La leggenda delle stelle alpine

La credenza che i fiori possano nascere dalle lacrime o dal sangue umano è assai estesa in certe regioni delle Alpi, ed è ancora una poetica memoria del passato rimasta fra i montanari. Fra le tante leggende medioevali che somigliano in parte a certi tristi racconti che ci vennero lasciati dai poeti greci e latini, se ne trova una la quale narra della stella alpina edelweiss.

Certo non è lieta la leggenda dell’edelweiss come veniva narrata nelle veglie invernali, la quale racconta che sopra una vetta altissima delle Alpi, vicino alle nevi perenni siede la Dama Bianca o Regina delle Nevi, splendida come una dea ma circondata da feroci folletti armati con lance di cristallo. Se un alpinista imprudente o un cacciatore di camosci vuole avvicinarsi alla Regina delle Nevi attratto dalla sua sfavillante bellezza, essa lo guarda e gli sorride. Come affascinato egli sale, sale sempre, non curandosi dei pericoli, ed essendo acceso di fervido amore altro non vede, non ammira che il bel volto candido della Regina e la sua corona di gemme scintillanti; ma i folletti come spiriti gelosi lo assalgono con impeto, e l’infelice precipita fra i crepacci della neve e del ghiaccio. Mentre egli sparisce la Dama bianca piange e le sue lacrime scorrono sulla superficie dei ghiacciai , scendono fra le rupi e formano le stelle argentee degli edelweiss.

Stella alpina Edelweiss

Secondo un’altra leggenda svizzera, Edelweiss, una fanciulla delle Alpi con animo molto nobile e puro, non riusciva a trovare un amato degno di lei, rimanendo sola. Alla sua morte, le fate della montagna la deposero sulle cime innevate, trasformandola in stella alpina.

Un’altra leggenda, vuole che la stella alpina sia un fiocco di lana del Paradiso che la Madonna, addormentandosi mentre filava, fece cadere un giorno sulla Terra. Chi ritrovò questo fiocco, che nel frattempo si era trasformato in un fiore, lo chiamò edelweiss, che significa “nobile candore”.

Il fascino di questo fiore a forma di stella e la sua rarità, oltre alla sua capacità di conservarsi a lungo, ne hanno fatto una specie di portafortuna.

Una filastrocca di autore a me ignoto racconta l’origine del fiore simbolo delle Alpi, differenziandosi dalle più conosciute leggende:

Giunse in cima a una montagna – un fanciullo sognatore – che voleva al ciel rapire – d’una stella lo splendore. – Guardò in alto e la più bella – parve essergli vicina: – tese il braccio e la raccolse – con la mano piccolina. – Ma non resse al grave peso – del bell’astro serotino, – che precipitò dal monte – trascinando il fanciullino… – Arrestando la sua corsa – contro un masso desolato: – e ivi, morto, giacque a lungo – sol dal vento accarezzato. – Ma un bell’angelo del cielo – scese rapido la china: – pianse, e cadde sulla stella – una lacrima divina. – Dalla stella e da quel pianto – nacque il fior della montagna, – che risplende fra le nevi – e che il sangue ardente bagna.

Gianni Cordola

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La Corte di Savoia attraversa il Moncenisio il 15 febbraio 1476

Un articolo scritto da L. Vaccarone, tratto da: Rivista mensile del Club Alpino Italiano, Pubblicata per cura del consiglio direttivo – Redattore prof. Carlo Ratti – Vol. XII Anno 1893

La duchessa Jolanda, reggente e tutrice del figlio Filiberto I, trovandosi sullo scorcio dell’anno 1475 al castello di Rivoli, delibera di portarsi a Ginevra onde soccorrere il duca di Borgogna Carlo il Temerario, che fa guerra agli Svizzeri.

Emissari sono spediti nelle valli di Lanzo, di Susa, di Pinerolo a requisire bestie da soma pel trasporto del bagaglio ducale e della Corte. La piccola città di Rivoli è in fermento per i preparativi; gli alberghi San Giorgio, Scudo di Francia, Leone, Montone e Campana sono pieni zeppi di mulattieri, portatori e uomini d’arme. Un sergente è deputato a sorvegliare in Sant’Ambrogio il passaggio del bagaglio che s’incammina verso la metà di gennaio 1476. Occorrono duecento muli, e non sono troppi, come a tutta prima potrebbe parere, ove si consideri che nei suoi viaggi la Corte trasportava tutto con se, persino le tappezzerie “qui estoient demoureez tendues es murailles et chambre du chasteau de Riuolles quant madame se partist pour passer les montaignes du mont signix”.

Partito il bagaglio si pensa al corredo per le persone. La stagione rigida, proprio nel cuore dell’inverno, la tenera età dei principini, l’ultimo ancora con la nutrice, la dilicatezza delle dame, impongono degli accurati preparativi per difendersi dai gelidi venti della Vanoise. A riparare il capo si confezionano dei grandi cappucci di panno nero di Roan che scendono fin sulle spalle, foderati di velluto nero, a doppio pelo, dal collo in su e di pelliccia dal collo in giù. Dello stesso panno, foderati di pelliccia, si fanno pettorali. Il sarto prepara abiti “de fin drap gris daubeuille” per la duchessa e principesse, e “iaquetes de bon drap pour passer les montaignes” pei principini, foderati di penne bianche nel corpo e nelle maniche. I mantelli son di drappo bianco di Borgogna; la duchessa ne ha due, uno bianco guernito di 24 fibbie d’argento dorato, l’altro nero amplissimo in caso di gran freddo; calzature foderate dello stesso panno di Borgogna e guantoni di lana “fais a la gueulhe”.

II 12 febbraio la Corte si mette in viaggio. La duchessa Jolanda con le figlie, principesse Maria e Luisa, sono portate in lettiga; il duchino, d’anni 11, gli altri principini, dame e il seguito vanno parte in “charios branlans” e parte a cavallo. Vengono dietro 34 muli carichi di “viures vaysselle d’argent joyaulx tant de madame de monseigneur de mes damoyselles et des dames de la maison, reliques de la chappelle, toutes choses dangereuses, et aussi choses necessaires pour les officiers de panaterie cousine et boteillerie fait marche auecques culy”.

Dai conti di Tesoreria Generale di Savoia, conservati nell’Archivio di Stato in Torino e da cui ricaviamo le presenti notizie, non risulta che alcun cavaliere, all’infuori dello scudiere Ugonino di Montfalcon, accompagnasse la duchessa, o quanto meno non vi è nominato, mentre invece si nota con scrupolo il nome non solo delle dame ma pure delle loro cameriere . Le dame erano ventitre, nel conto specificate così: “madame myolans et sa fillie, la dame de Montchanuz, la dame de Troches, la dame de St ynocent, la dame de la Balme, la Ianne de Moussy, la Iaqueme de Challes, la Anthoynete de Villars, la guille de la moute, larthaude, la loyse dextre, la dame de la crois et sa fillie, la francoise mareschalle, la tomine de blonay, langloyse, la grecque, la verdonne, lysabeau de Beaulmont, la catheline, la marion”. Altrettante erano le cameriere.

Il primo giorno pernottarono ad Avigliana, il secondo a Susa. Ad ogni borgata si aggiungeva una scorta d’uomini del luogo che accompagnava il corteo sino alla borgata successiva, donde retrocedevano, sostituiti da un’altra scorta di quest’altro luogo. Nelle borgate in cui il corteo doveva fermarsi a pernottare giungevano precedentemente due camerieri ducali coll’incarico di “appareiller les giptes et les demourees auant que messeigneurs et dames arriuassent en leur logis”. A Susa si trovarono i muli venuti da Termignon per caricare le persone del seguito giunte sui carri; per i principini erano state costrutte ivi tre lettighe speciali.

Si parti il 14 da Susa. La duchessa e le principesse continuarono in lettiga sino alla Novalesa concedendolo lo stato della via, e così i principini i quali, perché non si annoiassero, separati com’erano l’un dall’altro, furono regalati ciascuno “dung ieu de cartes e dymy millier despingles pour passer temps en les dites lytieres”. Notiamo che a portare la lettiga della duchessa sono adibiti 16 uomini, così per quella del duchino Filiberto, pei principi Carlo e Giacomo Luigi 8 uomini. Le dame, cameriere ed altre persone del seguito sono sopra cavalcature tenute al morso ciascuna da un mulattiere.

Alla Novalesa aspettano le guide o marroni. La duchessa con le figlie, scese dalle lettighe, salgono su mansueti e robustissimi muli fatti venire da Lanslebourg, e si avviano verso la Ferrera con ai fianchi i marroni pronti ai soccorsi, essendo la strada, ripida ed angusta, sovrastante al profondo burrone della Cenischia. Questo passo, al pari di quello superiore detto delle Scale, era ed è tuttavia pericolosissimo nell’inverno, per l’effetto del gelo le cavalcature difficilmente possono reggersi e minacciano rovesciarsi ad ogni mossa di piede.

Abbiamo trovato in altro conto di Tesoreria Generale del 1375, un secolo prima della traversata di Jolanda, che nel trasportare il vasellame della Corte da Montmélian a Susa “ij vaissel se sunt perdu par deffaulte dune beste qui set derochie en moncenix desoubx la feriere en lesgue et la dicte beste fut morte”. Arrivati alla Ferrera si distribuiscono gli alloggi presso gli abitanti e le due “hosteleries du moton et de la croys blanche”.

Il viaggio non era stato funestato da alcun incidente, ma la marcia fu molto lenta causa le tre lettighe dei principini, troppo voluminose; e i marroni ebbero a dichiarare che con esse non si poteva fare la traversata. Fortunatamente nel corteo eravi il costruttore, Giovanni Monier maestro dei lavori del castello di Rivoli, il quale, aiutato da due garzoni, si mise subito attorno “en faire troys caysses pour pourte monseigneur le duc, charles monseigneur, et iacque loys monseigneur le prothonotaire”.

Per fare le tre grandi lettighe mastro Giovanni aveva lavorato dieci giorni a Susa, aiutato da altri falegnami della città, ed esse erano molto ben riuscite; a parte la mole non adatta per il luogo, non lasciavan nulla a desiderare, comode, eleganti, imbottite di panno della fabbrica di Pinerolo. Alla Ferrera invece le tre casse furono, si può dire, improvvisate. Si noti ancora che a un dato punto mancarono le ferramenta e i chiodi per fermare gli assi e si dovette spedire a cavallo l’oste del Montone a Susa per farne provvista.

Intanto mastro Giovanni, approfittando dell’assenza del padrone, mette sossopra l’albergo e vi prende quanto gli può servire; stacca dalle pareti ed applica alle casse delle lunge pertiche che facevan l’uffizio d’attaccapanni “pour pendre mantils linceulx et manteaux de pellerins”, raccoglie mazzi di corde “employe en estacher lesdites caysses pour les pourter en branle”, e tanto si agita e sospinge i lavori dei suoi aiutanti che al mattino seguente (15 febbraio) tutto è in pronto. Certo che in fatto di costruzione, di eleganza, saranno parse tre casse… da morto, ma di questo non si diede pensiero più che tanto mastro Giovanni, il suo obbiettivo era di fare, fare solidamente e presto, e l’ottenne.

La Corte parti dalla Ferrera montata sulle cavalcature, tranne i tre piccoli monsignori installati nelle casse, portate ciascuna da quattro uomini e seguite da altri quattro pel ricambio. Le cavalcature sono condotte a mano dai mulattieri, camminano ai lati della duchessa quattro marroni , le principesse ne han due ciascuna e le altre dame uno; altri quattordici sono destinati a portare aiuto ai muli pericolanti.

Il conto del Tesoriere Generale non fa menzione di alcuna spesa fattasi all’Ospizio del Moncenisio: probabilmente non vi si saranno fermati. Valicato il colle trovarono le slitte “pour ramassier”. Lo scudiere Ugonino di Montfalcon nota la retribuzione data a diversi bifolchi che da Lanslebourg han fatto trainare le medesime dai buoi sino al colle. Salirono nelle slitte la duchessa, il duca, le due principesse e altre dame “et sont alees despuis le dessus de la montaigne iusques bien pres de termignion”, nel qual paese pernottarono.

Il giorno seguente 16 ripartirono sui muli e raggiunsero St André ove si fermarono il 17 essendo giorno di domenica. Il 18 si portarono a St Jean-de-Maurienne. Madama de la Balme indispostasi non potè continuare il viaggio sul mulo, fu portata in lettiga da 16 uomini a St Jean-de- Maurienne indi a La Chambre ove rimase in cura verosimilmente in casa di parenti. Il 19 la Corte raggiunse Aiguebelle, il 20 Montmélian e il 21 Chambéry. II 22 i mulattieri, portatori e marroni di Lanslebourg, della Ferrera e Novalesa sono licenziati e fanno ritorno colle rispettive cavalcature ai loro paesi.

Ecco quanto abbiamo potuto ricavare dal conto del Tesoriere Generale, irto di cifre, diffuso, minuto nelle più piccole spese, ma assolutamente silenzioso su qualsiasi altro particolare non retribuito. I conti dei tesorieri, allora come oggi, non sono diari su cui sia permesso annotare descrizioni e impressioni di viaggio, ma viceversa, per quel che racchiudono, costituiscono una fonte sicura, di valore storico molto apprezzato. E però osiamo sperare che le cose sopra scritte siccome “vere” saranno gradite dagli studiosi quali granelli che giorno per giorno si raccolgono e vanno ad accrescere i materiali che dovranno un di servire per scrivere in modo esauriente la storia delle Alpi nei tempi andati.

L. VACCARONE (Sez. di Torino) Anno 1893

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La leggenda del Culèiss della montagna Condovese

Anche sulle montagne della Val di Susa, come sulle altre catene di monti, in mezzo agli ultimi baluardi, fra i quali durano più a lungo le leggende, si credette generalmente, e credesi ancora in qualche borgata, nell’esistenza di spiriti che prendono parte ai lavori ed alla vita dei montanari.

I miei vecchi tramandavano la storia di una misteriosa luce che, in tempi lontani, forse secoli o forse decenni prima, seguiva le persone di notte nelle strade di campagna buie e solitarie, la chiamavano in Piemontese “ël Culèiss” (fuoco fatuo) o anche “Culèss ò Culass”.

Tutti i viandanti asserivano di averla vista almeno una volta all’imbrunire e di essere ancora segnati dall’esperienza. La rappresentavano come una palla luminosa rotonda, non tanto grande, simile a una grossa zucca, aveva una luce pallida e bluastra, qualcuno dice che sembrava un occhio, altri la descrivevano come un grosso sedere¹, non si capiva bene.

Il Culèiss

Dava la sensazione di galleggiare nell’aria a poca altezza dal terreno, andava lenta dietro ai montanari che al tramonto rientravano a casa dal lavoro dei campi. Non si avvicinava mai, stava sempre alla stessa distanza, se uno si fermava, anche la luce si fermava.

E la cosa strana è che nessuno ne aveva paura anzi si sentivano rassicurati pur avendone un certo timore, guai a cercare di prenderla. Per ringraziarla della compagnia e farla andare via bisognava lasciare qualcosa per terra, un’offerta, come una mela, un pezzetto di pane, ecc. qualcosa, allora la luce spariva e non seguiva più le persone.

Secondo vecchie leggende, questi spiriti erano angeli cacciati dal paradiso e non accolti nell’inferno, i quali vagano incerti sul loro futuro destino o potevano essere interpretati come la manifestazione degli spiriti dei morti che vegliano sui viandanti, in particolare anime di defunti recenti, che si aggirano sulla terra in attesa di entrare nell’aldilà, o anime dannate o del Purgatorio, oppure di bambini morti senza essere battezzati.

Le leggende sul Culèiss” sono moltissime. Nell’antichità si ritenevano la dimostrazione dell’esistenza dell’anima. Alcune popolazioni nordiche invece credevano che seguendoli si trovasse il proprio destino.

Per alcuni studiosi, i fuochi fatui, nonostante la loro apparente connessione con il mistero e le innumerevoli leggende delle quali sin dall’antichità sono stati protagonisti, sarebbero un fenomeno scientifico facilmente esplicabile: queste inquietanti fiammelle che fluttuano improvvisamente davanti ai nostri occhi sarebbero prodotte dai gas emessi da materie organiche durante la loro decomposizione. Queste emanazioni sono composte da idrogeno e fosforo, che si infiammano spontaneamente non appena entrano in contatto con l’ossigeno dell’aria.

Un tempo, quando i corpi non venivano sigillati nelle bare di zinco, era possibile osservare questo fenomeno nei cimiteri. Si verifica però anche dove è stato sotterrato un animale e nei terreni umidi ricchi di sostanze organiche come acquitrini e torbiere. Il periodo migliore per osservarli pare essere nelle calde sere d’agosto.

Altre teorie, suffragate dalle parole di molti testimoni che descrivono il fuoco fatuo come una luce fredda, sostengono la tesi della chemiluminescenza della fosfina e non della combustione.

Gianni Cordola

¹ – Da questa somiglianza probabilmente deriva il termine Culèiss che secondo il Repertorio Etimologico Piemontese di Anna Cornagliotti edito nel 2015 è formata dal latino “CULUM” (culo) più “ACEUM”.

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La corsa delle fate al Monte Civrari

Le leggende sono un prezioso ricordo nella coscienza popolare e conservano nella loro semplicità il segreto del passato. Oggi gli anziani montanari non si piegano facilmente a narrarle ai curiosi, però se sono certi di non essere derisi ripetono le novelle che i nonni raccontavano d’inverno ai ragazzi nelle stalle.

Ho visto qualche volta mia mamma Giuseppina Pautasso commuoversi nel ricordare le fiabe che era avvezza a sentire fin dall’infanzia. Forse in un baleno tornava col pensiero nei giorni lontani; rivedeva come in un sogno la stalla angusta e nera, ove stavano raccolti vicino alle mucche, quando il vento sibilava tra le case di Pratobotrile (borgata di Condove), ed i vecchi dalle facce serene, seduti accanto ai figli, parlavano delle leggende che si raccontano da secoli mentre i fanciulli guardavano con inquietudine nell’ombra, ove forse stavano nascosti i folletti. In una di quelle serate invernali del primo novecento il nonno Battista (1879/1958) narrò ai suoi figli Giuseppina, Gasperina ed Antonio con una efficacia insuperabile una delle leggende più popolari, ed era quella che ricorda la corsa delle fate sul Monte Civrari, fra la valle di Susa e quella di Viù.

In ogni leggenda la fata è la creatura magica che a fatica si riesce a intravedere con gli occhi di un essere umano. Possiamo immaginarla con le sue ali delicate, le sembianze di una dolce fanciulla e una bellezza particolare, donata dall’universo magico a cui appartiene. Secondo la credenza popolare, le fate vivono nascoste durante il giorno perché prive di poteri magici, che riacquistano invece di notte. La notte è infatti il momento della giornata in cui le fate escono più volentieri ed hanno predominio sul mondo (soprattutto con la luna piena). È per questo che molte di loro sono circondate da una luce: perché essa permette di illuminare il loro cammino nell’oscurità.

La fata nella credenza popolare

Con la voce espressiva e lo sguardo scintillante il nonno ripeté ciò che gli narrarono gli avi. Si dice che una volta, forse secoli o forse decenni prima, un vecchio pastore che passava tutta l’estate in un alpeggio del Collombardo, in una casetta scura dove la sera ritirava il bestiame, alla notte mentre la nebbia passava rapidamente nelle montagne spinta dal vento che flagellava le rocce, coprendo la voce monotona del vicino ruscello, fra il chiarore della luna, egli, spaventato da un rumore di ruote e di sonagli, era uscito dalla povera casa, ed aveva visto passare la splendida e meravigliosa corsa delle fate colle corone di stelle alpine, ritte sui carri di fuoco, in uno splendore di luce, seguite dai folletti nella corsa vertiginosa sulle creste, i colli e le altissime cime scomparendo infine nel monte Civrari.

La corsa delle fate sul monte Civrari

La scena rimase talmente impressa al pastore che decise di passare nei giorni successivi nel luogo dove scomparve il corteo non trovando traccia delle fate ma solo delle stelle alpine. Il paesaggio era tristissimo nella sua imponenza, solo pascoli e rocce nella solitudine dove non giungeva altro suono di voce umana, dove moriva ogni ricordo della vita di fondovalle ma il pastore tornato al paese a fine estate descrisse con la parola come ispirata il giro percorso dalle fate, seguendo con lo sguardo le creste, le cime delle montagne, le curve dei colli lontani, e forse colla fantasia accesa le vedeva passare in quell’istante, fra lo splendore del sole e lo scintillio dei nevai.

Ora noi possiamo sorridere pensando a questa credenza degli alpigiani, ma per intendere tutta la grandiosa poesia del racconto che venne fatto dal nonno, bisognava trovarsi fra i pericoli della montagna, verso i 2000 metri d’altezza; e mentre sentivo la mamma ripetere le parole del nonno, anche a me sembrava di veder passare le fate. Da allora per gli alpigiani della valle di Susa il Civrari è il monte fatato in contrapposizione al monte Musiné ad inizio valle, che è il monte delle entità malefiche, streghe e demoni.

Questa credenza della corsa notturna delle fate sulle nostre Alpi Graie, non si deve confondere col sabba delle masche o streghe, trova invece molta relazione con altre credenze che durano ancora su tutta la catena delle Alpi da ovest ad est, dove varia solo il periodo temporale in cui avviene: inizio anno, ultima notte di carnevale o la notte di San Giovanni.

Gianni Cordola

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Quando imparavo ad andare in bicicletta

La memoria mi permette di ricordare episodi dell’infanzia e adolescenza che compongono la trama della mia vita: oggi mi è tornato in mente come negli anni Cinquanta del secolo scorso avevo imparato ad andare in bicicletta.

Abitavo alla contrada dei Fiori di Condove luogo non proprio ideale per imparare a pedalare in bicicletta non essendo terreno pianeggiante inoltre un’unica bicicletta molto pesante, grande per la mia età e senza rotelle laterali era disponibile in casa. La stessa su cui avevano già imparato i miei fratelli maggiori Mario e Giorgio negli anni precedenti.

I miei fratelli Mario e Giorgio con la bici

Fin dall’età di 6 o 7 anni, desideravo fortemente imparare ad andare in bicicletta, ma avevo grosse difficoltà a tenermi in equilibrio, contavo sull’appoggio dei piedi e di muri per tenermi e chiedevo spesso a mio fratello Giorgio continue lezioni su come guidare la bicicletta, ma nonostante i suoi consigli non riuscivo lo stesso a stare in equilibrio. Portavo la bici a mano spingendomi con i piedi per terra fino al pilone del vicolo dei Fiori e mi lanciavo in quella leggera discesa verso le case del vicolo senza mettere i piedi sui pedali per poi svoltare a sinistra verso il nostro cortile.

Provavo a rallentare non con il freno posteriore, come mi avevano insegnato ma coi piedi, ma prendevo troppa velocità e non piegavo abbastanza il manubrio. Mio fratello corse così a ripescarmi contro il muro, dove ero volato scivolando in quella curva. Ne uscivo con le gambe che andavano a fuoco per le sbucciature. Fortunatamente a quei tempi non c’erano automobili dovevo solo stare attento alle persone che uscivano da casa.

Dopo giorni di continui tentativi e diverse cadute finalmente ero riuscito a stare in equilibrio sulla bici e il meccanismo dell’equilibrio era diventato qualcosa di mio, inoltre riuscivo a far girare i pedali come lo avevo visto fare dagli altri. Entusiasmante è stata la scoperta dei freni, un gran risparmio di suole, perché molto spesso non riuscivo a frenare ed andavo a sbattere contro gli ostacoli che trovavo lungo la strada.

Io con la bicicletta

Mio padre, sul finire degli anni Cinquanta quando già frequentavo la scuola di Avviamento Professionale, mi regalò una bicicletta gialla con tanto di cambio posteriore e campanello posizionato sul manubrio ed io mi divertivo a suonarlo, lo suonavo soltanto per ascoltare il suo suono. La fece comprare da mio fratello Lino di 12 anni più grande di me in un negozio di biciclette a Porta Palazzo di Torino e poi da lì fece il tragitto in bici sino a Condove.

Col passare del tempo imparai benissimo ad andare in bicicletta dopo aver superato le prime difficoltà infantili, mi lanciai in escursioni nei paesi vicini. Mi ricordo quando volevo imparare a andare senza mani, giù per una discesa, ricordo che cadevo e che l’asfalto era duro e che mi sembrava impossibile, andare senza mani. E quando mi buttavo giù dalla strada per Mocchie, mi sembrava che la piazza mi venisse incontro.

Altri ricordi di quand’ero un ragazzino, a Condove: vedevo passare le processioni dei funerali, e ogni uomo portava a mano la propria bicicletta, una persona e una bicicletta, una persona e una bicicletta. Poi il gelataio con il triciclo frigorifero che veniva a vendere i gelati nella piazza. Aveva un gelato alla banana che non avevo mai mangiato, e la sua bici frigorifero mi sembrava bellissima.

Gianni Cordola

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Il grembiule della nonna

Avevo 9 anni quando negli anni cinquanta del secolo scorso venne a mancare la nonna materna Angela Versino di Pratobotrile (Condove) ed oggi vedendo la loro vecchia casa, luogo sacro di ricordi e calore, compio un nuovo passo nel viaggio del tempo.

La casa è in vicinanza della Cappella della borgata ed è rimasta come allora. Rivedo come in un sogno la cucina della nonna ampia, luminosa, aerata. Sulla parete un grande camino rallegra, con la sua fiamma, le lunghe sere d’inverno. Intorno ad esso una batteria di pentole di rame è appesa al muro con chiodi e ganci. Al centro della stanza un grande tavolo di legno serve come piano di lavoro e come tavola da pranzo. Qualche sedia impagliata, sgabelli e una panca sono disposte tutte intorno. Una madia per il pane e altri cibi e una finestra per dare luce all’ambiente.

La casa della famiglia Pautasso Battista e Versino Angela dove sono nati Giuseppina nel 1905, Gasperina nel 1907 e Antonio nel 1910

La nonna era una donna semplice, buona, non giudicava mai nessuno e teneva unita tutta la famiglia. Indossava quasi sempre un grembiule con ampie tasche di colore scuro. Questo abito, era semplice, ma speciale: un pezzo di stoffa nera spesso macchiato di qualche condimento. Il ricordo del grembiule di nonna mi fa percepire lo stormire del vento tra i boschi della montagna, la voce della natura, il canto della vita. Le macchie, che coloravano questa sopravveste, facevano ricordare le fatiche ed i periodi di lavoro. C’erano, infatti, spennellati con toni scuri anche i terribili momenti di guerra e di povertà che hanno reso difficili gli inizi della loro lunga vita, ma che rappresentano le tappe più importanti dell’esistenza di ogni individuo.

La nonna Angela Versino

In tempi antichi, ma non troppo, il grembiule aveva diversi compiti, il principale scopo era di proteggere i vestiti sottostanti in maniera che non siano raggiunti dalle macchie tipiche della cucina, come ad esempio quelle di olio o sugo. In cucina, il grembiule aveva anche il compito di fungere da presina e proteggere le mani dalle scottature mentre si prendevano pentole e paioli roventi dal camino e di asciugarle quando erano bagnate. Altro compito era quello di avvisare il nonno che il pranzo era pronto, infatti in quel momento la nonna lo agitava e questo gesto bastava a far accomodare il nonno a tavola.

Accessorio fortemente attribuito alla vita di montagna e contadina, il grembiule era utile anche per trasportare le uova dal pollaio, le patate dal campo alla cucina, la legna, gli ortaggi e molto altro ancora. Oggi questa usanza si sta pian piano perdendo e il caro e vecchio grembiule, simbolo universale della dolce nonna ai fornelli, ha lasciato il posto a canovacci e presine varie.

Il grembiule è un oggetto che già dagli inizi del Novecento ha fatto la sua comparsa appeso al collo delle donne al lavoro nei campi o in casa. Ricopriva l’intero corpo arrivando fino a sotto le ginocchia, poi con il passare degli anni ha subito una progressiva evoluzione in cui lentamente si è accorciato, tanto che ora, alcune versioni cosiddette “da bar” hanno l’aspetto di una vera e propria minigonna, senza la parte superiore.

Il caro e vecchio grembiule della nonna rimane comunque un pezzo di storia insostituibile e tutti coloro che in vecchia data sono stati bambini, si emozioneranno sicuramente al ricordo di un accessorio molto amato dalle proprie mamme e nonne.

I materiali di realizzazione erano diversi e così anche le fantasia, in ogni caso era un prodotto molto resistente che rispondeva perfettamente alle necessità descritte nei paragrafi precedenti. La tradizione del nostro paese era molto legata a questo oggetto e tutte le donne lo utilizzavano, basta ammirare le foto in bianco e nero, di queste ultime che lavorano a maglia, magari mentre i loro bambini giocano davanti casa.

Gianni Cordola

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Condove: dal sindaco al podestà

L’ordinamento comunale fu profondamente trasformato durante i primi anni del regime fascista, con lo scopo di indebolire l’autonomia locale e rafforzare il ruolo centralizzato dello Stato, trasformando il Comune da organo di autogoverno a ente ausiliario dello Stato per la gestione dell’ordinaria amministrazione. Con la promulgazione della legge 4 febbraio 1926, n. 237 (Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti) gli organi elettivi dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni svolte in precedenza dal sindaco, dalla giunta comunale e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, che era nominato dal governo tramite regio decreto. Il podestà rimaneva in carica cinque anni con possibilità di rimozione da parte del prefetto oppure di riconferma.
Fu istituita la consulta municipale, organo consultivo delle amministrazioni comunali. Aveva funzioni esclusivamente consultive, in quanto solo il podestà poteva deliberare. Il podestà doveva avere una solida situazione economica, quale poteva essere quella di professionisti, proprietari fondiari, industriali, in quanto non percepiva, di norma, un compenso.
Oltre al fattore economico, era richiesta possibilmente la giovane età, la mancanza di imperfezioni fisiche, avere contratto matrimonio con rito religioso, aver adempiuto agli obblighi militari (la partecipazione alla Grande Guerra era titolo di merito) e naturalmente l’iscrizione al PNF (Partito nazionale fascista).
La figura del podestà riflette la svolta voluta da Mussolini dopo gli anni dello squadrismo e dei proclami rivoluzionari, con l’obiettivo di fornire un’immagine sociale e politica fortemente rassicurante degli uomini che il Regime metteva a capo dei comuni: volontarietà, benessere fisico ed economico, famiglia, patria, fede nel Fascismo.

Il primo Podestà dell’epoca fascista a Condove fu Valentino Barbiera (già sindaco negli anni precedenti) seguito dal cav. Federico Ferraris dal 1939 al 1943.

Ultimo sindaco e poi Podestà di Mocchie fu Giuseppe Ala. Nel 1932 Podestà di Frassinere era Giacomo Rocci. I comuni di Mocchie e Frassinere vennero poi aggregati a Condove l’8 luglio 1936, con provvedimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 23 giugno 1936.

Durante il periodo del podestà i muri delle case posti in posizione strategica, all’ingresso del centro abitato o lungo le vie principali, venivano usati come lavagne per diffondere il verbo del Duce. Era una propaganda capillare, martellante e diffusa in ogni borgo abitato. Si trattava di scritte con una base d’intonaco, su cui venivano verniciati i caratteri con esecuzione manuale a pennello. Caratteri che rispondevano a una tipologia grafica sostanzialmente unica, rappresentata da un carattere tipografico privo di ornamenti, semplice e squadrato. La scelta dei detti fascisti spettava al podestà, previo accordo con il segretario politico.

Il fascio littorio venne affiancato allo stemma comunale e posto sul frontespizio del palazzo comunale di Condove con la scritta “Mussolini ha sempre ragione”. Nel palazzo del dopolavoro aveva sede il Fascio di Combattimento con un grande ritratto del Duce e dedica autografa. Le scritte furono quasi tutte cancellate alla fine del secondo conflitto mondiale, così come altre tracce che richiamavano al fascismo.

In seguito alla Liberazione e alla caduta del fascismo, il sistema elettivo fu restaurato con il Decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 “Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva”, il sindaco tornò ad essere eletto dal consiglio comunale: quest’ultimo venne infatti ripristinato dal medesimo provvedimento insieme alla giunta comunale

Alcune scritte dell’epoca fascista

Arrivando in paese dalla stazione appariva la prima

LA MIA AMBIZIONE: RENDERE FORTE, GRANDE,

LIBERO IL POPOLO ITALIANO Mussolini

In paese sul muro dell’albergo del Gallo si leggeva:

L’AZIONE FORZA I CANCELLI SUI QUALI STA SCRITTO VIETATO

I PUSILLANIMI SI FERMANO, GLI AUDACI ATTACCANO E ROVESCIANO L’OSTACOLO

Sul fronte del palazzo comunale la scritta

MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE

Sulla torre civica il fascio littorio

Sul muro perimetrale della Torretta visibile da tutto il paese

MOLTI NEMICI MOLTO ONORE

Gianni Cordola

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I pani della carità

Il 13 giugno il calendario religioso festeggia Sant’Antonio di Padova, e la mattina della domenica più vicina a quella data a Condove si celebra il Santo. Era consuetudine nei tempi antichi offrire il pane della carità, pane portato in chiesa e benedetto durante la festa e distribuito ai fedeli, un pezzetto per ognuno in famiglia. È il pane che veniva offerto ai poveri dai maggiorenti del paese in occasioni particolari, il pane speciale, quello bianco dei signori. Un pane dai molti significati, dove i culti precristiani, banditi dalla porta, sono rientrati dalla finestra in nome di un sincretismo che ha sovrapposto e riproposto le antiche tradizioni al Cristianesimo dominante.

Oggi la tradizione del pane della carità si ritrova nelle borgate della montagna Condovese in occasione della festa del Santo a cui è dedicata la Cappella ed a cura dei priori. I priori scelti di anno in anno sono i responsabili di una associazione di fedeli che di solito persegue finalità di culto. In questo caso è un laico ed ha il compito di presenziare e controllare che tutto vada bene durante la funzione religiosa nella cappella, curare l’addobbo floreale e la pulizia della stessa ed eventualmente fornire il pane della carità o un piccolo rinfresco.

La tradizione del pane della carità non è documentata, se ne ha memoria nelle persone più anziane di Mocchie e Laietto. Mio padre raccontava che la mattina della festa si andava alla casa dei priori che offrivano due grossi pani tondi o ovali decorati in vario modo, detti “la tsarità“ in francoprovenzale; una forma di pane più piccola della stessa forma e decorazione destinato alla famiglia che era stata scelta per fare i priori l’anno successivo e un’altra sempre piccola destinata al sacerdote che celebrava la messa. Si formava un piccolo corteo che giungeva alla chiesa dove aveva luogo la celebrazione liturgica. Terminata la messa si benediceva il pane che veniva tagliato a piccoli pezzi e messo in apposite ceste. I priori aspettavano accanto alla porta la gente che usciva dalla chiesa per offrire il pane benedetto e prima di portarlo alla bocca effettuavano il segno della croce.

Ma su quel pane ecco che i panificatori iniziarono a riproporre segni antichi e a ricollocare i talismani propiziatori della fertilità e di buoni raccolti. Nelle feste delle varie borgate si ritrovano spesso tali elementi, occasione per valorizzare e divulgare Il patrimonio della cultura locale. In alcune borgate il pane della carità era chiamato “ël cariton” (in piemontese) ed era una focaccia dolce farcita di uva fragola o mele spolverata di zucchero e veniva preparato solo in autunno e nelle prime settimane dell’inverno. Fatto con gli avanzi della pasta usata per fare il pane, senza aggiungere burro, con poco zucchero e utilizzando la frutta a disposizione. I pani della carità oggi sono veri e propri dolci preparati con farina dolcificata, burro e frutta (generalmente uva fragola fresca o essiccata o mele).

Vediamo come si fa oggi “IL PANE DELLA CARITÀ (Ël cariton)”

Ingredienti: ½ kg di farina, 1 hg di burro, 2 hg di zucchero, 1 uovo intero, 2 hg di uva fragola (oppure di mele tagliate a cubetti), mezzo bicchiere di latte, una bustina di lievito, un pizzico di sale.

Procedimento: Cuocere a fuoco basso latte, zucchero, burro e un pizzico di sale. Disporre la farina sul tavolo e aggiungere l’uovo e gradualmente la miscela di latte. Si impasta, incorporando per ultimo il lievito. Quando l’impasto è omogeneo, lasciarlo riposare per alcuni minuti davanti a una fonte di calore. Lavare l’uva fragola, lasciarla sgocciolare e farla asciugare. Dividere la pasta in due parti, di cui una leggermente più grande dell’altra, e stendere due sfoglie. Con la più larga foderare il fondo e le pareti di una teglia imburrata e infarinata. Quindi disporvi gli acini d’uva e coprire con l’altra sfoglia sigillando bene i bordi. Cospargere la superficie di zucchero e infornare. Durante la cottura, i chicchi di uva rilasciano il succo che si va a unire all’impasto. Lasciar raffreddare.

Origine della benedizione del pane.
Una volta, anni dopo la canonizzazione del Santo, una leggenda racconta che vicino Padova a una madre che stava lavorando nei campi cadde il figlio Tommasino in una vasca. Quando lo recuperò era morto annegato. La madre andò di corsa all’altare di Sant’Antonio, chiedendogli di restituire la vita al figlio e promettendo di dare ai poveri una quantità di grano pari al peso del bambino. Alla fine della supplica, il bambino si rianimò e tornò normale. La donna prese il grano, fece il pane e lo distribuì ai poveri. Per questo venne chiamato “Pane di Sant’Antonio” ed in seguito “Pane della carità”.

Gianni Cordola

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Quando si andava alla “maròda”

Fino agli anni cinquanta del secolo scorso, tra le bravate di noi ragazzini in età di scuola dell’avviamento industriale (11 ÷ 14 anni) abitanti a Condove c’era quella di avventurarsi al di là dei confini del paese per “andé a la maròda come si diceva allora.

Ci trovavamo in piazza tutti con la bicicletta ed andavamo verso il Castello del Conte Verde (Castrum Capriarum) per raggiungere i terreni tra il paese di Caprie e Novaretto ai lati della strada Statale detta la Militare, area a quei tempi ricca di frutteti. Lasciate le biciclette in un posto sicuro ci si avventurava a piedi in silenzio verso gli alberi da frutto e razziavamo di tutto: ciliege, pere, pesche, prugne, mele, persino fragole e uva a seconda della stagione.

Frutti sovente ancora acerbi, da nascondere sotto la maglia, salvo perderne buona parte lungo la strada, dopo averli catturati con imprese memorabili nei frutteti degli altri. Compiaciuti e orgogliosi. Anche quelli che avevano in casa la stessa frutta, magari più matura. Era un gioco di squadra e di iniziazione. Si saliva di grado e di considerazione mostrando coraggio e abilità. Perché c’erano i muretti da scalare, le piante su cui arrampicarsi, e le inevitabili fughe per prati, sentieri e rive a raggiungere le biciclette e defilarsi senza farsi riconoscere, col derubato che ci inseguiva cinghia alla mano lanciando dei piccoli sassi. Obbligatorio saper fischiare per avvisare del pericolo i compagni ancora intenti alla razzia.

Non c’era malizia tuttavia in noi ragazzini che ci avventavamo nei frutteti dei paesi vicini per rubare una pesca o una mela. Solo il piacere di commettere una birichinata originata dalla voglia irrefrenabile di un frutto appena raccolto. Quella della “maròda” era a quei tempi, una marachella assolutamente perdonabile, persino dai contadini più burberi e severi, purché ovviamente la frutta razziata rimanesse in quantità contenute e i razziatori non avessero arrecato gravi danni alle piante o ai raccolti.

Ma cosa significa “maròda”? Vuol dire appropriarsi di qualcosa in un modo non proprio corretto. Per comprendere il significato, partiamo dalla parola “maròda” e dal verbo “marodé”, termini piemontesi che significano rispettivamente piccola razzia e rubare la frutta dagli alberi e sempre in piemontese“marodeur” è il ladruncolo. Questi termini piemontesi richiamano due corrispondenti vocaboli, uno della parlata francoprovenzale (dove maroda significa ladrocinio), e l’altro dalla francese (dove marauder significa predare, saccheggiare; e dove il maraud è la canaglia o vagabondo. Possiamo quindi ipotizzare che il termine piemontese derivi dall’antico francese “maraud”.

Gianni Cordola

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Il cappello di carta

Mi è successo di vedere in rete una immagine di un imbianchino col cappello di carta in testa e di soffermarmi a guardarla. Come succede in questi casi, il passo che si fa a ritroso nel tempo è lungo, a quando ero bambino, riportandomi alla mente i momenti successivi all’arrivo in casa dell’imbianchino o meglio del decoratore come viene chiamato oggi.

L’imbianchino è sempre stata una delle figure tradizionali dei mestieri svolti nelle nostre case. I miei ricordi vanno agli anni 50 del secolo scorso e l’immagine più viva e indelebile di tutti questi artigiani è data dal cappello che tenevano in testa, preparato sul posto, prima di prendere in mano il pennello: fatto in carta di giornale, piegata sapientemente per renderla una barchetta perfetta. Oggi del tutto scomparso, ma per anni l’ho visto in testa ai muratori (fatto con la spessa carta del sacco di cemento), agli imbianchini ed anche ai panettieri mentre preparavano l’impasto del pane.

Erano ingegnosi i nostri nonni, si costruivano il loro copricapo a punta che se ripiegavano all’interno diventava bustina militare, ma se lo facevano a barchetta con una pacca al centro diventava a due punte che se si ripiegavano ai lati diventava arrotondato oppure poteva diventare da alpino e chissà cos’altro. Un origamo nostrano e ricordo la meraviglia di noi bambini vedendo la creazione del cappello fatto coi fogli di giornale: era magia pura!

Vediamo come creare un semplice cappello di carta utilizzando un foglio di giornale, meglio se di un quotidiano, leggero e facile da piegare più volte. 1 – Prendere il foglio e disporlo sul tavolo. 2 – Piegarlo in due parti lungo la linea centrale. 3 – Piegare uno degli angoli verso il centro della pagina, in diagonale, formando un triangolo. 4 – Ripetere l’operazione per l’altro angolo, facendo combaciare il lato verticale dei due triangoli. 5 – A questo punto sollevare il bordo che si trova nel lato inferiore del foglio. 6 – Ruotare quest’ultimo e piegare anche l’altro bordo ed eventualmente piegare verso l’interno i bordi laterali. 7 – Il cappello di carta è pronto da indossare, allargando con le mani la parte interna per infilarselo in testa.

Gianni Cordola

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