la Stura e permettendo così di evitare il passaggio da Balangero, Mathi e Villanova, territori governati dai principi di Acaja, e da Corio, sotto il controllo dei marchesi del Monferrato, entrambi ostili ai Savoia.

Il Ponte si trova in una stretta gola con pareti a precipizio scavate dalle acque del fiume Stura in tempi preistorici. Costruito a schiena d’asino ha una luce di 37 metri, un’altezza di 16 m, lunghezza di 65 e larghezza minima di m. 2,27.

Le caratteristiche “Marmitte dei Giganti”, ritenute le zampe del Diavolo, sono fenomeni geologici dovuti all’azione vorticosa dell’acqua sulle rocce che trova lungo il suo passaggio. Al centro del ponte si trova un arco in pietra, resto di una porta costruita nel 1564 su ordine del Consiglio di Lanzo per impedire che forestieri portassero in Lanzo la peste che si era diffusa in Avigliana e zone limitrofe e minacciare la salute degli abitanti.

Il nome attuale del ponte deriva dalla leggenda secondo la quale fu il Diavolo in persona a costruirlo. La leggenda racconta di come gli abitanti di Lanzo avessero costruito il ponte per ben due volte e che tutte e due le volte questo fosse crollato, lasciando nello sconforto gli abitanti. Il Diavolo, avendo assistito a ciò, si propose di costruire egli stesso un ponte che non sarebbe crollato, ma in cambio avrebbe preso l’anima del primo essere che lo avrebbe attraversato. Gli abitanti riuniti in assemblea accettarono il patto: “se tu riuscirai davvero a costruire un ponte solidissimo, sicuro sotto ogni aspetto e che durerà per secoli, ti promettiamo di darti, come compenso, il primo essere vivente che vi passerà sopra”. “D’accordo, affare fatto! Domani avrete il ponte e io la mia ricompensa”. Gli abitanti si allontanarono e il diavolo non perse tempo: subito scatenò fulmini, tuoni, e chiamò a raccolta tutti i diavoli dell’Inferno. Nell’intensità della bufera, all’oscuro di occhi curiosi, tutti i demoni mobilitati nell’opera saettavano intorno alle due sponde della Stura: le acque scure nella notte nera rispecchiavano le luci sinistre degli occhi e degli artigli di quei diabolici operai. A velocità pazzesca, i diavoli smuovevano con leggerezza enormi massi. Li mettevano, li spostavano e li univano con malte estratte dal loro regno infernale. Allo spuntare del giorno, il ponte era finito e i diavoli sparirono, ma nessuna persona aveva il coraggio di attraversarlo per paura di finire all’inferno.

Dopo una riunione gli abitanti decisero di ingannare con uno stratagemma il Diavolo e far passare per primo un animale e precisamente una capra. Il Diavolo, resosi conto di essere stato abilmente tratto in inganno e furioso per l’affronto subito, sbatté con violenza i suoi zoccoli sulle rocce, formando le caratteristiche marmitte dei giganti, visibili ancora oggi dietro la cappella di San Rocco e si preparò alla vendetta, voleva far sprofondare il ponte, il paese e tutta la valle, ma, dall’altra parte del ponte, ecco avanzare un crocifisso sorretto dal parroco, seguito da una lunga processione di persone del paese tutte con una corona del rosario in mano. Alla vista della croce il Diavolo, arrabbiatissimo, rimbalzò nel fiume e sparì in una nube di zolfo. Il ponte, immerso nel parco dove passa il fiume Stura, è il posto ideale per una piccola gita fuori porta, all’insegna della natura, della bellezza e delle innumerevoli leggende che le valli di Lanzo tramandano di generazione in generazione. Anche in altre località si possono vedere dei “Ponti del Diavolo” con storie analoghe: per esempio a Dronero in provincia di Cuneo e a Pont Saint Martin in Valle d’Aosta.

Gianni Cordola

Il ponte dl diavolo di Lanzo

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Le masche al Truc del Castelletto (truch dël Castlèt)

A Condove ed in tutta la Valle di Susa nei secoli passati le masche erano un dato di fatto, tutti vi credevano, era per loro l’unica attestazione di forze sovrannaturali; erano considerate figure ambivalenti, capaci sia di compiere magie benefiche, come la guarigione, sia di causare sventure e calamità, e la loro origine si perde nel tempo, mescolando antiche credenze pagane e cristiane.

Una antica leggenda narra delle masche del Castelletto (lou truch dou tsatlé in franco provenzale o truch dël Castlèt in piemontese) un poggio a oltre 1500 metri di quota nel territorio del comune di Condove.

In quei tempi uno stagnaio itinerante partiva dal suo paese nella Val di Lanzo e raggiungeva a piedi le borgate montane di Mocchie e Frassinere pronto a lavorare della sua arte ed a soddisfare i bisogni delle famiglie: la sua attività principale riguardava i recipienti usati in cucina, tutti di rame: pentole, padelle, tegami e quant’altro che, dopo l’uso frequente, hanno il difetto di ossidarsi e per ovviare a questo inconveniente stagnava la parte interna dei recipienti, rivestendola di stagno.

Ogni due giorni raggiungeva una borgata diversa e nel suo viaggiare giunse in prossimità di un’altura a lui sconosciuta e non sapendo più ove si trovasse chiese informazioni in una baita poco distante abitata da due donne, madre e figlia, ambedue masche. Gli fu detto che era vicino a “lou truch dou tsatlé” e visto che era uno stagnaio (magnin in piem.) gli chiesero di riparare due paioli e alcune padelle offrendo in cambio qualche moneta più vitto e alloggio per quel giorno. Finito il lavoro e cenato in compagnia delle due donne si coricò nel fienile, senza prender sonno e udiva parlare le due donne mentre sistemavano le cucina e controllavano il camino.

Udì che l’una diceva all’altra : Un mese fa è nato un bel marmocchio a questo stagnaio, vuoi che andiamo a toglierglielo? E l’altra : Si andiamo pure. Detto fatto; si ungono le due megere di certa roba che conservavano in una pignatta, e legandosi un nastrino magico ad una gamba dissero: Àut e bass, portme fòra dij cafass – che vuol dire: in alto e in basso, portami fuori dai cespugli spinosi, e via di volo. Grazie al magico nastrino a una gamba potevano percorrere lunghe distanze in pochissimo tempo.

Senza indugio, lo stagnaio atterrito si unse pure lui alla pignatta e legatosi alla gamba un nastrino magico rimasto nel cassetto pronunziò il magico comando : Àut e bass, portme n’ora prima ‘d lor –In alto e in basso, portami un’ora prima di loro; ma nell’ansia di salvare il suo pargoletto dimenticò la prudente raccomandazione all’infernale cavalcatura, cosicché giunse sì un’ora prima, ma in quel viaggio strisciò con tutto il corpo nelle frasche e nei rovi, in modo che arrivò tutto flagellato e malconcio.

Si coricò al lato della moglie e stette in attesa di quello che stava per succedere. Ed ecco di lì ad un’ora giusta comparire un gattone nero, avanzare pian piano ed allungare la zampa per smorzare il lume. Ma lo stagnaio, che stava all’erta, tirò fuori una vecchia sciabola e giù un fendente a tutta forza; il colpo fu così preciso che portò via di netto la zampa destra al gattone, che saltò via nell’oscurità. La zampa subito si trasformò in una mano che non poteva essere ne più ne meno che la mano d’una delle streghe.

Tornati quindi tutti tre alla baita per la stessa via delle stelle, alla mattina lo stagnaio chiese di essere pagato dei suoi lavori. Venuta la figlia, egli vuole che lo paghi la madre, e quando questa gli vuol contare il danaro con la sinistra, egli pretende di averlo dalla destra.

Essa cerca schermirsi, ma finalmente stende il braccio, che si vede essere un arto tronco. L’uomo trae allora di tasca la mano recisa, l’accosta al moncone e quella vi si attacca così bene che non rimane più traccia della ferita. Sembra che quella mano non sia mai stata troncata.

Brutta avventura per il calderaio ma per fortuna finita bene, rimane una storia da raccontare nelle lunghe serate invernali.

Gianni Cordola

mappa Truc del Castelletto
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Le masche dei Colombatti

Molte leggende sulla montagna Condovese, hanno la loro origine da eventi verificatesi per cause naturali dove la fantasia popolare mise con un vero diletto il fascino del soprannaturale. Una di queste riguarda le masche dei Colombatti borgata montana alla destra del torrente Gravio nel comune di Condove.

Qualche anziano a leggere queste righe tornerà col pensiero nei giorni lontani, rivedrà come in un sogno la stalla angusta e nera, ove tutti stavano raccolti vicino alle mucche, quando il vento sibilava nelle gole o si udiva il rumore cupo dell’acqua del torrente che precipitava a valle, seduti accanto ai famigliari e vicini di casa mentre ripetevano le leggende che da secoli si raccontano nelle povere case e i fanciulli guardavano con inquietudine nell’ombra o provavano un brivido di spavento.

Si raccontava dell’esistenza di una zona chiamata “Piano di Mocchie” che si trovava anticamente ad occidente della borgata Villa di Mocchie là dove oggi la mulattiera scende precipitosamente verso il torrente Gravio per poi risalire alla Cappella della Madonna delle Grazie e di lì a Frassinere e che occupava la profonda depressione scavata dai torrenti Puta, Ala e Gravio. Lo stesso sarebbe scomparso in seguito a eventi naturali eccezionali (terremoti, alluvioni e franamenti) avvenuti chissà quando.

Ogni borgata in quell’epoca subiva l’influenza delle “masche”: figure ambivalenti, capaci sia di compiere magie benefiche, come la guarigione, sia di causare sventure e calamità, e la loro origine si perde nel tempo, mescolando antiche credenze pagane e cristiane. Rappresentavano un elemento centrale della cultura popolare piemontese, incanalando paure, superstizioni e la necessità di trovare una spiegazione per eventi inspiegabili.

Secondo la leggenda esisteva una accesa rivalità tra le masche della borgata Villa di Mocchie e quelle della borgata Colombatti di Frassinere dovuta alla quota altimetrica delle due località: I Colombatti erano circa duecento metri più alti di Villa e con lo sguardo dominavano il territorio circostante. Questo dava molto fastidio alle masche di Villa che si ritenevano superiori essendo nella borgata più grande e più importante della montagna, e di conseguenza le più giovani masche iniziarono a provocare le avversarie con una rabbia crescente.

Le masche più giovani delle due borgate si fronteggiavano sempre più frequentemente con bisticci, dispetti e danni da ambo le parti. Finché quelle di Villa molto più numerose delle avversarie presero a spingere la montagna sul lato destro del torrente Gravio con l’intento di far franare tutta quella parte, Colombatti compreso. Tutto sembrava andare a favore delle giovani di Villa, chiamate “maschette” dalle masche anziane; quelle dei Colombatti non erano in grado di impedire la distruzione e ogni giorno una porzione di montagna si staccava e scivolava a valle causando una rovina ancora in parte visibile ai giorni nostri.

Gli abitanti erano molto preoccupati e chiesero ai decani del paese come fermare questa guerra fra maschette che piano piano portava al collasso della montagna con pericolo anche per il fondovalle. Dopo lunghe ed estenuanti discussioni una donna anziana, contadina di giorno e probabile masca di notte, però rispettata per le sue conoscenze delle erbe e dei fiori propose il suo rimedio: piantare attorno a tutte le case della borgata la Verbena (barben-a in piemontese e barbeina in franco provenzale) una pianta officinale con dei fiori di diversi colori che la rende molto decorativa. Il fumo provocato bruciando i fiori di verbena aveva il potere di allontanare gli spiriti malvagi e porre fine al disastro che si stava creando.

Così fecero gli abitanti dei Colombatti e dopo poco tempo le masche anziane di Villa chiamarono le loro figlie imponendo loro di smettere di far crollare la montagna perché, indicando il fumo profumato che saliva al cielo dai Colombatti, non avrebbero mai più raggiunto il loro scopo in quanto protette dai fiori di verbena.

Un racconto interessante al quale tanti più non badano o ritengono non serio ma una tradizione passata attraverso parecchi secoli parla tuttora del Piano di Mocchie. Ora, che tale piano sia realmente esistito più o meno regolare e che sia stato deformato, è innegabile, sicuramente non per opera delle masche ma a seguito di catastrofi naturali.

Gianni Cordola

Mappa delle borgate Colombatti e Villa
Verbena
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Significato di “Quando la Berta filava”

Penso che tutti conoscano l’antico detto “Quando la Berta filava” o l’espressione più completa “Non sono più i tempi che Berta filava”, che vuol dire “in tempi lontani o finiti”; lo diceva anche mia madre quando voleva indicare una cosa desueta, sorpassata, quasi confinata al limite della leggenda. L’espressione ha origine da leggende e modi di dire che descrivono un’era passata, dove un gesto di grande generosità legato al filato di Berta portò a premi e ricompense. 

La leggenda di Berta che fila è un racconto o meglio una leggenda popolare che narra di una povera donna di nome Berta vissuta ai piedi del Roc Maol (Rocciamelone) nel XI secolo. Altra protagonista della leggenda è Berta di Savoia (1051 – 1087), figlia della marchesa Adelaide di Susa (1016 – 1091) e di Oddone nonché prima moglie nel 1066 dell’imperatore Enrico IV, regina consorte dei Romani e Imperatrice romana.

Durante una visita dell’Imperatrice Berta di Savoia alla madre Adelaide, approfittando di una sosta del corteo nel villaggio le si fece innanzi una povera donna, la quale, preso il fuso, già quasi pieno di filo disse: Mia regina, accettalo; è tutto quello che ho di più ricco al mondo. L’atto ingenuo e le parole affettuose della donna, che pure Berta si chiamava, piacquero all’imperatrice, la quale accettò il dono e gentilmente la ringraziò; indi ordinò che a proprie spese fosse concesso a quella povera donna un campo grande quanto il filo avvolto nel fuso fosse in grado di contenere.

La notizia della fortuna di Berta si diffuse rapidamente tra le altre donne non solo nel villaggio ma in tutta la valle, vecchie e fanciulle corsero a gara ad offrirle chi il fuso, chi la rocca e chi il gomitolo; ma l’imperatrice, porgendo a ciascuna una moneta, rifiutava il dono dicendo: “È finito il tempo in cui Berta filava”. Questo detto viene ancora oggi utilizzato per alludere a un passato che non tornerà più, e per indicare che il gesto di generosità era unico e non poteva essere replicato.

Dalla leggenda il detto si è trasformato in un modo di dire per riferirsi a un’epoca passata, in cui le cose erano fatte con sincerità e senza secondi fini. Indica un passato povero senza le comodità che diamo per scontate, ma più sereno, onesto e semplice rispetto alle complessità del presente.

Non possiamo affermare che la povera Berta sia un personaggio realmente esistito o che la leggenda oltre la figura di Berta di Savoia abbia riscontri reali, sappiamo però che il nome Berta ha radici antichissime: deriva dalla parola germanica berht, che significa “brillante”, “illustre”; era un nome molto diffuso nelle culture germaniche e molto in uso nel medioevo.

Gianni Cordola

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La fucina Col di Condove

Condove ha una lunga tradizione nella lavorazione dei metalli e la fucina Col sita in via Crocera n. 6 era della massima importanza per l’economia locale, producendo attrezzi agricoli quali zappe, vanghe, pale, falci, roncole, accette, picconi, tridenti, rastrelli, ecc.; poi armi da taglio come spade, coltelli e tanti altri oggetti artigianali per la casa, prodotti di cui era forte la domanda.

La vecchia fucina Col è stata impiantata da Celestino Col nel 1879 su un opificio più antico, infatti ci sono dei vecchi documenti attestanti che già alla fine del 1700 si lavorava il ferro e prima ancora si lavorava la canapa. Il lavoro iniziato da Celestino con tre magli e due ruote idrauliche è stato proseguito dal figlio Giuseppe e infine dal nipote Armando che ha lavorato fino all’inizio degli anni 90 del secolo scorso dopo 40 anni di lavoro.

Nel 1960 la Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Torino ha conferito a Giuseppe Col una “Medaglia d’oro e diploma” come premio della fedeltà al lavoro per più di sessant’anni di attività a favore dell’agricoltura. La fucina sorge su una bealera cioè un canale di derivazione realizzato per sfruttare l’energia delle acque del torrente Gravio e qui già nei secoli passati erano sorte numerose attività e opifici contribuendo a dare il nome alla contrada chiamata Fucine superiori e inferiori. Nel corso degli anni ovviamente sono cambiate le attività e purtroppo di questi opifici non è rimasta traccia.

Cos’è che si faceva nella fucina? Innanzitutto bisogna dire che la montagna di Condove è un territorio molto vasto e nel tempo passato soprattutto molto abitato, quindi l’attività lavorativa era molto intensa, si coltivavano prati, campi, vigne, si pensava anche all’allevamento del bestiame, dovevano mantenere prati, pascoli, le mulattiere, i muretti a secco e quindi nella fucina venivano fabbricati e aggiustati tutti quegli attrezzi in ferro che servivano a questo tipo di lavoro, che poi venivano portati e venduti anche al mercato settimanale del mercoledì.

Com’è strutturata la fucina? C’è una parte più antica che è quella dove ci sono la forgia e tre magli azionati da un albero a camme, poi ci sono una serie di attrezzature: incudini, utensili tipo punzoni, martelli, tenaglie e piccoli macchinari che servivano per la lavorazione. Infatti qui da un pezzo unico di ferro si produceva e si fabbricava l’utensile, l’attrezzo finito provvisto di manico pronto per l’uso. Oltre a questa che è la parte più antica della fucina vi è una parte più recente risalente all’inizio del 1900 ed è il reparto molatura.

Qui c’è una seconda ruota idraulica che mette in moto le mole tramite la trasmissione del movimento a cinghia e si molavano appunto gli attrezzi. Con la molatura cosa si faceva? Si finivano e si perfezionavano gli attrezzi e si affilavano anche tutti i ferri da taglio.

Oltre a questi due reparti vi è un piccolo impianto per la saldatura ossiacetilenica, un tipo di saldatura che veniva praticato soprattutto alla fine dell’Ottocento, non priva di pericolosità in quanto in fucina si produceva proprio il gas acetilene che a contatto con l’ossigeno provocava poi la fiamma che si usava per saldare.

Ovviamente poi questo tipo di saldatura è stato soppiantato dalla saldatura che ancora oggi conosciamo. Qui si vendevano e si compravano gli attrezzi ma si compravano anche le merci necessarie per il lavoro e quindi c’è un piccolo locale adibito proprio a questo uso che possiamo immaginare un po’ tra magazzino e ufficio dove si vedono ancora tutti gli arredi come erano un tempo.

Questo è quello che si può vedere nella fucina, ovviamente descritto un po’ sommariamente in quanto bisogna andarla a visitare. Da anni la fucina è stata rimessa in grado di operare e conservata come “Museo di archeologia industriale” dalla famiglia Col, mentre il salto utile della derivazione d’acqua continua a funzionare per produrre energia elettrica.

Visitando la fucina si può con la fantasia tornare indietro nel tempo e capire le tecniche usate per produrre gli attrezzi, la meccanica che c’era dietro ai macchinari che si usavano, come erano fatti, come funzionavano, e riscoprire un vecchio mestiere artigianale come quello del fabbro che con la sua abilità trasformava un pezzo di ferro in un attrezzo.

La fucina è diventata una piccola parte di storia industriale di Condove e della valle di Susa e questi luoghi, queste piccole realtà sono cose che si possono ancora vedere, una storia che non si legge solo sui libri ma che si può toccare con mano e pensare al passato, alla vita dei nostri nonni e bisnonni e per questo vanno preservate e conservate.

Gianni Cordola

Alcune immagini della fucina

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Le tradizioni popolari

Sentiamo spesso parlare di “tradizioni”, ma quasi sempre non ci rendiamo conto di che cosa siano, anche se finiamo col sentirci addosso una specie di monito: le tradizioni sono sacre e devono essere accettate come regole di vita.

Con il nome di “Tradizioni Popolari” definiamo quel complesso di usi, costumi, danze, musiche, fiabe, canti, leggende, proverbi, ecc., che si tramandano oralmente presso i popoli civili. Per i popoli culturalmente più evoluti, comprendono anche brani di letteratura, di poesie e di opere teatrali.

La disciplina che studia il complesso di questi fenomeni viene indicata comunemente con il nome folclore. Questo nome ha avuto larga fortuna soprattutto nell’uso corrente (nel linguaggio turistico, radiofonico, televisivo, giornalistico) dove indica un genere di spettacolo di musica o di danza a carattere regionale e di solito legato all’impiego di costumi tradizionali più o meno autentici.

Le tradizioni possono essere definite “fonti di insegnamento e guida” rivelatrici delle dimensioni vere della saggezza e del frutto di esperienza provenienti da un passato veramente vissuto.

A volte si fa fatica a ricordare alcune particolarità di quando eravamo piccoli ma arrivano dei momenti in cui senti quasi l’esigenza di individuare alcune vecchie tradizioni anche per avere una diversa chiave di lettura del nuovo. In questo mio pensiero mi piace ricordare alcune delle tradizioni che hanno segnato la vita dei ragazzi della mia generazione. Ricordi d’infanzia e della cultura contadina ormai tramontata, fonte di aneddoti incentrati in quel modo di vivere ormai dimenticato, attività che un tempo scandivano il passare delle stagioni nella vita dei contadini.

Le tradizioni si affermarono, in epoche remote, nelle pratiche dei culti religiosi e si estesero, in seguito, a molti altri campi delle attività umane. Generalmente le tradizioni furono accettate dai più sempre acriticamente e talvolta anche senza un consapevole riferimento al contenuto storico dell’evento. Questo spiega la loro fragilità e, quindi, la loro dimenticanza. Anzi, alla crisi delle tradizioni, hanno concorso diversi fattori, quali le rapide trasformazioni di una società costantemente in evoluzione, l’individualismo, l’intellettualismo, gli influssi estranei di altre culture e civiltà.

L’anziano, per esempio, quale depositario di sensatezza e di ponderatezza, ebbe un ruolo di primo piano nella famiglia patriarcale; decadde da questo suo ruolo e fu emarginato, quando si ritenne che non avesse più nulla da dire in una società tecnologicamente e socialmente trasformata. Senza pensare che vi sono settori di attività nei quali l’intelligenza e la creatività dell’uomo prevalgono sul dilagante dominio delle macchine e, per ultimo, anche dei computer, che, purtroppo, ubbidiscono solo alla cultura del profitto.

A mio parere vi sono oggi valori da recuperare: i valori dello spirito, i valori morali. Si tratta di valori tanto più necessari nella società attuale, per il fatto che essa, disponendo di mezzi formidabili e, talvolta incontrollabili, deve essere ancora più cosciente e responsabile di tali mezzi. A questo punto, sarebbe troppo facile offrire una proposta di rimedi consistente nel richiamare alle rispettive responsabilità la società in genere, la famiglia, la scuola in particolare. Il recupero di questi valori non si realizza con le belle parole e nemmeno con provvedimenti legislativi emanati dallo Stato. È un processo lento di recupero che deve partire da un risveglio spirituale, da una verifica introspettiva delle coscienze, da una ricerca di nuovi rapporti umani, basati sull’amore e sulla umiltà.

A conclusione, confermo di voler credere fortemente nelle tradizioni, consapevole che esse, allorché rispolverate ed adattate opportunamente alle attuali esigenze, continueranno a farmi capire bene il passato, interpretare adeguatamente il presente, per costruire il futuro. Sono favorevole, quindi, alla riscoperta e alla conservazione delle tradizioni, anche perché così facendo, custodisco gelosamente il ricordo di esperienze giovanili, vissute nel tempo ormai lontano, in cui le tradizioni avevano tantissimo significato.

Le tradizioni, che siano gastronomiche, rituali o culturali, hanno un valore significativo per la nostra identità e la nostra cultura, preservarle significa mantenere viva la memoria del passato, rafforzare la comunità e trasmettere un senso di appartenenza alle nuove generazioni.

Gianni Cordola

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L’antica città celtica di Rama

Diversi antichi documenti menzionano l’esistenza di una stazione stradale con il nome di Rama tra Brigantium (Briancon) e Eburodunum (Embrun), sulla strada transalpina romana che collegava l’Italia alla Spagna, creata nel II° secolo a.C.

La collocazione di Rama è anche indicata nei vasi di Vicarello: sono quattro bicchieri in argento ritrovati nel 1852 presso la fonte termale delle Aquae Apollinares, a Vicarello, sul lago di Bracciano. Datati al I° secolo d.C., sono di forma cilindrica e portano inciso sulla parte esterna l’itinerario via terra da Gades (Cadice) a Roma lungo 1840 miglia romane (2.723,2 Km itinerarium gaditanum), con l’indicazione della varie stazioni intermedie (mansio) e le relative distanze. Le iscrizioni riportano: EBURODUNUM (Embrun), RAMAM (antica città celtica circondata per anni da un alone di mistero con tante surreali leggende è un insediamento antico, di cui i francesi hanno hanno trovato i resti a La Roche de Rame Champcella), BRIGANTIUM (Briancon), SEGUSIONEM (Susa), OCELUM, TAURINIS (Torino). Il nome di Rama appare anche nel III° secolo, su L’Itinerario di Antonio, scritto durante il regno di Diocleziano (284-305 d.C.), sulla base di una mappa datata intorno al 210.

Itinerarium Gaditanum, trascrizione.

Rama è un insediamento antico che non è poi diventata città vera e propria di epoca storica, un raro esempio di cittadina antica non evoluta nel tempo simile a quello di Ocelum nella parte Cisalpina della via delle Gallie. Probabilmente era un abitato sparso di più nuclei di modeste dimensioni variamente dislocati in un sito d’altura nel crocevia tra le valli della Durance e della Freissinières , dove cioè le notizie di fonte antica tendono concordemente a collocarlo.

Gli studiosi francesi di storia romana e archeologia esaminando le distanze in miglia tramandate dalle fonti antiche hanno collocato la statio di Rama a Champcella. Questo villaggio si trova sulla riva destra della Durance ed è ricco di storia, con resti di epoca celtico-romana. Distribuito su 14 pittoresche frazioni tra i 1.100 e i 1.400 metri di altitudine su un pendio particolarmente esposto Champcella domina la Durance. È una terra storica, numerose sono le testimonianze che ne testimoniano la vita e il movimento nel corso dei secoli, a partire dalla strada romana.

Archeologi francesi ritengono di aver trovato i resti di Rama a La Roche de Rame (nel comune di Champcella), un sito che è stato scavato attentamente ed è divenuto oggetto di convegni e pubblicazioni. Tutto ebbe inizio nell’estate 2003, la siccità portò alla luce la pianta delle fondamenta di una struttura sotterranea di diversi ettari a Rama. Questo fenomeno straordinario non sfuggì agli archeologi francesi secondo cui si trattava di una “Mansio” di dimensioni impressionanti, una sorta di area di sosta sulla “Via delle Gallie”.

Qualche anno dopo nel 2006 è stato fatto un sondaggio archeologico, alcuni operai con mezzi meccanici scavarono una trincea diagnostica attraverso il sito. Questo ha permesso di ottenere informazioni importanti, su base archeologica riguardo alla presenza di antichi edifici sepolti, e riguardo l’ambiente e la geologia. Il sondaggio ha quindi evidenziato la presenza di un antico corso d’acqua di 25 m di larghezza tra antiche costruzioni e rocce, scoprendo anche due livelli di alluvione. Gli edifici individuati sono senza dubbio solo una parte che doveva trovarsi all’interno di un villaggio o di un agglomerato. Un’occupazione precedente, dalla fine dell’età del bronzo all’inizio dell’età del ferro, cioè da 900 a 600 a.C., è stata messa in evidenza. Quando riportarono alla luce le strutture, si pose il problema del loro consolidamento, della loro protezione, della loro custodia, ecc. Era un’avventura tecnica e finanziaria molto complicata, e la protezione migliore fu quindi lasciare il sito nello stato in cui si trovava e referenziarlo correttamente, proteggendolo come riserva scientifica. Il futuro del sito gallo-romano di Rama sembra quindi segnato anche se gli studiosi sperano ancora che la valorizzazione del sito possa davvero realizzarsi un giorno.

Il sito di Rama è unico e sorprendente: oltre ai resti di epoca celtico-romana è disseminato di rovine di monumenti che hanno segnato il periodo medievale, tra cui i resti del castello appartenuto ai Signori di Rame e distrutto da un’alluvione. Nelle vicinanze si trova la Cappella di San Lorenzo, restaurata nel XIX secolo. All’ingresso del sito si trova la centrale idroelettrica collegata a un’imponente condotta forzata, ancora in uso. Offre un panorama eccezionale sulla Gouffre du Gourfouran, un’attrazione geologica naturale, visibile seguendo i sentieri.

Gianni Cordola

Fonti consultate: Wikipedia l’enciclopedia libera

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Ocelum tra mito e realtà

Al tempo della Roma repubblicana i valichi alpini della Valle di Susa acquisiscono un’importanza strategica a carattere militare: si comincia dall’esercito di Annibale che probabilmente attraversò il valico del Monginevro nel 218 a.C., poi fu la volta di Giulio Cesare, nel 61 e nel 58 a.C. in marcia verso le Gallie. Dai “Commentarii de bello Gallico” (lib. I, cap. X) sappiamo che il confine tra la Gallia cisalpina e la Gallia transalpina era situato nella zona di Ocelum.

Il primo impatto documentato tra le tribù alpine e l’esercito romano lo troviamo in un breve accenno di Giulio Cesare sulla conquista della Gallia Transalpina. Il condottiero registra il passaggio dal Monginevro nel “De bello gallico”, così: “Egli giunge in Italia, dove arruola due legioni e ne mobilita altre tre, che svernavano nei pressi di Aquileia. Con le cinque legioni si dirige nella Gallia transalpina per la via più breve, attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i Caturigi, appostatisi sulle alture, tentano di sbarrare la strada al nostro esercito. Respinti questi popoli in una serie di scontri, da Ocelum, la più lontana città della Gallia cisalpina, Cesare dopo sei giorni di marcia giunge nel territorio dei Voconzi, nella Gallia transalpina”.

L‘ubicazione di questo villaggio, Ocelum, che Cesare denomina come ultimo della Gallia Cisalpina, è controversa ed ha dato luogo nel tempo a tante ipotesi. In epoca romana tutte le tracce indicano che nella bassa valle di Susa la strada era sul versante orografico sinistro e da questa gli storici sono concordi nell’ipotizzare la posizione di Ocelum alcune miglia ad ovest della “Statio ad fines” di Malano zona di frontiera sulla via delle Gallie, odierna Drubiaglio di Avigliana) probabilmente nella zona che va da Novaretto (Caprie), alle prime pendici della montagna a est del paese, tra le borgate Braida e Margaira sino a raggiungere lo sperone di Torre del Colle.

Questo luogo è uno dei pochi in questa zona della valle abbastanza ampio da permettere la sosta delle cinque legioni di Cesare, circa trentamila soldati. In effetti da Torre del Colle a Novaretto, passando per Margaira, sono stati scoperti resti di una viabilità romana e tutta la zona è molto interessante.

Ocelum è forse l’unico insediamento antico che non sia poi diventata città vera e propria di epoca storica, un raro esempio di cittadina antica mai scoperta. Forse era un abitato sparso di più nuclei di modeste dimensioni variamente dislocati in un sito d’altura allo sbocco della valle, dove cioè le notizie di fonte antica tendono concordemente a collocarlo. E dove a una posizione su un rilievo potrebbe rimandare il toponimo stesso: Ocelum è collegabile a un termine di matrice celtica “ocelon” dal significato di punta, promontorio o elevato.

La collocazione di Ocelum è anche indicata nei vasi di Vicarello: sono quattro bicchieri in argento ritrovati nel 1852 presso la fonte termale delle Aquae Apollinares, a Vicarello, sul lago di Bracciano. Datati al I secolo d.C., sono di forma cilindrica e portano inciso sulla parte esterna l’itinerario via terra da Gades (Cadice) a Roma lungo 1840 miglia romane (2.723,2 Km itinerarium gaditanum), con l’indicazione della varie stazioni intermedie (mansio) e le relative distanze. Le iscrizioni riportano: EBURODUNUM (Embrun), RAMAM (antica città celtica di Rama circondata per anni da un alone di mistero, di cui i francesi hanno hanno trovato i resti a La Roche de Rame Champcella), BRIGANTIUM (Briancon), SEGUSIONEM (Susa), OCELUM, TAURINIS (Torino).

Itinerarium Gaditanum, trascrizione

Gli studiosi di storia romana e archeologia esaminando le distanze in miglia tramandate dalle fonti antiche hanno ricavato parte dell’itinerario che riguarda la strada delle Gallie traendo alcune certezze:

  • La distanza tra Torino e Susa è di XL (40) miglia, e la distanza tra Torino ed Ocelum è XX (20) miglia in tutte le fonti che la citano. Ocelum quindi è fisicamente il punto di mezzo della strada tra Torino e Susa.
  • Nel I secolo Ocelum scompare ed al suo posto viene citato “Ad Fines”, che tutti gli itinerari concordano di collocare da 2 a 4 miglia più vicina a Torino e, di conseguenza, più lontana da Susa, restando invariata la distanza tra queste due città. Questo concorda con il ritrovamento di Ad Fines a Malano, nella piana sottostante, a poche miglia di distanza, poco lontano dal punto in cui doveva esserci il ponte che attraversava la Dora. Un miglio romano corrisponde a 1.481,75 metri.

In una carta del 1770, sulla dorsale di Torre del Colle, compare il toponimo Castellar, oggi scomparso, ad indicare un sito appena soprastante il punto in cui cadrebbe il XX miglio se si prende la strada che scavalca il crinale di Torre del Colle per collegare Novaretto a Villar Dora. Al CasteIlar si trovano in superficie reperti di età romana di difficile datazione; e poiché nessun documento giustifica questo toponimo, è immediato il pensare ad abitati fortificati. Poteva essere quello il sito di Ocelum, anche se non necessariamente l’unico agglomerato che portava questo nome essendo inteso come un confine geografico. Si potrebbe pensare a un abitato costituito da diversi piccoli nuclei sparsi, fisionomia coerente con la realtà socioeconomica di piccoli gruppi dediti all’allevamento ovino in forma prevalente rispetto a una coltivazione di cereali praticata forse più a valle.

La zona di Torre del Colle nella carta regionale del Piemonte

Un toponimo Ocolium è segnalato nel 1285, S. Petri de Azolio compare nel XV secolo ad indicare una cappella tra le borgate Braida e Margaira di Novaretto sull’itinerario di superamento della dorsale rocciosa che passa sotto il Castellar, dove attualmente c’è un pilone dedicato a San Pietro. Il pilone di San Pietro è effettivamente collocato dove anticamente sorgeva una chiesa dedicata a San Pietro, ed è edificato su un pilastro dell’antica cappella. La si trova citata abbastanza sovente nei documenti medievali relativi alla Castellania di Caprie: “retro ecclesiam sancti petri de ouzolio”, “in sancto petro de auçoil” (Rendiconti 1385); “loco dicto ad sanctum petrum de auczolio”, “ad sanctum petrum” (ricognizioni 1410, 1442) ecc. La località è diventata particolarmente importante per gli storici dopo che molti studiosi si sono convinti che “ouzolio” e simili siano toponimi che indicherebbero la famosa località romana di Ocelum. Tesi avvalorata da un reperto archeologico ritrovato in loco: un miliario conservato come colonna, sia pure senza più iscrizione, nel castello di Villar Dora.

Novaretto il pilone di San Pietro

Tale zona, col suo aspetto di sperone prominente sul letto della Dora Riparia che giunge nella sua ultima propaggine (Torre del Colle) quasi a lambire il fiume, restringendo in modo marcato l’imbocco della valle e anzi sbarrandolo a chi procede sul versante sinistro, ma anche realizzando tra le conche di Caprie a ovest e di Almese a est una separazione che ha sul suo crinale un’area di controllo verso entrambe, è quanto di più verosimile la Valsusa possa offrire per concretizzare il quadro di Ocelum che le fonti antiche lasciano intravedere.

Solo l’archeologia potrebbe offrire conferma a queste ipotesi e l’area che più meriterebbe un tentativo d’indagine in questo senso è quella compresa tra il pilone di S. Pietro e Castellar.

Gianni Cordola

Fonti consultate:

-Wikipedia l’enciclopedia libera

-M. CAVARGNA , La strada romana “Per Alpes Cottias”, in Segusium 38 (1999), pp. 11-13 (in part. su Ocelum: pp. 23 e 25).

-DARIO VOTA, Ridiscutere Ocelum. Per uno studio dell’insediamento in Valle di Susa alle soglie dell’incontro con la romanità, in Segusium n. 42 (2003) pagg. 11-46.

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Il campanaro

La campane della Chiesa di Condove con quelle delle Chiese di Mocchie, Frassinere, Maffiotto e Laietto sono la musica dei nostri paesi, delle nostre valli, del nostro paesaggio. Le valli del Sessi e del Gravio l’accolgono, e la restituiscono come echi tutt’intorno.

Da tempo immemorabile l’uso delle campane è espressione religiosa della comunità ecclesiale, strumento di richiamo per le celebrazioni liturgiche e per altre manifestazioni della pietà popolare, e segno che caratterizza momenti significativi della vita della comunità cristiana e di singoli fedeli. 

Le campane sono il nostro presente, non solo il nostro passato, hanno scandito la nostra vita di paese e di montagna. Erano loro a dire quando rientrare in casa dai campi, quando era il tempo della preghiera e dell’andare a messa. Ma erano anche le voci sentinella che gridavano per annunciare gli incendi e in molti casi venivano usate per scoraggiare l’arrivo della tempesta. 

Suonare le campane è molto faticoso, spiega un anziano campanaro, oggi ci sono quelle meccanizzate che facilitano il compito; ma, quando c’è da farlo a mano, si suda ed anche parecchio. È una questione di testa, nerbo e volontà insieme: fatica muscolare e assoluta concentrazione mentale, per coordinarsi a dovere nei movimenti, in un ideale, unanime tensione al raggiungimento della perfezione esecutiva. Forse si contano sulle dita di una mano quelli che dal basso, udendo quei rintocchi festosi e solenni insieme, immaginano chi potrebbe nascondersi sulla sommità, tanto è entrata ormai nella mentalità comune l’idea delle campane elettrificate, tanto è andata scomparendo, in parallelo, la figura del campanaro.

La vita del popolo montanaro delle valli del Sessi e del Gravio è stata scandita dal suono delle campane. Ancora da bambini s’imparava a comprendere i messaggi lanciati alla popolazione dai suoni provenienti dal campanile delle chiese: dal timbro e dal tono di voce dei bronzi usati si capiva se si trattava dell’annuncio di una nascita, di una morte, dell’inizio di una  funzione religiosa, della scuola, dell’Ave Maria mattutina e serale, della sosta per il pranzo o del Vespro.


Era uno spettacolo vedere il campanaro in azione. Lassù, nella torre campanaria, è come una gran festa che si sprigiona dalla forza delle braccia aggrappate alle grosse funi fatte di ruvida corda intrecciata; che riversa la sua intensità sui batacchi e, attraverso questi ultimi, si riverbera solenne nelle piazze, nei vicoli, dentro le case delle borgate più alte. Un lavoro stancante, per il notevole sforzo che comporta, in certi periodi e situazioni un’attività che mette a dura prova la stessa resistenza fisica: d’inverno, al freddo pungente e d’estate esposti al sole cocente.

Il campanaro faceva sempre viaggiare la stima e l’amicizia di pari passo con una serietà sul luogo del lavoro rigorosa: tra una scampanata e l’altra, pertanto, erano benvenute battute scherzose, risate e sorrisi, simpatiche pacche sulle spalle. Ma quando arrivava il momento di cominciare, scendeva un silenzio colmo di concentrazione. È il conto alla rovescia, prima che il più maestoso dei rintocchi desse il via all’emozione del concerto. Quello del campanaro è un sapere antico da tramandare e riscoprire.

Il campanile della Chiesa di Condove

Pur non essendo un vero e proprio mestiere quella del campanaro sacrista era un’incombenza quotidiana normata da una rigida cadenza temporale. Le competenze tecniche richieste, apprese dall’esempio pratico fornito dai più esperti non consentivano di improvvisare. Il controllo sociale sull’operato del campanaro era rigido se non altro perché tutti i compaesani potevano udire quotidianamente i rintocchi delle campane e dare giudizi sulla bravura o meno del campanaro. Per provvedere alle varie serie di rintocchi previste in una giornata occorreva una larga disponibilità di tempo. A causa di ciò il mestiere di campanaro, attività tipicamente maschile, era in genere delegato ad anziani ormai fuori dalle attività produttive oppure a ragazzi adolescenti.

Il suono delle campane aveva anticamente, oltre alla funzione liturgica, anche una funzione sociale e la vita dei paesi era regolata da questo suono, sia giornalmente che nelle occasioni straordinarie. Come minimo le campane venivano suonate tre volte al giorno: in quelli feriali iniziava con l’Ave Maria del mattino.

Il suono dell’Ave Maria era ed è il suono che per il credente si fa invito a rivolgere il suo pensiero a Dio all’inizio del nuovo giorno, una speranza per un lavoro proficuo e sereno, mentre per tutti segna l’inizio ufficiale dell’attività lavorativa. Tenendo conto che pochi erano i possessori di un orologio sul posto di lavoro, il suono dell’Angelus a Mezzodì, avvisava i contadini nei campi e tutta la popolazione che era giunta l’ora di ritornare alle proprie case e sedersi attorno al desco o comunque di sospendere per un momento il pesante lavoro e consumare il loro frugale pasto all’ombra di un filare se nella vigna o sotto ad un gelso se in un prato, preceduto da un attimo di silenzio in piedi e con il cappello in mano rivolti verso la Chiesa. La giornata trovava poi il suo culmine con il rintocco dell’Ave della sera che concludeva il lavoro nei campi e il ritorno di uomini e bestie alle loro case

Nei giorni di vigilia e in quelli festivi, o con i rintocchi o con il suono a distesa, le campane regolavano tutti i momenti della giornata, dalle messe del mattino ai vespri del pomeriggio. Perfino durante la messa solenne le campane venivano suonate anche al momento dell’elevazione.

Le campane si utilizzavano anche per annunciare il triste trapasso dei montanari: due tocchi e due rintocchi per i defunti maschi, due tocchi e un rintocco per i morti di sesso femminile; è un suono mesto e lento che saluta e accompagna all’ultima dimora un componente della grande famiglia civile e religiosa, un componente della Comunità. Possiamo immaginare per un attimo che anche le campane abbiano un cuore. I loro rintocchi, i loro suoni, dall’alto del campanile scendono come lacrime sulla bara che si sta avvicinando al campo dei santi e si unisce al pianto di tutta la famiglia Parrocchiale.

Il suono più temuto era quello della campana a martello che indicava lo scoppio di un incendio o qualche grave avvenimento chiamando tutti al soccorso. Il suono più bello delle poche campane rimaste sui campanili delle nostre montagne, ricordano ancora gli anziani, è stato quello che nell’aprile 1945, ha annunciato la fine dell’ultima guerra. Il servizio del campanaro veniva ricompensato con l’offerta di un pranzo quando capitava nelle parrocchie più lontane. Per lui c’era anche qualche altro introito in occasione dei funerali o dei matrimoni; erano cose da poco, ma, allora, negli anni cinquanta del primissimo boom economico tutto faceva comodo.

Venendo ai nostri giorni, considerato il totale cambiamento delle liturgie, i moderni sistemi di comunicazione, la diversa e ridotta partecipazione della gente alle funzioni e l’età non più giovanissima degli ultimi campanari, si è scelto di elettrificare il suono delle campane in diverse parrocchie per evitare che i nostri campanili diventino un silenzioso pezzo da museo. Da qualche tempo però si presentano difficoltà e problemi in parte dovuti alle mutate condizioni della vita, in parte a pregiudizi ideologici, e in parte alle norme civili in materia di inquinamento acustico e le campane sono obbligate a ridurre al minimo la durata e il volume del suono. Inoltre il suono delle campane normalmente non si esegue prima delle ore 7 e dopo le ore 22, ad eccezione della Veglia Pasquale, della Notte di Natale ed eventuali ricorrenze concordate con l’Autorità ecclesiastica.

Gianni Cordola

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Il pane del montanaro: pane di segale

La montagna nel passato era vissuta molto diversamente da oggi: la vita era connaturata con l’ambiente, dal quale si ricavava ogni sostentamento. La nuda terra e il bosco erano elementi da cui dipendeva la sopravvivenza delle famiglie, attraverso una serie di attività agricole e forestali, scandite da un secolare calendario.
Ogni stagione era connotata da specifiche lavorazioni: in primavera si concimavano e si aravano i campi per le semine (cereali, patate e legumi), e in estate si falciavano i foraggi, si mietevano i cereali (orzo, segale, avena e grano).

La segale è un cereale di antichissima origine, conosciuto in Europa e sulle Alpi da circa 3000 anni e molto utilizzato nelle borgate in quota perché più resistente e rustico del frumento. La segale, infatti, non richiede terreni preparati e talora si trova addirittura, infestante, nei campi di frumento, inoltre tollera bene le condizioni climatiche umide e fredde dei terreni alpini.

Con la farina di segale i montanari ricavavano il pane nero come è comunemente conosciuto il pane di segale a causa del suo caratteristico colore scuro, prodotto tipico di tutto l’arco alpino. Si tratta di un pane povero, utilizzato nella cucina contadina dell’area alpina e un tempo tenuto in scarsa considerazione. Oggi, invece, è ricercato per le sue qualità nutritive e i suoi aromi antichi e genuini: la segale è infatti molto energetica e ricca di sostanze e di elementi essenziali molto importanti per l’organismo. Il gusto è leggermente acidulo, la mollica è morbida, di colore tendente al grigio-scuro, la crosta è croccante, dorata e speziata. Veniva cotto poche volte l’anno in condizioni di luna crescente per favorire la lievitazione e pare che il pane cotto in questi periodi si conservasse meglio e non ammuffisse.

Un secolo fa mia nonna il pane nero lo faceva così: preparava l’impasto classico con farina di segale, acqua, sale, lievito (lievito naturale riprodotto da un precedente pezzo d’impasto che si era lasciato riposare e prendere una naturale acidità sotto un piatto rovesciato in un angolo della dispensa). Una volta impastato e lavorato nella forma tipica rotonda od ovale alta 5 o 6 centimetri, le forme venivano affiancate l’una all’altra su una lunga tavola di legno. Una volta arrivata al forno della borgata, che aveva prima provveduto a preparare dando fuoco alle proprie fascine di legna, procedeva alla cottura. Cotto il pane lo si conservava per i giorni che seguivano nella tipica madia costruita con il coperchio bombato da cui prendeva il nome, una sorta di contenitore in legno povero ma quasi sempre abbellito con decori incisi, quasi privo d’aria, che lasciava il pane in sottovuoto naturale, un aiuto per la sua lunga conservazione. Il pane degli ultimi giorni, ovviamente non più tanto fresco, ma anzi abbastanza indurito ormai, non andava gettato via, era ancora buono per essere utilizzato per condire minestre o altro.

Gianni Cordola

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