Quand’ero ragazzino negli anni 50 del secolo scorso ed abitavo alla contrada dei Fiori di Condove, c’era un evento oltre a quello del 2 agosto, festa della Madonna degli Angeli patrona del Santuario del Collombardo, a cui i miei genitori non volevano assolutamente mancare ed era il 29 settembre festa di San Michele nella omonima Abbazia di San Michele della Chiusa monumento notissimo della Val di Susa.
Quel giorno tutta la famiglia si svegliava presto, e dopo una buona colazione e preparato lo zaino col pranzo al sacco, iniziava la camminata per raggiungere l’Abbazia. Scendevamo dai Fiori fino alla stazione ferroviaria per poi arrivare alla Chiesa di San Pietro Apostolo nel comune Chiusa San Michele (378 m), dove alla destra della stessa iniziava il sentiero che ci portava alla Sacra. La mulattiera era un lastricato di pietre e la salita si faceva subito sentire ma il percorso era ombreggiato nel bosco. Lungo il percorso, dopo circa 50 minuti incontravamo un bivio che a sinistra indicava la via per borgata San Pietro, noi mantenendo la destra, raggiungevamo più sopra un pianoro nel bosco con fontanella.
Breve sosta per bere un bicchiere di acqua fresca e poi proseguivamo arrivando all’ampio piazzale del Colle della Croce Nera (859 m) dove una stradina conduceva al Sepolcro dei Monaci e alla millenaria Abbazia (962 m). Mi sembra di ricordare che dai Fiori di Condove alla Sacra di San Michele impiegavamo quasi 2 ore e mezza.
La Sacra di San Michele è un edificio che contiene una serie di fasi architettoniche, anche molto tarde, che hanno contribuito a determinare l’aspetto attuale così romantico della basilica e del complesso monastico. La bellezza paesaggistica, le opere d’arte conservate al suo interno, la sua architettura, lo scalone dei morti, fungono da forte richiamo per le migliaia di turisti e per questo motivo, per la sua bellezza e imponenza e per il suo suo stato di conservazione, è stata riconosciuta come Monumento Simbolo del Piemonte.
Ma per mio padre la gioia più grande era veder apparire nel suo abito nero, luminoso nell’aspetto e nello spirito, sempre sorridente, quasi a far da tramite tra l’oscuro “scalone dei morti” e la chiesa sovrastante padre Andrea Alotto vecchia conoscenza di gioventù e quasi coetaneo.
Tutti i Condovesi conoscevano padre Alotto e sanno che era nato a Mocchie il 26 giugno 1902 nella piccola borgata dei Sinatti, frequenta i primi quattro anni di scuola elementare in montagna ed il quinto a Condove poi studi superiori in Seminario a Susa. Inizia il noviziato nel 1923 nella Congregazione religiosa fondata da Rosmini, consacrato sacerdote nel 1933, e dal 22 ottobre 1943 rettore della Sacra di San Michele. Affronta con energia e saggezza i venti mesi cruciali della guerra civile e della resistenza, svolgendo un ruolo determinante. La Sacra diventa luogo di rifugio per i perseguitati, mentre i partigiani la utilizzano talvolta come punto di osservazione. Nell’ambito del vasto rastrellamento del maggio 1944, i tedeschi perquisiscono la Sacra e minacciano di morte i padri, accusandoli, tra l’altro, di nascondere armi per i partigiani. Lascia la Sacra nel 1946 ma dopo un periodo trascorso tra Roma e Stresa torna definitivamente sul monte Pirchiriano nel 1951 dove rimane fino al maggio 1992 quando passa a Stresa. Si è spento il 7 gennaio 1993 e con lui è finito un importante capitolo della storia della Sacra di San Michele.
Era bello vedere i miei genitori parlare con padre Alotto, lui con il libro delle preghiere tra le mani sapeva donare serenità ed era felice di poter discorrere e raccontare episodi della vita e di sentire notizie del paese natio, sembravano immersi in un’altra dimensione in un momento unico ed irripetibile.
Dopo la chiacchierata con il padre e la visita alla Sacra si tornava al pianoro della fontanella per consumare il pranzo. C’era una maggiore disponibilità ad apprezzare le cose semplici, bastava sedersi sull’erba, davanti ad una ruvida tovaglia che offriva fette di pane scuro, un piatto di acciughe al verde, l’immancabile toma nostrana, salame, uova sode, qualche fetta di polenta e un fiasco di Avanà il vino rosso locale, per ritrovare poi l’allegria e un nuovo gusto per la vita.
Ma il tempo vola, si deve far ritorno a casa, il percorso in discesa era più facile e lo zaino era alleggerito dei cibi consumati; rimaneva il ricordo di un monumento bellissimo pur se visto più volte e la figura di padre Andrea Alotto là in piedi davanti al portale dello Zodiaco custode affabile, fedele e discreto dell’abbazia.
Le comunicazioni attraverso la Valle di Susa hanno sempre avuto grande importanza nelle relazioni fra l’Italia e la Francia e, in particolare, fra il Piemonte e la Savoia, regioni che facevano parte entrambe del Regno di Sardegna. La legge che autorizzava la costruzione della ferrovia Torino-Susa, quale prolungamento della Genova-Torino, venne approvata il 14 giugno 1852 dopo un dibattito parlamentare che si protrasse intenso e serrato per oltre cinque giorni. Fu fortemente voluta da Cavour che già immaginava una grande rete nel Regno collegata alle linee francesi e svizzere per favorire l’affluenza di navi al porto di Genova ed il trasporto passeggeri e merci.
Il Regno di Sardegna approvò una convenzione con la Società inglese Jakson, Brassey ed Henfrey per la costruzione della strada ferrata da Torino a Susa. Per il relativo finanziamento vennero emesse azioni al portatore; la convenzione riservava l’esercizio della linea al Governo che doveva pertanto provvedere al materiale rotabile e al personale, prelevando in compenso il 50 % del reddito lordo.
Non presentando l’esecuzione dei lavori particolari difficoltà tecniche, la linea venne ultimata nel corso di due soli anni e inaugurata il 22/5/1854 in Susa alla presenza del Re Vittorio Emanuele II e della Regina Maria Adelaide d’Austria, delle altezze reali Duca e Duchessa di Genova, il Principe di Carignano Eugenio Emanuele Giuseppe Maria Paolo Francesco Antonio di Savoia Villafranca.
Oltre alla Real casa parteciparono alla festa il Presidente dei Ministri Camillo Benso Conte di Cavour, Dabormida Ministro degli Affari Esteri, Rattazzi Ministro degli Affari Interni Guardasigilli, Cibrario Ministro Istruzione Pubblica, Lamarmora Ministro della Guerra, Paleocapa Ministro dei Lavori Pubblici, Cav. Des Ambrois Presidente del Consiglio di Stato, Agnes deputato del collegio elettorale di Susa, e alcuni membri delle Camere dei Senatori e Deputati. A seguire un banchetto per circa 500 persone. Colpi di cannone diretti da un drappello di artiglieria, falò sulle alture della Brunetta e fuochi artificiali resero bella ed allegra la sera del 22 maggio.
In tale circostanza vennero fregiati della Croce per Munificenza Sovrana quattro personaggi della città di Susa: il Capo dell’Amministrazione della Provincia di Susa Intendente Barone Cholosano di Valgrisance, Cler dott. Francesco sindaco di Susa, dott. prof. Ponsero Giuseppe Provveditore agli Studi della Provincia, Galassi dott. Benedetto Maggiore d’Armata e della Milizia Nazionale.
La strada ferrata, lunga chilometri 52,400 era attraversata da 80 passaggi a livello e fiancheggiata da 11 stazioni (Collegno, Alpignano, Rosta, Avigliana, Sant’Ambrogio, Condove – Chiusa San Michele, Sant’Antonino – Vaie, Borgone, Bruzolo, Bussoleno, Susa) e 21 case cantoniere.
La linea venne a stabilire un comodo e veloce collegamento con il servizio postale delle diligenze che da Susa, attraverso il Moncenisio, raggiungevano l’alta Maurienne. Su di essa si sviluppò un movimento, specie di viaggiatori, che inizialmente fu superiore alle aspettative. Nel 1854, in poco più di 7 mesi di esercizio, circolarono sulla linea 1.354 convogli che trasportarono circa 250.000 passeggeri. Per il movimento delle merci non ci fu, almeno all’inizio, servizio distinto da quello viaggiatori, i treni avevano una composizione mista che permetteva di trasportare tutto. Il servizio di trazione era svolto da locomotive a vapore Stephenson.
Negli anni immediatamente successivi, la ferrovia Torino-Susa, assieme alle altre linee del Piemonte, contribuì in maniera determinante alla vittoria del Regno Sardo e degli alleati francesi rendendo possibile il comodo trasporto dell’armata francese che nel 1859 raggiunse il Piemonte e il rapido spostamento delle truppe durante la guerra.
All’inizio del 1858 l’esercizio della linea venne assunto dalla Società delle strade ferrate Vittorio Emanuele, nata il 19 maggio 1853, ma già nel 1863 la Compagnia Vittorio Emanuele cedette al governo tutti i diritti e dal 1° ottobre l’esercizio della Torino-Susa ritornò allo Stato.
Nel 1865, con la legge del 14 maggio n. 2279, che stabilì il riordinamento generale e lo sviluppo della rete ferroviaria italiana, la linea passò alla Società governativa delle Strade Ferrate dell’Alta Italia.
Nello stesso periodo si discuteva del progetto del traforo del Frejus, i cui lavori iniziarono il 31 agosto 1857 e terminarono con l’inaugurazione nel settembre 1871; mentre nel frattempo veniva anche completato il tratto di ferrovia tra Bussoleno e Bardonecchia i cui lavori erano iniziati già nel 1867. La decisione degli ingegneri di far partire la tratta mancante da Bussoleno, per superare un forte dislivello in prossimità di Meana di Susa, fu assai criticata perché escluse la città di Susa dalla linea ora internazionale, (la Savoia e Nizza col trattato di Torino del 1860 erano state annesse alla Francia) isolandola su un breve troncone laterale.
Molti tra gli architetti e gli ingegneri che contribuirono alla realizzazione del traforo del Frejus sono ricordati tutt’oggi, perché a loro sono state dedicate vie e piazze in Piemonte e in Savoia. Tra questi, Joseph François Medail, Luigi Des Ambrois de Nevache, Pietro Paleocapa, nonché la triade degli ingegneri Grandis, Grattoni e Sommeiller, che curarono il progetto esecutivo e diressero i lavori.
Per ospitare maestranze e materiali furono impiantati due cantieri a Bardonecchia e Modane, che ospitarono quasi 4.000 tra operai e tecnici. Lo scavo della galleria venne iniziato con perforazione a mano e il 31 agosto 1857 il Re inaugurò solennemente l’inizio dei lavori facendo brillare la prima mina. La perforazione meccanica ebbe inizio il 12-1-1861 all’imbocco Sud e il 25-1-1863 all’imbocco Nord e procedette velocemente, nonostante le molteplici difficoltà naturali e la lunghezza del tunnel, grazie al sistema di compressori idraulici automatici per la somministrazione dell’aria compressa alle macchine perforatrici ideate dall’ing. Sommeiller.
A seguito dell’annessione della Savoia alla Francia, venne intanto stipulata a Parigi il 7 maggio 1862 una convenzione in virtù della quale la Francia assunse a suo carico la spesa per la costruzione di metà del tunnel in costruzione. Con legge 25 agosto 1870, prima che la perforazione fosse ultimata, si concesse alla Società delle strade ferrate dell’Alta Italia anche la costruzione e l’esercizio del tratto da Bussoleno a Bardonecchia e il diritto di esercitare la parte del traforo cadente in territorio italiano.
Il 25 dicembre 1870 la sonda perforò l’ultimo strato di roccia, che cadde il giorno successivo sotto lo scoppio delle mine, e il 17 settembre 1871 fu inaugurato il tunnel, avente la lunghezza di km. 12,233. Il 16 ottobre 1871 fu inaugurato l’esercizio ferroviario regolare nel tunnel e sulle linee di allacciamento a Bussoleno da una parte e a Modane dall’altra.
Con la stessa legge 15 agosto 1857, come si è detto, era stata stabilita la costruzione anche della linea Bussoleno-Bardonecchia, che, staccandosi dalla Torino-Susa subito dopo la stazione di Bussoleno e sviluppandosi lungo il corso della Dora Riparia prima e del torrente Bardonecchia dopo, doveva costituire il completamento dell’intero sistema ferroviario di collegamento al traforo del Frejus. Essa richiese la costruzione di 15 gallerie della lunghezza complessiva di m. 6.400, di costose ed importanti opere di difesa lungo la Dora e di 129 ponti e viadotti, di cui 30 aventi luce superiore ai 10 metri. La linea Bussoleno-Bardonecchia, avente la lunghezza di km. 41 di cui 24 a unico binario e 17 (da Salbertrand a Bardonecchia) ad un binario ma con la sede per il doppio, comprendente 7 stazioni e 44 case cantoniere, venne aperta all’esercizio il 16 ottobre 1871, a semplice binario.
La nuova linea, sin dall’apertura, si dimostrò utilissima agli scambi commerciali tra l’Italia e la Francia, tanto che fu poi deciso il raddoppio del binario su tutto il percorso francese e su una parte di quello italiano. Il 18 aprile 1872 venne completato il doppio binario in galleria.
Il 17 settembre 1871 vi fu il viaggio inaugurale da Torino a Modane, con la partecipazione del Re Vittorio Emanuele II. Al viaggio seguì un banchetto a Bardonecchia per 1300 invitati seguito da una fastosa cerimonia a Torino.
L’apertura del traforo ferroviario del Frejus diede definitiva soluzione al problema, impostato molti anni prima, del valico ferroviario del Moncenisio. Collegamento storico tra i due versanti delle Alpi, il Moncenisio aveva visto per decine di secoli transitare (per lo più a piedi) pellegrini, merci, commercianti, eserciti. La traversata del colle, soprattutto nel periodo invernale, era resa possibile dai portatori locali detti “marrons” che, grazie alla conoscenza dei luoghi, sapevano guidare gli intrepidi viaggiatori attraverso mille difficoltà. A dimostrare l’estremo interesse che aveva l’Italia a risolvere il problema dei valichi ferroviari delle Alpi per il commercio dei porti italiani e quello del Moncenisio in particolare, bisogna ricordare la ferrovia Fell, così chiamata dal suo inventore e costruttore.
Si trattava di una ferrovia lunga circa 71 km. a scartamento ridotto, che venne costruita lungo la strada del Moncenisio per collegare Susa a Saint Michel de Maurienne. A difesa dalle valanghe e dalle forti nevicate era protetta da gallerie artificiali per circa 10 km., con tetto di ferro a forma semicircolare e pareti in legno. I convogli ferroviari erano formati, oltre che dalla locomotiva a vapore Gouin, da un carro bagaglio e da 3 vagoni per viaggiatori , a due assi, con porte alle testate e sedili disposti parallelamente alla strada per 12 viaggiatori. I vagoni e la locomotiva erano dotati, oltre che dei soliti freni sulle ruote, anche di un apparato frenante agente, a mezzo di ruote di stringimento, su una terza rotaia centrale.
La ferrovia Fell fu collaudata il 29 aprile 1868 e, dopo molte prove, fu aperta definitivamente al servizio viaggiatori il 15 giugno dello stesso anno. Rimase in esercizio poco più di 3 anni, fino all’apertura del traforo.
I treni consentivano il trasporto di circa 36 viaggiatori e relativi bagagli da Susa a Saint Michel in circa 5 ore, rispetto alle dodici ore delle diligenze tirate da 3 coppie di cavalli, i viaggiatori e le merci compivano il tragitto, affrontando un viaggio non certo agevole, ma quasi privo di rischi. Il viaggio però non era facile per il calore che si sviluppava all’interno dei vagoni, specie nelle gallerie, molto basse, e per il fumo ed il vapore che entravano dalle porte. Inoltre, i prezzi di trasporto erano di poco inferiori a quelli delle diligenze e il tempo guadagnato si perdeva a Saint Michel e a Susa per attendere le diligenze, alla cui coincidenza erano legati gli orari dei treni di proseguimento.
L’ingegnere Fell si era prefisso lo scopo di smaltire, in attesa dell’apertura del traforo del Frejus, il traffico della strada del Moncenisio. In effetti, per i motivi suindicati, per le difficoltà tecniche, per la cattiva prova data dalla locomotiva, per il ritardo di circa 1 anno nella sua costruzione e per l’anticipo di circa 3 anni nell’apertura del traforo del Frejus, la ferrovia Fell, che era stata concepita con altri propositi e che era stata inizialmente accolta dal pubblico e dalla stampa, anche specializzata, quale brillante soluzione di un problema giudicato fino allora insolubile, si dimostrò in pratica solo un interessante tentativo di costruzione di ferrovia di montagna.
Il 1 luglio 1905 lo Stato assunse direttamente la gestione della rete ferroviaria italiana (e quindi anche delle linee piemontesi), con la costituzione dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato sotto il controllo del Ministero dei Lavori Pubblici. La gestione comportava l’esercizio di circa 10.500 chilometri di linee e l’assunzione di oltre 100.000 lavoratori delle ferrovie.
La linea della Val di Susa, originariamente per lo più a binario semplice (ad eccezione del traforo del Frejus, realizzato da subito a doppio binario), venne raddoppiata il 1º dicembre 1908 tra il Quadrivio Zappata e Collegno, nel 1909 tra Beaulard e Salbertrand, nel 1911 tra Collegno ed Alpignano, nel 1912 tra Alpignano ed Avigliana, nel 1915 tra Avigliana e Bussoleno, nel 1977 tra Salbertrand ed Exilles, nel 1983 tra Exilles e Chiomonte, nel 1984 tra Bussoleno ed Meana, e nel 1985 tra Meana e Chiomonte.
L’esercizio elettrico ad inizio novecento eliminò tutti gli inconvenienti della trazione a vapore nel tunnel del Frejus, che si svolgeva in condizioni molto difficili nonostante i complessi impianti di ventilazione artificiale.
Dopo la guerra 1915-1918 l’esercizio elettrico fu esteso all’intera linea. Si ritenne necessaria la costruzione di una grande centrale idroelettrica a Bardonecchia, utilizzando le riserve idrauliche dei torrenti Rochemolles e Melezet, per l’alimentazione della linea e dell’intero sistema trifase piemontese. Dopo la deviazione del Melezet, realizzata nell’ottobre 1920, venne attivata la trazione elettrica nel successivo mese di novembre da Bussoleno a Torino.
Gianni Cordola
Bibliografia:
Le ferrovie della valle di susa dalle origini a oggi – Segusium n. 9 anno 1972 – Stab. Edit. SASTE Cuneo
135 anni di strada ferrata – Raccontavalsusa 1989 – Tipolito Melli di Susa
Ël barachin o gavëtta o gamela sono termini piemontesi per indicare il portavivande, un contenitore di metallo originariamente di solo alluminio che diventa di acciaio nella seconda metà del Novecento. È composto generalmente da due pezzi che si incastrano tra di loro, un recipiente più grande che può fungere da pentolino adatto a contenere pasta o minestra, superiormente una pietanziera e un coperchio che una volta chiuso ha la funzione di tenere tutto assieme.
Veniva usato per trasportare e consumare il cibo in una borsa simile alle cartelle scolastiche, assieme a pane, a una bottiglia più o meno grande per il vino e alle posate avvolte in un tovagliolo. Il cibo è quello preparato dalle madri o dalle mogli. Il menù è vario, ma prevalgono le tradizioni regionali: i piemontesi portavano la minestra di verdura con pasta e riso, i veneti la polenta e i meridionali la pasta. Era bello vedere la diversità del cibo, c’era chi mangiava solo il primo, chi solo il secondo.
Parliamo di un oggetto che si associa anzitutto alla classe operaia quando nella prima metà del secolo scorso in Valle di Susa l’alternativa immediata alla campagna era rappresentata dall’industria, il termine barachin venne adottato per indicare gli operai stessi, poiché si portavano al lavoro il pranzo da casa in contenitori per poi riscaldarli. Un esempio su tutti furono gli operai della Moncenisio di Condove e della Fiat quando erano nel loro massimo splendore; essi erano soprannominati barachin.
Nelle aziende venne allestita una sorta di refettorio: in un angolo, con una specie di bacinella metallica o un pentolone riempito d’acqua fino a metà e con a fianco una bombola di gas e un fornello; prima della breve pausa pranzo, gli operai riponevano le gamelle e accendevano il fuoco per scaldarle a bagnomaria.
In seguito alle lotte operaie per il diritto alla refezione venne emanato il R. D. del 14 aprile 1927, n. 530 (Decreto ministeriale 20 marzo 1929) Regolamento Generale per l’Igiene del lavoro che prevedeva:
Art. 30. (Refettorio) Le aziende industriali e commerciali nelle quali più di 50 dipendenti rimangono nello stabilimento durante gli intervalli di lavoro, per la refezione, debbono avere uno o più ambienti destinati ad uso di refettorio e muniti di sedili e di tavoli. Omissis…
Art. 31. I refettori devono essere ben illuminati e ventilati ed inoltre riscaldati nella stagione fredda. Omissis…
Art. 32. Ai lavoratori dovrà essere dato il mezzo di conservare in adatti posti fissi le vivande che hanno portato con sé, di riscaldarle e di lavare i relativi recipienti. È vietato lo spaccio di vino, di birra e di altre bevande alcooliche nei refettori e in qualunque parte dello stabilimento.
Anche Condove si adegua alle nuove esigenze e nel 1941 la fabbrica locale Officine Moncenisio già Anonima Bauchiero nonostante le difficoltà derivanti dalla guerra in corso che rendevano difficile l’approvvigionamento delle materie prime inaugurava un grande edificio destinato a mensa per gli operai e deposito biciclette.
Col tempo del barachin non ne fanno uso soltanto gli operai ma tutti i lavoratori pendolari che non possono tornare a casa per pranzare o cenare, a causa della distanza o dell’orario continuato al lavoro. Anche gli impiegati andavano a lavorare con il barachin, ma le donne impiegate preferivano chiamarlo più elegantemente pietanziera. Il barachin connota il personaggio ed entra in espressioni di tutti i giorni, specialmente in Piemonte: “a travaja da barachin”, “a l’é un barachin dla Monce”, “a fa ‘l barachin da Gioanin Lamiera”.
La mensa con cucina fresca verrà conquistata solo più tardi nei primi anni 70, quando era difficile dire di no ad operai e sindacati.
Da Gino e Poldo, la storia della pizza al padellino a Torino
Com’era la Torino negli anni 30 del secolo scorso? Gli abitanti ad inizio decennio erano circa 590.000, l’aria echeggiava di “cerea”, in via Roma erano iniziati i lavori di realizzazione della nuova via con i portici, piazza San Carlo era ancora un salotto anche se occupata dai negozianti sfrattati da via Roma, i Murazzi ancora conservavano l’aria triste di una rimessa di barche sul lungo fiume e già si vedeva il grande sviluppo industriale. Così, appariva a prima vista Torino agli occhi di un giovane di belle speranze.
In quel decennio Torino vede aprire accanto alle autoctone “piole e le antiche birrerie” in cui si gustavano i piatti della tradizione regionale, delle botteghe dove si cuoce la farinata e il castagnaccio e successivamente la sempre più importante pizza al padellino o tegamino. Tonda, contenuta e composta, cotta in un piccolo tegame, da cui il nome, di un diametro che non supera mai i 20 centimetri.
L’origine di questa pizza non è torinese ma ha sicure origini liguri – toscane, anche se non si sa quanto antiche, ma per i torinesi la pizza al padellino ha il suo luogo elettivo in Altopascio (prov. Lucca), da cui provengono gran parte dei pizzaioli torinesi d’antan. Non si sa con precisione quando viene cotta la prima pizza al padellino a Torino, ma una certezza arriva nel 1935 quando arriva dalla Toscana Gino Orsucci che apre bottega prima in via Germanasca e poi nel fabbricato del vecchio cinema Eliseo in via Monginevro in vicinanza di piazza Peschiera (attuale piazza Sabotino), lì lavorava con la moglie ed il cognato Poldo (Leopoldo Ghilarducci).
La scelta della zona borgo San Paolo non è casuale, perché da rurale era diventata industriale con una considerevole espansione edilizia e un notevole incremento della popolazione.
Gino inizia a vendere farinata davanti le scuole con la bici triciclo e con il fuoco acceso, cuoce la farinata sul posto. Il fratello della moglie Poldo nel 1939 lascia il cognato e si trasferisce in Via Villafranca (attuale via Di Nanni) aprendo un nuovo locale tuttora esistente con la sorella Ines in un piccolo negozio dove già s’impastava qualcosa.
Poi la guerra: anni tremendi, anni di cui conservare in cuore, nel silenzio, il ricordo, il fabbricato dove esercita Gino viene distrutto parzialmente dai bombardamenti alleati del novembre 1942 nel conflitto mondiale interrompendo per due anni anche le proiezioni cinematografiche. A dicembre 1942 Gino torna in Toscana e vi resta sino al termine del conflitto mondiale, invece Poldo rimane in città nonostante i continui bombardamenti aerei.
Finite le ostilità Gino ritorna a Torino e apre il forno in Via Monginevro 46 dove resterà sino ai giorni nostri subentrando nella gestione il figlio Roberto. Possiamo affermare che gli storici della pizza al tegamino di Torino sono Gino, Poldo e Cecchi che lavorava in via Nicola Fabrizi.
Nel secondo dopoguerra Torino vede aprire diverse trattorie in particolare quelle toscane, per meglio dire di Altopascio, se ne contavano infatti tantissime. Era un mangiare alla buona, in un’atmosfera rilassata spesso festosa. In città, esisteva uno sparuto numero di pizzerie che si contavano sulle dita di una mano, gestite in genere da toscani, dove si mangiava la farinata e la pizza, però esclusivamente al padellino. La pizza al mattone, non esisteva, e i gusti generalmente disponibili per i clienti, erano due o tre: con o senza le acciughe e la “Margherita”. Aggiungo, che sulla pizza veniva messa una spolverata di origano fresco. Le pizzerie, erano ambienti diversi da quelli di oggi: tutte le stanze erano rivestite di piastrelle bianche, come se si trattasse di un’immensa cucina ed al massimo avevano un paio di tavolini.
Nei decenni passati era d’uso a Torino, e in parte anche ora, di mangiare una porzione di farinata quel favoloso impasto di olio e farina di ceci prima della pizza al tegamino. Avendo le due preparazioni anche la stessa tipologia di cottura, in tegami di ferro, per molti storici dell’alimentazione è più che plausibile, quindi, che siano strettamente apparentate, se non addirittura una l’antenata dell’altra. A nascere prima, comunque, fu la farinata, visto che la sua data di nascita è posizionata a diversi secoli prima e invece i locali di pizza al tegamino sotto la Mole sono arrivati solo negli anni ’30 del secolo scorso, per poi avere un dominio assoluto durato per decenni.
La pizza al padellino si contraddistingue per la doppia lievitazione dell’impasto e per la cottura al forno all’interno d’una piccola padella o d’un piccolo tegame (ossia una bassa teglia circolare in alluminio oppure in ferro e priva di manici) reso antiaderente mediante un velo d’olio d’oliva.
Nonostante alcuni dibattiti in merito al nome più corretto per designare questa pietanza, i qualificativi al tegamino o al padellino sono parimenti impiegati sia nelle insegne e nei menù delle pizzerie torinesi, sia nel linguaggio comune. La tradizionale pizza napoletana, cotta in forno senza l’uso del tegamino, viene invece localmente chiamata pizza al mattone, e vedrà la sua comparsa in città solo verso il 1960 l’anno prima dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia. Per chi è nato recentemente, sembra incredibile la storia della pizza a Torino, visto il proliferare di pizzerie al giorno d’oggi.
Ma torniamo alla pizzeria di Poldo, nel 1970 dalla Puglia emigra a Torino la famiglia Stella, uno dei figli Pasquale giovane tredicenne inizia l’anno successivo a fare il lavapiatti nella pizzeria Alba in corso Racconigi. Quest’ultima era stata dipendente di Poldo fino al 1967 quando aprì in via Frejus un locale dove si cuoceva farinata e pizza al tegamino e solo più avanti si spostò in corso Racconigi. Pasquale dopo appena un mese come lavapiatti passa al forno e vi lavora fino a settembre 1972 quando viene assunto da Poldo. Nel 1977 viene chiamato al servizio di leva come carabiniere e vi resterà circa sei anni. Tornato alla vita civile lavora nuovamente da Poldo e subentrerà nella gestione della pizzeria sul finire degli anni 80. Il locale si ingrandisce e tante sere arriva Antonio con la fisarmonica ad allietare i commensali, il forno lavora tantissimo, può cuocere fino a 70 pizze al tegamino contemporaneamente.
Ad oggi la pizza al tegamino è prodotta quasi unicamente a Torino e, in misura minore, in altre località del Piemonte. Col passare degli anni la pizzeria Poldo ha coniugato la tradizione della pizza con le mutate esigenze del gusto e della salute, offrendo più di venti tipi di pizza al mattone e al tegamino, focacce e farinata, oggi declinate anche nella versione senza glutine per celiaci, in un’atmosfera allegra e familiare come quella di un tempo.
La credenza che i fiori possano nascere dalle lacrime o dal sangue umano è assai estesa in certe regioni delle Alpi, ed è ancora una poetica memoria del passato rimasta fra i montanari. Fra le tante leggende medioevali che somigliano in parte a certi tristi racconti che ci vennero lasciati dai poeti greci e latini, se ne trova una la quale narra della stella alpina edelweiss.
Certo non è lieta la leggenda dell’edelweiss come veniva narrata nelle veglie invernali, la quale racconta che sopra una vetta altissima delle Alpi, vicino alle nevi perenni siede la Dama Bianca o Regina delle Nevi, splendida come una dea ma circondata da feroci folletti armati con lance di cristallo. Se un alpinista imprudente o un cacciatore di camosci vuole avvicinarsi alla Regina delle Nevi attratto dalla sua sfavillante bellezza, essa lo guarda e gli sorride. Come affascinato egli sale, sale sempre, non curandosi dei pericoli, ed essendo acceso di fervido amore altro non vede, non ammira che il bel volto candido della Regina e la sua corona di gemme scintillanti; ma i folletti come spiriti gelosi lo assalgono con impeto, e l’infelice precipita fra i crepacci della neve e del ghiaccio. Mentre egli sparisce la Dama bianca piange e le sue lacrime scorrono sulla superficie dei ghiacciai , scendono fra le rupi e formano le stelle argentee degli edelweiss.
Secondo un’altra leggenda svizzera, Edelweiss, una fanciulla delle Alpi con animo molto nobile e puro, non riusciva a trovare un amato degno di lei, rimanendo sola. Alla sua morte, le fate della montagna la deposero sulle cime innevate, trasformandola in stella alpina.
Un’altra leggenda, vuole che la stella alpina sia un fiocco di lana del Paradiso che la Madonna, addormentandosi mentre filava, fece cadere un giorno sulla Terra. Chi ritrovò questo fiocco, che nel frattempo si era trasformato in un fiore, lo chiamò edelweiss, che significa “nobile candore”.
Il fascino di questo fiore a forma di stella e la sua rarità, oltre alla sua capacità di conservarsi a lungo, ne hanno fatto una specie di portafortuna.
Una filastrocca di autore a me ignoto racconta l’origine del fiore simbolo delle Alpi, differenziandosi dalle più conosciute leggende:
Giunse in cima a una montagna – un fanciullo sognatore – che voleva al ciel rapire – d’una stella lo splendore. – Guardò in alto e la più bella – parve essergli vicina: – tese il braccio e la raccolse – con la mano piccolina. – Ma non resse al grave peso – del bell’astro serotino, – che precipitò dal monte – trascinando il fanciullino… – Arrestando la sua corsa – contro un masso desolato: – e ivi, morto, giacque a lungo – sol dal vento accarezzato. – Ma un bell’angelo del cielo – scese rapido la china: – pianse, e cadde sulla stella – una lacrima divina. – Dalla stella e da quel pianto – nacque il fior della montagna, – che risplende fra le nevi – e che il sangue ardente bagna.
Un articolo scritto da L. Vaccarone, tratto da: Rivista mensile del Club Alpino Italiano, Pubblicata per cura del consiglio direttivo – Redattore prof. Carlo Ratti – Vol. XII Anno 1893
La duchessa Jolanda, reggente e tutrice del figlio Filiberto I, trovandosi sullo scorcio dell’anno 1475 al castello di Rivoli, delibera di portarsi a Ginevra onde soccorrere il duca di Borgogna Carlo il Temerario, che fa guerra agli Svizzeri.
Emissari sono spediti nelle valli di Lanzo, di Susa, di Pinerolo a requisire bestie da soma pel trasporto del bagaglio ducale e della Corte. La piccola città di Rivoli è in fermento per i preparativi; gli alberghi San Giorgio, Scudo di Francia, Leone, Montone e Campana sono pieni zeppi di mulattieri, portatori e uomini d’arme. Un sergente è deputato a sorvegliare in Sant’Ambrogio il passaggio del bagaglio che s’incammina verso la metà di gennaio 1476. Occorrono duecento muli, e non sono troppi, come a tutta prima potrebbe parere, ove si consideri che nei suoi viaggi la Corte trasportava tutto con se, persino le tappezzerie “qui estoient demoureez tendues es murailles et chambre du chasteau de Riuolles quant madame se partist pour passer les montaignes du mont signix”.
Partito il bagaglio si pensa al corredo per le persone. La stagione rigida, proprio nel cuore dell’inverno, la tenera età dei principini, l’ultimo ancora con la nutrice, la dilicatezza delle dame, impongono degli accurati preparativi per difendersi dai gelidi venti della Vanoise. A riparare il capo si confezionano dei grandi cappucci di panno nero di Roan che scendono fin sulle spalle, foderati di velluto nero, a doppio pelo, dal collo in su e di pelliccia dal collo in giù. Dello stesso panno, foderati di pelliccia, si fanno pettorali. Il sarto prepara abiti “de fin drap gris daubeuille” per la duchessa e principesse, e “iaquetes de bon drap pour passer les montaignes” pei principini, foderati di penne bianche nel corpo e nelle maniche. I mantelli son di drappo bianco di Borgogna; la duchessa ne ha due, uno bianco guernito di 24 fibbie d’argento dorato, l’altro nero amplissimo in caso di gran freddo; calzature foderate dello stesso panno di Borgogna e guantoni di lana “fais a la gueulhe”.
II 12 febbraio la Corte si mette in viaggio. La duchessa Jolanda con le figlie, principesse Maria e Luisa, sono portate in lettiga; il duchino, d’anni 11, gli altri principini, dame e il seguito vanno parte in “charios branlans” e parte a cavallo. Vengono dietro 34 muli carichi di “viures vaysselle d’argent joyaulx tant de madame de monseigneur de mes damoyselles et des dames de la maison, reliques de la chappelle, toutes choses dangereuses, et aussi choses necessaires pour les officiers de panaterie cousine et boteillerie fait marche auecques culy”.
Dai conti di Tesoreria Generale di Savoia, conservati nell’Archivio di Stato in Torino e da cui ricaviamo le presenti notizie, non risulta che alcun cavaliere, all’infuori dello scudiere Ugonino di Montfalcon, accompagnasse la duchessa, o quanto meno non vi è nominato, mentre invece si nota con scrupolo il nome non solo delle dame ma pure delle loro cameriere . Le dame erano ventitre, nel conto specificate così: “madame myolans et sa fillie, la dame de Montchanuz, la dame de Troches, la dame de St ynocent, la dame de la Balme, la Ianne de Moussy, la Iaqueme de Challes, la Anthoynete de Villars, la guille de la moute, larthaude, la loyse dextre, la dame de la crois et sa fillie, la francoise mareschalle, la tomine de blonay, langloyse, la grecque, la verdonne, lysabeau de Beaulmont, la catheline, la marion”. Altrettante erano le cameriere.
Il primo giorno pernottarono ad Avigliana, il secondo a Susa. Ad ogni borgata si aggiungeva una scorta d’uomini del luogo che accompagnava il corteo sino alla borgata successiva, donde retrocedevano, sostituiti da un’altra scorta di quest’altro luogo. Nelle borgate in cui il corteo doveva fermarsi a pernottare giungevano precedentemente due camerieri ducali coll’incarico di “appareiller les giptes et les demourees auant que messeigneurs et dames arriuassent en leur logis”. A Susa si trovarono i muli venuti da Termignon per caricare le persone del seguito giunte sui carri; per i principini erano state costrutte ivi tre lettighe speciali.
Si parti il 14 da Susa. La duchessa e le principesse continuarono in lettiga sino alla Novalesa concedendolo lo stato della via, e così i principini i quali, perché non si annoiassero, separati com’erano l’un dall’altro, furono regalati ciascuno “dung ieu de cartes e dymy millier despingles pour passer temps en les dites lytieres”. Notiamo che a portare la lettiga della duchessa sono adibiti 16 uomini, così per quella del duchino Filiberto, pei principi Carlo e Giacomo Luigi 8 uomini. Le dame, cameriere ed altre persone del seguito sono sopra cavalcature tenute al morso ciascuna da un mulattiere.
Alla Novalesa aspettano le guide o marroni. La duchessa con le figlie, scese dalle lettighe, salgono su mansueti e robustissimi muli fatti venire da Lanslebourg, e si avviano verso la Ferrera con ai fianchi i marroni pronti ai soccorsi, essendo la strada, ripida ed angusta, sovrastante al profondo burrone della Cenischia. Questo passo, al pari di quello superiore detto delle Scale, era ed è tuttavia pericolosissimo nell’inverno, per l’effetto del gelo le cavalcature difficilmente possono reggersi e minacciano rovesciarsi ad ogni mossa di piede.
Abbiamo trovato in altro conto di Tesoreria Generale del 1375, un secolo prima della traversata di Jolanda, che nel trasportare il vasellame della Corte da Montmélian a Susa “ij vaissel se sunt perdu par deffaulte dune beste qui set derochie en moncenix desoubx la feriere en lesgue et la dicte beste fut morte”. Arrivati alla Ferrera si distribuiscono gli alloggi presso gli abitanti e le due “hosteleries du moton et de la croys blanche”.
Il viaggio non era stato funestato da alcun incidente, ma la marcia fu molto lenta causa le tre lettighe dei principini, troppo voluminose; e i marroni ebbero a dichiarare che con esse non si poteva fare la traversata. Fortunatamente nel corteo eravi il costruttore, Giovanni Monier maestro dei lavori del castello di Rivoli, il quale, aiutato da due garzoni, si mise subito attorno “en faire troys caysses pour pourte monseigneur le duc, charles monseigneur, et iacque loys monseigneur le prothonotaire”.
Per fare le tre grandi lettighe mastro Giovanni aveva lavorato dieci giorni a Susa, aiutato da altri falegnami della città, ed esse erano molto ben riuscite; a parte la mole non adatta per il luogo, non lasciavan nulla a desiderare, comode, eleganti, imbottite di panno della fabbrica di Pinerolo. Alla Ferrera invece le tre casse furono, si può dire, improvvisate. Si noti ancora che a un dato punto mancarono le ferramenta e i chiodi per fermare gli assi e si dovette spedire a cavallo l’oste del Montone a Susa per farne provvista.
Intanto mastro Giovanni, approfittando dell’assenza del padrone, mette sossopra l’albergo e vi prende quanto gli può servire; stacca dalle pareti ed applica alle casse delle lunge pertiche che facevan l’uffizio d’attaccapanni “pour pendre mantils linceulx et manteaux de pellerins”, raccoglie mazzi di corde “employe en estacher lesdites caysses pour les pourter en branle”, e tanto si agita e sospinge i lavori dei suoi aiutanti che al mattino seguente (15 febbraio) tutto è in pronto. Certo che in fatto di costruzione, di eleganza, saranno parse tre casse… da morto, ma di questo non si diede pensiero più che tanto mastro Giovanni, il suo obbiettivo era di fare, fare solidamente e presto, e l’ottenne.
La Corte parti dalla Ferrera montata sulle cavalcature, tranne i tre piccoli monsignori installati nelle casse, portate ciascuna da quattro uomini e seguite da altri quattro pel ricambio. Le cavalcature sono condotte a mano dai mulattieri, camminano ai lati della duchessa quattro marroni , le principesse ne han due ciascuna e le altre dame uno; altri quattordici sono destinati a portare aiuto ai muli pericolanti.
Il conto del Tesoriere Generale non fa menzione di alcuna spesa fattasi all’Ospizio del Moncenisio: probabilmente non vi si saranno fermati. Valicato il colle trovarono le slitte “pour ramassier”. Lo scudiere Ugonino di Montfalcon nota la retribuzione data a diversi bifolchi che da Lanslebourg han fatto trainare le medesime dai buoi sino al colle. Salirono nelle slitte la duchessa, il duca, le due principesse e altre dame “et sont alees despuis le dessus de la montaigne iusques bien pres de termignion”, nel qual paese pernottarono.
Il giorno seguente 16 ripartirono sui muli e raggiunsero St André ove si fermarono il 17 essendo giorno di domenica. Il 18 si portarono a St Jean-de-Maurienne. Madama de la Balme indispostasi non potè continuare il viaggio sul mulo, fu portata in lettiga da 16 uomini a St Jean-de- Maurienne indi a La Chambre ove rimase in cura verosimilmente in casa di parenti. Il 19 la Corte raggiunse Aiguebelle, il 20 Montmélian e il 21 Chambéry. II 22 i mulattieri, portatori e marroni di Lanslebourg, della Ferrera e Novalesa sono licenziati e fanno ritorno colle rispettive cavalcature ai loro paesi.
Ecco quanto abbiamo potuto ricavare dal conto del Tesoriere Generale, irto di cifre, diffuso, minuto nelle più piccole spese, ma assolutamente silenzioso su qualsiasi altro particolare non retribuito. I conti dei tesorieri, allora come oggi, non sono diari su cui sia permesso annotare descrizioni e impressioni di viaggio, ma viceversa, per quel che racchiudono, costituiscono una fonte sicura, di valore storico molto apprezzato. E però osiamo sperare che le cose sopra scritte siccome “vere” saranno gradite dagli studiosi quali granelli che giorno per giorno si raccolgono e vanno ad accrescere i materiali che dovranno un di servire per scrivere in modo esauriente la storia delle Alpi nei tempi andati.
Anche sulle montagne della Val di Susa, come sulle altre catene di monti, in mezzo agli ultimi baluardi, fra i quali durano più a lungo le leggende, si credette generalmente, e credesi ancora in qualche borgata, nell’esistenza di spiriti che prendono parte ai lavori ed alla vita dei montanari.
I miei vecchi tramandavano la storia di una misteriosa luce che, in tempi lontani, forse secoli o forse decenni prima, seguiva le persone di notte nelle strade di campagna buie e solitarie, la chiamavano in Piemontese “ël Culèiss” (fuoco fatuo) o anche “Culèss ò Culass”.
Tutti i viandanti asserivano di averla vista almeno una volta all’imbrunire e di essere ancora segnati dall’esperienza. La rappresentavano come una palla luminosa rotonda, non tanto grande, simile a una grossa zucca, aveva una luce pallida e bluastra, qualcuno dice che sembrava un occhio, altri la descrivevano come un grosso sedere¹, non si capiva bene.
Dava la sensazione di galleggiare nell’aria a poca altezza dal terreno, andava lenta dietro ai montanari che al tramonto rientravano a casa dal lavoro dei campi. Non si avvicinava mai, stava sempre alla stessa distanza, se uno si fermava, anche la luce si fermava.
E la cosa strana è che nessuno ne aveva paura anzi si sentivano rassicurati pur avendone un certo timore, guai a cercare di prenderla. Per ringraziarla della compagnia e farla andare via bisognava lasciare qualcosa per terra, un’offerta, come una mela, un pezzetto di pane, ecc. qualcosa, allora la luce spariva e non seguiva più le persone.
Secondo vecchie leggende, questi spiriti erano angeli cacciati dal paradiso e non accolti nell’inferno, i quali vagano incerti sul loro futuro destino o potevano essere interpretati come la manifestazione degli spiriti dei morti che vegliano sui viandanti, in particolare anime di defunti recenti, che si aggirano sulla terra in attesa di entrare nell’aldilà, o anime dannate o del Purgatorio, oppure di bambini morti senza essere battezzati.
Le leggende sul “Culèiss” sono moltissime. Nell’antichità si ritenevano la dimostrazione dell’esistenza dell’anima. Alcune popolazioni nordiche invece credevano che seguendoli si trovasse il proprio destino.
Per alcuni studiosi, i fuochi fatui, nonostante la loro apparente connessione con il mistero e le innumerevoli leggende delle quali sin dall’antichità sono stati protagonisti, sarebbero un fenomeno scientifico facilmente esplicabile: queste inquietanti fiammelle che fluttuano improvvisamente davanti ai nostri occhi sarebbero prodotte dai gas emessi da materie organiche durante la loro decomposizione. Queste emanazioni sono composte da idrogeno e fosforo, che si infiammano spontaneamente non appena entrano in contatto con l’ossigeno dell’aria.
Un tempo, quando i corpi non venivano sigillati nelle bare di zinco, era possibile osservare questo fenomeno nei cimiteri. Si verifica però anche dove è stato sotterrato un animale e nei terreni umidi ricchi di sostanze organiche come acquitrini e torbiere. Il periodo migliore per osservarli pare essere nelle calde sere d’agosto.
Altre teorie, suffragate dalle parole di molti testimoni che descrivono il fuoco fatuo come una luce fredda, sostengono la tesi della chemiluminescenza della fosfina e non della combustione.
Gianni Cordola
¹ – Da questa somiglianza probabilmente deriva il termine Culèiss che secondo il Repertorio Etimologico Piemontese di Anna Cornagliotti edito nel 2015 è formata dal latino “CULUM” (culo) più “ACEUM”.
Le leggende sono un prezioso ricordo nella coscienza popolare e conservano nella loro semplicità il segreto del passato. Oggi gli anziani montanari non si piegano facilmente a narrarle ai curiosi, però se sono certi di non essere derisi ripetono le novelle che i nonni raccontavano d’inverno ai ragazzi nelle stalle.
Ho visto qualche volta mia mamma Giuseppina Pautasso commuoversi nel ricordare le fiabe che era avvezza a sentire fin dall’infanzia. Forse in un baleno tornava col pensiero nei giorni lontani; rivedeva come in un sogno la stalla angusta e nera, ove stavano raccolti vicino alle mucche, quando il vento sibilava tra le case di Pratobotrile (borgata di Condove), ed i vecchi dalle facce serene, seduti accanto ai figli, parlavano delle leggende che si raccontano da secoli mentre i fanciulli guardavano con inquietudine nell’ombra, ove forse stavano nascosti i folletti. In una di quelle serate invernali del primo novecento il nonno Battista (1879/1958) narrò ai suoi figli Giuseppina, Gasperina ed Antonio con una efficacia insuperabile una delle leggende più popolari, ed era quella che ricorda la corsa delle fate sul Monte Civrari, fra la valle di Susa e quella di Viù.
In ogni leggenda la fata è la creatura magica che a fatica si riesce a intravedere con gli occhi di un essere umano. Possiamo immaginarla con le sue ali delicate, le sembianze di una dolce fanciulla e una bellezza particolare, donata dall’universo magico a cui appartiene. Secondo la credenza popolare, le fate vivono nascoste durante il giorno perché prive di poteri magici, che riacquistano invece di notte. La notte è infatti il momento della giornata in cui le fate escono più volentieri ed hanno predominio sul mondo (soprattutto con la luna piena). È per questo che molte di loro sono circondate da una luce: perché essa permette di illuminare il loro cammino nell’oscurità.
Con la voce espressiva e lo sguardo scintillante il nonno ripeté ciò che gli narrarono gli avi. Si dice che una volta, forse secoli o forse decenni prima, un vecchio pastore che passava tutta l’estate in un alpeggio del Collombardo, in una casetta scura dove la sera ritirava il bestiame, alla notte mentre la nebbia passava rapidamente nelle montagne spinta dal vento che flagellava le rocce, coprendo la voce monotona del vicino ruscello, fra il chiarore della luna, egli, spaventato da un rumore di ruote e di sonagli, era uscito dalla povera casa, ed aveva visto passare la splendida e meravigliosa corsa delle fate colle corone di stelle alpine, ritte sui carri di fuoco, in uno splendore di luce, seguite dai folletti nella corsa vertiginosa sulle creste, i colli e le altissime cime scomparendo infine nel monte Civrari.
La scena rimase talmente impressa al pastore che decise di passare nei giorni successivi nel luogo dove scomparve il corteo non trovando traccia delle fate ma solo delle stelle alpine. Il paesaggio era tristissimo nella sua imponenza, solo pascoli e rocce nella solitudine dove non giungeva altro suono di voce umana, dove moriva ogni ricordo della vita di fondovalle ma il pastore tornato al paese a fine estate descrisse con la parola come ispirata il giro percorso dalle fate, seguendo con lo sguardo le creste, le cime delle montagne, le curve dei colli lontani, e forse colla fantasia accesa le vedeva passare in quell’istante, fra lo splendore del sole e lo scintillio dei nevai.
Ora noi possiamo sorridere pensando a questa credenza degli alpigiani, ma per intendere tutta la grandiosa poesia del racconto che venne fatto dal nonno, bisognava trovarsi fra i pericoli della montagna, verso i 2000 metri d’altezza; e mentre sentivo la mamma ripetere le parole del nonno, anche a me sembrava di veder passare le fate. Da allora per gli alpigiani della valle di Susa il Civrari è il monte fatato in contrapposizione al monte Musiné ad inizio valle, che è il monte delle entità malefiche, streghe e demoni.
Questa credenza della corsa notturna delle fate sulle nostre Alpi Graie, non si deve confondere col sabba delle masche o streghe, trova invece molta relazione con altre credenze che durano ancora su tutta la catena delle Alpi da ovest ad est, dove varia solo il periodo temporale in cui avviene: inizio anno, ultima notte di carnevale o la notte di San Giovanni.
La memoria mi permette di ricordare episodi dell’infanzia e adolescenza che compongono la trama della mia vita: oggi mi è tornato in mente come negli anni Cinquanta del secolo scorso avevo imparato ad andare in bicicletta.
Abitavo alla contrada dei Fiori di Condove luogo non proprio ideale per imparare a pedalare in bicicletta non essendo terreno pianeggiante inoltre un’unica bicicletta molto pesante, grande per la mia età e senza rotelle laterali era disponibile in casa. La stessa su cui avevano già imparato i miei fratelli maggiori Mario e Giorgio negli anni precedenti.
Fin dall’età di 6 o 7 anni, desideravo fortemente imparare ad andare in bicicletta, ma avevo grosse difficoltà a tenermi in equilibrio, contavo sull’appoggio dei piedi e di muri per tenermi e chiedevo spesso a mio fratello Giorgio continue lezioni su come guidare la bicicletta, ma nonostante i suoi consigli non riuscivo lo stesso a stare in equilibrio. Portavo la bici a mano spingendomi con i piedi per terra fino al pilone del vicolo dei Fiori e mi lanciavo in quella leggera discesa verso le case del vicolo senza mettere i piedi sui pedali per poi svoltare a sinistra verso il nostro cortile.
Provavo a rallentare non con il freno posteriore, come mi avevano insegnato ma coi piedi, ma prendevo troppa velocità e non piegavo abbastanza il manubrio. Mio fratello corse così a ripescarmi contro il muro, dove ero volato scivolando in quella curva. Ne uscivo con le gambe che andavano a fuoco per le sbucciature. Fortunatamente a quei tempi non c’erano automobili dovevo solo stare attento alle persone che uscivano da casa.
Dopo giorni di continui tentativi e diverse cadute finalmente ero riuscito a stare in equilibrio sulla bici e il meccanismo dell’equilibrio era diventato qualcosa di mio, inoltre riuscivo a far girare i pedali come lo avevo visto fare dagli altri. Entusiasmante è stata la scoperta dei freni, un gran risparmio di suole, perché molto spesso non riuscivo a frenare ed andavo a sbattere contro gli ostacoli che trovavo lungo la strada.
Mio padre, sul finire degli anni Cinquanta quando già frequentavo la scuola di Avviamento Professionale, mi regalò una bicicletta gialla con tanto di cambio posteriore e campanello posizionato sul manubrio ed io mi divertivo a suonarlo, lo suonavo soltanto per ascoltare il suo suono. La fece comprare da mio fratello Lino di 12 anni più grande di me in un negozio di biciclette a Porta Palazzo di Torino e poi da lì fece il tragitto in bici sino a Condove.
Col passare del tempo imparai benissimo ad andare inbiciclettadopo aver superato le prime difficoltà infantili, mi lanciai in escursioni nei paesi vicini. Mi ricordo quando volevo imparare a andare senza mani, giù per una discesa, ricordo che cadevo e che l’asfalto era duro e che mi sembrava impossibile, andare senza mani. E quando mi buttavo giù dalla strada per Mocchie, mi sembrava che la piazza mi venisse incontro.
Altri ricordi di quand’ero un ragazzino, a Condove: vedevo passare le processioni dei funerali, e ogni uomo portava a mano la propria bicicletta, una persona e una bicicletta, una persona e una bicicletta. Poi il gelataio con il triciclo frigorifero che veniva a vendere i gelati nella piazza. Aveva un gelato alla banana che non avevo mai mangiato, e la sua bici frigorifero mi sembrava bellissima.
Avevo 9 anni quando negli anni cinquanta del secolo scorso venne a mancare la nonna materna Angela Versino di Pratobotrile (Condove) ed oggi vedendo la loro vecchia casa, luogo sacro di ricordi e calore, compio un nuovo passo nel viaggio del tempo.
La casa è in vicinanza della Cappella della borgata ed è rimasta come allora. Rivedo come in un sogno la cucina della nonna ampia, luminosa, aerata. Sulla parete un grande camino rallegra, con la sua fiamma, le lunghe sere d’inverno. Intorno ad esso una batteria di pentole di rame è appesa al muro con chiodi e ganci. Al centro della stanza un grande tavolo di legno serve come piano di lavoro e come tavola da pranzo. Qualche sedia impagliata, sgabelli e una panca sono disposte tutte intorno. Una madia per il pane e altri cibi e una finestra per dare luce all’ambiente.
La nonna era una donna semplice, buona, non giudicava mai nessuno e teneva unita tutta la famiglia. Indossava quasi sempre un grembiule con ampie tasche di colore scuro. Questo abito, era semplice, ma speciale: un pezzo di stoffa nera spesso macchiato di qualche condimento. Il ricordo del grembiule di nonna mi fa percepire lo stormire del vento tra i boschi della montagna, la voce della natura, il canto della vita. Le macchie, che coloravano questa sopravveste, facevano ricordare le fatiche ed i periodi di lavoro. C’erano, infatti, spennellati con toni scuri anche i terribili momenti di guerra e di povertà che hanno reso difficili gli inizi della loro lunga vita, ma che rappresentano le tappe più importanti dell’esistenza di ogni individuo.
In tempi antichi, ma non troppo, il grembiule aveva diversi compiti, il principale scopo era di proteggere i vestiti sottostanti in maniera che non siano raggiunti dalle macchie tipiche della cucina, come ad esempio quelle di olio o sugo. In cucina, il grembiule aveva anche il compito di fungere da presina e proteggere le mani dalle scottature mentre si prendevano pentole e paioli roventi dal camino e di asciugarle quando erano bagnate. Altro compito era quello di avvisare il nonno che il pranzo era pronto, infatti in quel momento la nonna lo agitava e questo gesto bastava a far accomodare il nonno a tavola.
Accessorio fortemente attribuito alla vita di montagna e contadina, il grembiule era utile anche per trasportare le uova dal pollaio, le patate dal campo alla cucina, la legna, gli ortaggi e molto altro ancora. Oggi questa usanza si sta pian piano perdendo e il caro e vecchio grembiule, simbolo universale della dolce nonna ai fornelli, ha lasciato il posto a canovacci e presine varie.
Il grembiule è un oggetto che già dagli inizi del Novecento ha fatto la sua comparsa appeso al collo delle donne al lavoro nei campi o in casa. Ricopriva l’intero corpo arrivando fino a sotto le ginocchia, poi con il passare degli anni ha subito una progressiva evoluzione in cui lentamente si è accorciato, tanto che ora, alcune versioni cosiddette “da bar” hanno l’aspetto di una vera e propria minigonna, senza la parte superiore.
Il caro e vecchio grembiule della nonna rimane comunque un pezzo di storia insostituibile e tutti coloro che in vecchia data sono stati bambini, si emozioneranno sicuramente al ricordo di un accessorio molto amato dalle proprie mamme e nonne.
I materiali di realizzazione erano diversi e così anche le fantasia, in ogni caso era un prodotto molto resistente che rispondeva perfettamente alle necessità descritte nei paragrafi precedenti. La tradizione del nostro paese era molto legata a questo oggetto e tutte le donne lo utilizzavano, basta ammirare le foto in bianco e nero, di queste ultime che lavorano a maglia, magari mentre i loro bambini giocano davanti casa.
Novembre 2023 – In Cognomi Condovesi, sono pubblicate le ricerche sulle origini di 51cognomi Condovesi.
Aggiornato in La Storia – Il Francoprovenzale il piccolo vocabolario Italiano-Francoprovenzale-Piemontese in formato pdf.
In Cercando le nostre radici – Come si viveva una volta, percorriamo la strada alla scoperta della vita al Coindo e Laietto nel 1900÷1905, vita difficilissima irta di difficoltà e di miseria per i montanari, ma anche il mondo da cui deriviamo e che non dobbiamo dimenticare.
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