Significato di “i l’hai daje ‘l bleu” e “dël pento”

Perché quando si rifiuta, abbandona o lascia una persona qualcuno dice “gli ho dato il due di picche” mentre un piemontese sicuramente dice “i l’hai daje ‘l bleu” (letteralmente gli ho dato il blu)?

Questo, come altri detti piemontesi, nasce da una particolare condizione di luogo e di tempo, per capire cosa significa e l’origine dobbiamo tornare indietro nel tempo di oltre duecento anni, all’annessione del Piemonte alla Francia ed al Regno d’Italia fondato da Napoleone Bonaparte nel 1805 e disciolto nel 1814.

Con la normalizzazione attuata dalle potenze europee con il Congresso di Vienna a termine l’occupazione Francese e con il ritorno di Vittorio Emanuele I a Torino restaurato nei suoi domini ha inizio l’epurazione delle persone che avevano collaborato con l’occupante, l’abolizione delle leggi napoleoniche e l’abbandono di tutto ciò che era francese nel tentativo di riportare indietro le lancette della storia come se nulla fosse accaduto.

I Torinesi in fase di restaurazione, decisero di cancellare ogni insegna o decorazione relativa all’occupazione francese, affinché venisse definitivamente dimenticata. Pertanto tutto venne ricoperto con generose mani di vernice di colore blu Savoia. Da qui l’espressione “i l’hai daje ‘l bleu” viene usata dai piemontesi generalmente in senso disdegnoso, quasi tracotante, e si applica alla volontà di troncare nettamente con il passato o con una persona, senza se e senza ma.

Allo stesso periodo storico risale il detto piemontese “dël pento” letteralmente “del pettine”, espressione usata molto spesso per indicare un’azione, un oggetto od un lavoro di nessun valore. Durante l’occupazione francese Napoleone fece coniare dalla zecca una moneta da un soldo. Da una parte era raffigurata la testa dell’imperatore e dall’altra una corona che per i torinesi aveva l’aspetto di un pettine. Tale moneta battezzata dai torinesi “ël sòld dël pento” venne presto messa fuori corso e perse quel poco di valore che aveva, da qui l’espressione usata in senso denigratorio e dispregiativo.

Era abitudine dei Piemontesi dare un nome alle monete, basta pensare alle “Galin-e” (nate nel 1755 avevano su una faccia la figura a codino del sovrano e portavano sull’altra uno di quegli uccellacci araldici simili all’aquila), o alle “Mote e mese mote” del 1794 in sostituzione del “set e mes”. Il nome “Mote” sembra derivasse da una spiritosa immagine che il popolino derivava dalle “motte” formelle di concia da bruciare che prima erano delle dimensioni di un pane da munizione e poi ridotte a minime dimensioni dalla taccagneria dei produttori, come succedeva al valore della moneta. Anche “ël sòld dël pento” moneta Napoleonica del Regno d’Italia con l’imperatore su una faccia e una corona arieggiante un pettine da trecce, non è sfuggita all’ironia dei Piemontesi vista la sua svalutazione e da lì il detto.

La moneta da un soldo coniata dalla zecca di Milano

soldo napoleonicoAltri studiosi ritengono che il detto abbia origine dai commercianti che all’inizio del secolo scorso girando per paesi e borgate acquistavano i “cavèj dël pento” i capelli che restavano impigliati nelle spazzole e nei pettini che venivano raccolti e conservati. Merce di scarso valore rispetto alle trecce intere. Il significato vero penso sia quello da me descritto in quanto mia madre del 1905 mi raccontava di queste persone che acquistavano i capelli ma non quelli del pettine bensì quelli tagliati alle donne. Nel primo novecento era usuale dalle mie parti nella stagione invernale mandare le ragazze a servizio nelle case di famiglie benestanti in città, a Torino. Alle ragazze appena arrivate nella casa di destinazione venivano cambiati i vestiti, lavate e tagliati i capelli per paura dei pidocchi. Da qui era diventato normale tagliare i capelli alle ragazze prima di andare a Torino e poi venderli ai compratori per ricavare qualche soldo. Non ho mai sentito raccontare che comprassero i capelli rimasti nel pettine, e mi pare improbabile vista la scarsa quantità e qualità.

Gian dij Cordòla

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Significato di “dé dël cul”

Lo sapevate…da dove deriva l’espressione “dé dël cul (sla pera)”? Letteralmente significa dare del culo (sulla pietra) ma è un detto popolare piemontese per indicare una persona (mercante, bottegaio, banchiere o altro) che non riesce più a far fronte ai creditori e dichiara fallimento.

Tutto ebbe inizio nell’antica Roma, una delle Leggi delle XII tavole autorizzava i creditori non soddisfatti a uccidere o ridurre in schiavitù il debitore moroso. Giulio Cesare sostituì questa Legge introducendo un nuovo tipo di pena condannando i debitori insolventi alla Pietra del vituperio. I debitori insolventi e i commercianti falliti subivano come pena una spietata pubblica esecuzione che, se non toglieva loro fisicamente la vita, annientava ogni dignità personale. Venivano condotti nel Campidoglio e, esposti al pubblico ludibrio denudati dalla cintola in giù e obbligati a cedere i loro beni (ai banditori d’asta) stando seduti a chiappe nude su una pietra. Seduti sulla pietra dovevano gridare ad alta voce cedo bona o cedo bonis (svendo tutti i miei beni) e per tre volte dovevano alzarsi e violentemente sedercisi di nuovo.

Nel Medioevo il condannato veniva appeso per le braccia con addosso solo la camicia e lasciato cadere per tre volte facendogli battere il sedere sulla pietra del vituperio. Si voleva raggiungere lo scopo di dissuadere il reo dalla reiterazione del reato, ma anche di informare i cittadini per proteggerli da una persona disonesta. Perciò era necessario che la punizione avvenisse in un luogo simbolico, altamente evocativo e molto frequentato, così che un alto numero di spettatori garantisse la massima pubblicità ed un elevato effetto frustrante. I convenuti, infatti, con il loro ridere e berciare erano parte integrante della pena stessa.

Tale pena, pur con sfumature diverse è durata sino al 1700. A Torino la pietra del vituperio era posta ai piedi della vecchia torre civica (demolita nel 1801 sotto il dominio napoleonico) all’incrocio della contrada di Dora Grossa, oggi Via Garibaldi,  con via S. Francesco vicino al tribunale. Lì il condannato doveva calare le braghe e battere tre volte il sedere nudo sulla pietra dicendo “Cedo tutti i miei beni”.

Nel volume “Torino e le sue Vie” (ed. 1868) l’autore Giuseppe Torricella scriveva: “Ai piedi di questa Torre, non è molto tempo”, (venne infatti rimosso solo nel 1853), “vedevasi un pianerottolo coperto da una pietra, sulla quale si esponevano nei giorni di mercato e specialmente nel sabato, i condannati alla pubblica berlina. Altra stranissima costumanza ci rammenta questa pietra: i negozianti che facevano bancarotta erano costretti di sedersi e, più propriamente, di battere il nudo deretano sulla pietra in presenza del pubblico, che numeroso assisteva a questo scandaloso castigo”.

Da questa usanza umiliante sarebbero nati dei modi di dire come “essere con il culo a terra” e l’espressione “dare del culo”, e quelle piemontesi “a l’é andàit a dè dël cul sla pera”, “andé dël cul”, “esse col cul a tèra”, “bate ël cul sla pera”, e le varianti “andé a baron” o “andé a rabel”.

In Piemonte troviamo numerose notizie di questa pratica. Ad Asti la pietra del vituperio si trova ora appesa in verticale nell’atrio del Palazzo Comunale; ma un tempo era nel centro della piazza principale, sede dei mercati.

Aramengo (in provincia di Asti) fu per lungo tempo luogo di confino e soggiorno obbligato per i condannati di reati relativi al patrimonio, principalmente i fallimenti. Ed ecco il detto piemontese “andé a ramengo”.

A Canale la pietra era sull’angolo di Via Mombirone con Via Roma, detto ancora oggi dagli anziani: “canton dla ciapa grama”, cioé dove il condannato batteva le “ciape”. A Vinadio ancora esiste ai piedi del campanile. A Carignano si trova nella piazza porticata.

Il termine “pietra del vituperio”, tradotto in piemontese in senso ironico, è diventato “Pera culera”.

Gian dij Cordòla

Una tela di Olivero in cui si vede la punizione di un debitore insolvente ai piedi della vecchia torre civica di Torino

quadro OliveroIncisione di G.B. Borra del 1749, entrata  e prospetto della piazza di Porta Palazzo di Torino con sullo sfondo vicino alla contrada di Dora Grossa l’antica torre civica

Anno 1749 - Entrata e prospetto della piazza di Porta Palazzo di Torino

Anno 1749 – Entrata e prospetto della piazza di Porta Palazzo di Torino

Incisione di Ignazio Sclopis di Borgostura del 1775, veduta della strada di Dora Grossa di Torino (attuale via Garibaldi) dalla piazza del Castello; è visibile sul lato sinistro l’antica torre civica

Anno 1775 - Veduta della strada di Dora Grossa dalla Piazza del Castello

Anno 1775 – Veduta della strada di Dora Grossa dalla Piazza del Castello

 

 

 

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Significato di “Cerea”

Il saluto piemontese “cerea”, è il saluto più piemontese che esista e, come un buon bicchiere di vino, sta sempre bene in ogni situazione e mantiene l’eleganza ed il rispetto nei rapporti tra le persone . “Cerea neh !” Oggi in Piemonte , specialmente tra i giovani, è di moda darsi del “tu” e dirsi”ciao” fin dal primo incontro sostituendo il cortese “cerea” che poco alla volta sta andando in disuso.

Cerea è usato e abusato nelle scenette comiche in lingua piemontese, ma è un saluto formale in origine reverenziale, che ha sempre significato rispetto e cortese distacco anche se poi è diventato col tempo più famigliare.

Mi sono chiesto per anni il significato di “Cerea”, pare che derivi dall’espressione ” saluto alla Signoria Vostra”, con alterazione della parola “Signoria” , attraverso “sereia, serea”, simile al saluto veneziano “sioria vostra” e al genovese “scià”. Secondo un’altra interpretazione linguistica meno accreditata deriva non tanto da una contrazione dell’espressione “vostra signoria” ma dal greco «chairo», che significa “mi rallegro, gioisco”. Si tratterebbe di una sopravvivenza dell’influenza greco-bizantina in Italia dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente.

Gian dij Cordòla

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Significato di “Bòja fàuss”

Potremmo definire “bòja fàuss” come un’esclamazione di stretta origine piemontese, una specie di imprecazione, di stupore o di rabbia. Insomma dire “bòja fàuss” è come dire porca miseria, porco cane e altro di simile….non è da considerarsi una bestemmia o un imprecazione volgare, ma un modo carino e simpatico dei piemontesi per sottolineare un emozione o un episodio un po’ particolare. L’origine di tale esclamazione ha due diverse interpretazioni.

La prima sostiene che l’esclamazione sia nata come eufemismo, per evitare di bestemmiare il nome di Dio in tempi in cui era condannato il bestemmiare in pubblico, quindi si è sostituita una parola per convenienza o decenza e non incorrere nella trasgressione di leggi civili o notificazioni religiose. Con bòja fàuss” si evitava di bestemmiare il nome di Dio proclamandolo falso e si spostava l’oggetto della maledizione dal nome di Dio a quello di una persona, o meglio di un mestiere, considerato spregevole da tutto il popolo, quello del boia. Stesso discorso vale per l’esclamazione “porca miseria”, non certo nata in concomitanza con un periodo di carestia, ma un’esclamazione nata per eufemismo, per evitare di bestemmiare il nome della Madonna (sostituito da “miseria”).

notificazione 1750

La seconda è più cara al Piemontese che impreca dicendo “bòia fàuss”, o si lamenta perché costretto ad andare “an sla forca”. Il boia per il piemontese è falso (fàuss) e se deve indicare un luogo lontano dice che è “sulla forca” (an sla forca) e questi due modi di dire hanno origini dalla storia popolare del Piemonte.

Tutto iniziò ai tempi delle esecuzioni capitali a Torino. Il luogo dove iniziò questa storia fu “ël rondò dla forca” il nome del quale, come facilmente comprensibile, deriva dal fatto che sino al 1853 vi si tenevano le pubbliche impiccagioni. In quel periodo temporale, l’attuale Rondò della Forca (in una carta di Torino del 1865 era chiamato Circolo di Valdocco) era un vasto slargo, che poteva quindi ospitare molti spettatori, circondato da grandi pini che rendevano l’ambiente sufficientemente buio e tetro. Tutto intorno prati, fossi, pozze e poche case. Il luogo fu scelto perché relativamente vicino alle carceri che a quei tempi erano nella attuale via Corte d’Appello. Le condanne a morte venivano eseguite mediante la forca, installata di volta in volta. Dopo un mesto tragitto dalle carceri, giungeva qui la carretta con il condannato, confortato da un sacerdote ed accompagnato da una scorta armata e dalla Confraternita della Misericordia.

Carta di Torino del 1865

Carta di Torino del 1865

In epoca napoleonica in piazza Carlina, che allora, ironia della sorte, si chiamava ancora “Place de la Liberté”, funzionava invece la ghigliottina, mentre i roghi e gli squartamenti avvenivano nelle piazze San Carlo e Castello. Bisogna dire che la pratica dell’impiccagione fu abolita dal ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Zanardelli nel 1889, ma che fino ad allora i Boia, pur essendo dei funzionari ufficialmente designati per eseguire le sentenze di morte dei condannati, non godevano della stima dei propri concittadini e , anche se ben pagati, facevano una vita solitaria e di scherno.

Il popolo non poteva accettare che il Boia guadagnasse denaro dall’uccisione di altri uomini, per questo i Torinesi lo battezzarono “Fàuss”. Al numero 2 di via Bonelli abitava Piero Pantoni, l’ultimo boia di Torino, diverse esecuzioni a carico e una moglie che per la vergogna non usciva mai di casa. La vicina chiesa di Sant’Agostino era detta la “chiesa del boia”, in quanto nei suoi pressi vi venivano sepolti i condannati a morte e i detenuti defunti in carcere.

Gian dij Cordòla

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Significato di “Bogianen”

“Bogianen”, è la somma di “bogia nen” (si pronuncia bugianén) in italiano letteralmente “non ti muovere”, è un soprannome popolare dato ai piemontesi e che si riferisce a un temperamento caparbio, capace di affrontare le difficoltà con fermezza e determinazione spesso confusa con una traduzione letterale che si riferirebbe invece a una presunta passività troppo succube e prudente.

Battaglia dell'Assietta

Battaglia dell’Assietta

L’espressione ebbe origine dalle gesta dei soldati sabaudi durante la battaglia dell’Assietta, un significativo episodio della Guerra di successione austriaca. Non sono in molti a conoscere questa vicenda che ha poi ufficialmente coniato il termine “bogianen”. Era il 19 luglio 1747 ed era in corso la Guerra di successione austriaca che vedeva schierati la Baviera, la Prussia, la Francia e la Spagna contro l’Austria, la Gran Bretagna, l’Olanda e la Savoia. In quell’anno i Francesi e gli Spagnoli decisero di sferrare l’attacco a Carlo Emanuele III. Non riuscendo a sfondare dalla Costa Azzurra, dove gli Spagnoli si fermarono poco dopo Nizza grazie alla resistenza dei piemontesi, i Francesi decisero di tentare passando attraverso la Val di Susa e la Val Chisone. Non a caso Carlo Emanuele III aveva fortificato le due valli rispettivamente con il forte di Exilles e il forte di Fenestrelle. L’unica via di passaggio non fortificata restava il Colle dell’Assietta. In poco tempo Carlo Emanuele III fece erigere piccole opere di difesa sull’Assietta e sul Grand Serin, dove operava il Comandante Generale Conte di Bricherasio, che si rivelarono la chiave di successo della vittoria grazie all’eroica resistenza dei piemontesi. Nel pomeriggio del 19 luglio comincia la battaglia.

Le cronache parlano di una sfida impari che vede i Francesi in forte soprannumero, il che suggerisce al Generale Conte Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, comandante supremo in campo, di far ripiegare le truppe sul Grand Serin, posizione ritenuta più difendibile. L’ordine viene però respinto per ben tre volte dal Comandante del Primo Reggimento Guardie Tenente Colonnello Paolo Novarina Conte di San Sebastiano che conduceva le operazioni sull’Assietta, e sembra accompagni il rifiuto con la frase: “Noiàutri da sì i bogioma nen” (Noi non ci muoviamo da qui). I sergenti dell’esercito piemontese nell’imminenza di subire l’attacco avversario incitano i soldati in prima linea ricordando loro l’eroismo degli avi e ordinando “Bogeve nen, nèh!” (Non muovetevi, eh!). Con il calare della notte si concluse la battaglia, vinta dai Piemontesi: migliaia furono le perdite francesi (circa 5600), contro poche decine di unità dell’esercito piemontese (circa 192). L’eco della vittoria risuonò nei più importanti ambienti militari europei, tanto che il Re di Prussia, nemico in quel frangente del Regno Sardo, commentò così il valore dei soldati sardo-piemontesi: “Se Noi disponessimo di un esercito di tale valore, conquisteremmo l’Europa”.

Al di là della veridicità storica della frase che la tradizione attribuisce dal Conte di San Sebastiano, resta l’atto di coraggio e l’eroismo patriottico dimostrato dalle truppe piemontesi, che veramente hanno meritato l’aggettivo “bogianen” inteso nel suo significato più alto e nobile. Il vocabolo “bogianen” fu subito adottato come soprannome dei soldati piemontesi, e poi della popolazione stessa, assumendo, a poco a poco, l’accezione peggiorativa che si prende gioco di una sua presunta passività, eccessiva prudenza e refrattarietà ai cambiamenti, senza tuttavia disconoscere l’irreprensibilità e la caparbietà con la quale sa affrontare le situazioni difficili.

Gian dij Cordòla (scrit ant ël 2014)

 

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Significato di “Tòta”

(I termini racchiusi da virgolette alte doppie ed in corsivo sono in lingua piemontese)

“Cerea tòta”, un saluto carino e galante nella lingua piemontese, poco usato oggi ma molto in voga sino agli anni 50 del secolo scorso. “Cerea”, è usato e abusato nelle scenette comiche, ma è un saluto formale usato quando ci si dà del lei. Purtroppo non si usa quasi più. Deriva da un’antica parola che significava «vostra signoria». “Tòta” invece vuol dire signorina giovane o vecchia che sia.

Saluto piemontese

Saluto piemontese

Che origine ha “tòta”? In alcune parti del Piemonte, particolarmente nelle Langhe, si chiama “matòt” il bambino e “matòta” la bambina, nell’Astigiano i termini si sono cambiati in “mat” e “mata”. A Torino ed in bassa valle di Susa “matòt” non si usa e “matòta” perdendo la prima sillaba è diventato “tòta” e si applica non più alla bambina ma alla ragazza già fatta. Nell’Alessandrino i piccoli vengono chiamati “matòt e matòte” e le ragazza “tòte”. Pertanto sembra che il termine “tòta” non sia altro che “matòta” con perdita, per aferesi, della prima sillaba, come Pina è venuta da Giuseppina.

Tante sono le tesi sull’origine dei termini “matòt e matòta”, una di queste li fa derivare dal latino «mas» (maschio o figlio maschio) diventato “mat” ragazzo e per analogia “mata” ragazza. Da qui i vezzeggiativi “matòt e matòta”. Un’altra tesi più suggestiva fa derivare il termine “matòta” da una pratica del culto pagano osservata fino al V° secolo dalle popolazioni locali. «Mathuta» era una dea conosciuta dalle tribù alpine abitanti nel Piemonte, la sua festa si celebrava nella notte più vicina al plenilunio. In una radura delle fanciulle eseguivano una danza rituale accompagnandosi col canto ed il suono dei loro rozzi strumenti. Le giovani danzanti venivano chiamate «matute» e diventò di uso comune indicare con quel nome tutte le persone di quell’età e quel sesso. Questo avrebbe dato origine alla parola “matòta” e poi alla più breve “tòta”. Secondo alcuni studiosi questo rituale è giunto a noi con alcune tradizioni carnevalesche. In talune zone gruppi di giovani realizzano un fantoccio vestito di stracci multicolori e distesolo sopra un lenzuolo lo portano in giro per le case con canti e suoni. Entrati in una casa lo posano in mezzo alla stanza e gli ballano attorno una danza speciale. Questo fantoccio è chiamato “matotin”.

Una volta esisteva in Piemonte come dappertutto, la famiglia patriarcale. La bambina era chiamata “matòta”, appena cresciutella diventava “tòta” e rimaneva tale finché non si sposava. Sposandosi andava ad abitare con la famiglia del marito (questo succedeva nelle campagne e nelle montagne, ma non era improbabile anche in città); veniva identificata con il cognome del marito, e di conseguenza lo stesso cognome della suocera. Quest’ultima, la padrona di casa, era “madama”, per cui la nuova venuta in sub-ordine era “madamin”. Dopo una certa età la “tòta” se non si sposava, veniva magari chiamata ironicamente “toton” (non in sua presenza logicamente). Concludendo la “Madama” è una signora sposata matura, la “Madamin” è una signora sposata giovane. Il criterio di distinzione tra “madama e madamin” è il fatto se la signora in questione abbia ancora la suocera o no. Se la suocera della vostra interlocutrice ha già tirato le cuoia, allora è “madama”, altrimenti è “madamin”.

Gian dij Cordòla (scrit ant ël 2014)

 

 

 

 

 

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Condove dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

Tratto dal dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna

COMPILATO PER CURA DEL PROFESSORE GOFFREDO CASALIS NEL 1839 DOTTORE DI BELLE LETTERE

OPERA MOLTO UTILE AGLI IMPIEGATI NEI PUBBLICI E PRIVATI UFFIZI A TUTTE LE PERSONE APPLICATE AL FORO ALLA MILIZIA AL COMMERCIO E SINGOLARMENTE AGLI AMATORI DELLE COSE PATRIE

CONDOVE, capo di mandamento nella provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana; ha un uffizio di posta.

Questo luogo detto Condovis nel diploma Ottoniano del 1001, e Condoviae dal Guichenon, giace a scirocco di Susa , da cui è discosto nove miglia sulla manca sponda presso il torrente Gravio. Fu dato in feudo con titolo di contado a S. E. il conte Chiaffredo Peiretti saluzzese, primo presidente del real senato di Piemonte.

II comune è composto delle seguenti villate: Condove capoluogo , Magnoleto, Fucine superiori, Fucine inferiori, Poisatto, Rivi, Fiori e Molaretto.

Come capo di mandamento ha soggetti i luoghi di Borgone, Chiavrie, Mocchie e Frassinere.

Vi corrono, da levante, la strada provinciale per a Susa; da mezzodì una comunale che mette sulla via reale; da tramontana un’altra pure comunale che scorge a Mocchie; ed una in fine che tende a Frassinere.

La Dora Riparia vi discende a mezzodì , e divide questo territorio da quelli di Chiusa e di Vayes: la soprasta un ponte in legno costruito nel 1820 a spese del consorzio di Chiusa, Vayes , S. Antonino, Chiavrie, Condove , Frassinere e Mocchie. Quel fiume torrente bagna le terre che giacciono ad ostro dal luogo di S. Ambrogio sino alla capitale , e fornisce l’acqua necessaria per dar moto ad edifìzi meccanici dei comuni di Collegno , Pianezza , Grugliasco , e va a scaricarsi nel Po.

Il torrente Gravio discende dai balzi di Mocchie e Frassinere, divide il cantone di Poisetto dal capo luogo , e bagna le terre dei cantoni di questo comune che giacciono a ponente e levante nella pianura. Nelle sue escrescenze apporta notevoli danni ai circostanti poderi, e minaccia talvolta di atterrare le case delle borgate per ove passa.

Nella parte orientale del paese havvi un rialto sul quale si veggono avanzi di antiche trincee: nel Iato di tramontana sorge il balzo di Mocchie. Ad ostro e ponente sta la parte piana del comune.

I prodotti territoriali sono: cereali, fieno e frutta di ogni sorta, e singolarmente castagne, noci, uve e pomi.

Nel lato australe, lunghesso la Dora, allignano bene gli ontani. Sonovi due chiese, cioè la parrocchiale nel capoluogo, ed un’antica chiesetta che sta in mezzo al cimitero, distante cento trabucchi dall’abitato.

Evvi una piazza che serve ad uso del mercato, il quale si tiene nel mercoledì di ogni settimana. In Condove risiede il tribunale del mandamento. Pesi e misure di Piemonte.

Gli abitanti di Condove sono assai robusti e pacifici, ma non si distinguono per vivacità d’ingegno come quelli che stanno sui vicini balzi posti a tramontana.

Nativo di Condove è il ch. dottore in medicina Francesco Re , professore di materia medico-veterinaria, autore di vari scritti riguardanti l’arte da lui professata.

Popolazione 880 circa.

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Mocchie dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

Tratto dal dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna

COMPILATO PER CURA DEL PROFESSORE GOFFREDO CASALIS NEL 1842 DOTTORE DI BELLE LETTERE

OPERA MOLTO UTILE AGLI IMPIEGATI NEI PUBBLICI E PRIVATI UFFIZI A TUTTE LE PERSONE APPLICATE AL FORO ALLA MILIZIA AL COMMERCIO E SINGOLARMENTE AGLI AMATORI DELLE COSE PATRIE

MOCCHIE (Moccae, Moccum), comune nel mandamento di Condove, provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana, posta di Condove.

Sta in val di Susa: la sua positura è sui monti che sorgono a manca della Dora Riparia.

Questo comune che trovasi a scirocco da Susa , è composto di trentotto borgate. È distante due miglia da Condove, e undici dal capoluogo di provincia. Vi hanno parecchie strade, ma tutte anguste, tortuose , ingombre di ciottoli e in pessimo stato: una di esse valicando la somma vetta del Colombardo, accenna a Lemie ed a Viù; un’altra tende al confinante comune di Frassinere. La via più frequentata, e non più agevole delle altre, si è quella, che divallandosi ad ostro per un’ora di cammino dirigesi al capoluogo di mandamento: le altre strade servono di comunicazione tra borgata e borgata, e tra queste, e il capoluogo del comune, a cui si dà il nome particolare di villa, perchè ivi stanno la casa comunale ed il presbitèrio.

La montagna su cui sta il comune di Mocchie è considerata come una delle più fertili in val di Susa. I due torrenti, che segnano il limite al territorio, cioè il Sessi a levante, ed il Gravio a ponente, contengono molte ed eccellenti trote; e vuolsi notare che l’acqua del Gravio giova mirabilmente a fertilizzare i prati. Le principali produzioni in vegetali sono l’avena, l’orzo, le castagne e singolarmente il fieno, con che si mantiene molto bestiame , di cui sono considerabili i prodotti. I mocchiesi fanno di continuo un attivo commercio, e vendono il loro burro, i caci, le cuoja, il pollame, le uova, il selvaggiume ed i pesci in sul mercato di Condove, che si tiene nel mercoledì di ogni settimana : trasportano a Torino la legna da bruciare, il carbone, la corteccia de’ roveri, ed alquanta lana: conducono buoi, vacche, giovenche , pecore , capre e majali alle fiere di Susa , di Giaveno, di Avigliana , di Almese e di Rivoli.

Nell’estensione del territorio si rinvengono:

Rame solforato frammisto al carbonato. Della regione Cantasenile: questa miniera non fu mai coltivata.

Rame piritoso nello scisto micaceo-talcoso, bigio, traente al verde scuro. Lo strato ha una spessezza di 70 millimetri , ed è colà conosciuto sotto il nome di filone della Comba del Reno, posto nel luogo denominato Rocca della Mina. Diede in slicco il 13, 82 per 100, e questo produsse all’analisi il 2, 25 per 100 in rame, epperciò non merita di essere coltivato.

Scisto micaceo quarzoso: forma il tetto della miniera suddetta.’

Scisto talcoso: ne forma le pareti.

Titano calcareo selcioso ( sfeno ) entro la roccia talcosa. Dell’alpe della Portìa.

Tormalina nera in prismi essaedri, nel talco cloritoso.

Altre volte coltivasi una miniera d’oro sui monti, che si adergono a maestrale del comune , nella regione di Barmonsello, colà dove prende origine il torrente Gravio. Si cessò dai lavori per lungo tempo , e furono poi di bel nuovo intrapresi durante l’impero napoleonico da un sig. Garda, il quale avendola trovata ben poco produttiva , cessò ben presto da un’ ulteriore coltivazione , di cui previde un poco felice risultamento.

Mocchie ha due chiese parrocchiali: la prima dedicata a S. Saturnino, trovasi nella principale borgata: fu costruita nel 1784 su elegante disegno: è osservabile per l’elevazione dell’unica sua navata , e per la sua capacità veramente proporzionata alla numerosa popolazione , che v’interviene nei dì festivi, e massime in occasioni di particolari solennità: la sua facciata di forma semplice è di buon gusto; e fa di se bella mostra sulla vasta piazza, che le sta davanti. Questo tempio fu recentemente abbellito nell’interno di buoni dipinti.

Il cimitero giace nella prescritta distanza dalla villa, ed occupa il sito dell’antica parrocchia, di cui rimane tuttora in piedi il campanile.

L’altra parrocchiale trovasi nella borgata del Lajetto nel lato orientale del territorio, ad un’ora di cammino dalla villa: recente è l’erezione di questo rurale tempietto in parrocchia: essendo esso troppo angusto e non rispondendo alla presente sua destinazione, i parrocchiani stanno per edificarsi un’altra chiesa.

Parecchie cappelle campestri, che si trovano qua e là in questo comune, non offrono alcuna particolarità da doverne fare menzione.

Evvi un’opera pia , che distribuisce soccorsi agli indigenti; e ne sono amministratori il parroco, il sindaco e due consiglieri.

I mocchiesi sono in generale vigorosi, ben fatti nella persona, affaticanti, sobri e gioviali: attendono all’agricoltura ed alla pastorizia. Le proprietà essendovi molto divise, ognuno lavora il proprio campo e pasce il proprio armento seguendo le avite usanze.

Cenni storici. Per istrana eleganza de’ notai del secolo XI questo paese fu denominato Macue; e così vien detto in una carta del 1033 a favore del monastero di S. Giusto e in un diploma di conferma emanato da Corrado il Salico nel 1037.

Mocchie diede il nome alla vallicella, ov’essa sta, poichè era essa chiamata Vallis Moccensis: alcuni scrittori la confusero con un’ altra ben diversa vallea di somiglievol nome , a cui s’ appartiene il Mercurio Mocco , così appellato dal luogo stesso , in cui i galli veneravano quel nume, siccome appare dalla lapide illustrata dal Bimart nella sua dissertazione de Diis ignotis, inserita dal Muratori nel nuovo tesoro d’iscrizioni.

Questa terra fu già posseduta dai benedettini, che la tennero sino all’anno 1043, in cui fu eretta in parrocchia. Essi vi avevano due piccoli monasteri: uno per uomini nella borgata della Rocca; l’altro per donne in quella dei Moni.

Verso l’inferiore parte del territorio, nel sito, che appellasi tuttora il Castellazzo, esistono visibilissime le traccie di un vetusto castello, che secondo la tradizione , appartenne ad Amedeo VI di Savoja: di là una spaziosa via, di cui vari tratti si veggono ancora, diclinando fino alla pianura, comunicava coll’altro castello, ch’era eziandio posseduto dallo stesso Principe; e le cui mura perimetrali coi loro merli, torreggiano ancora sur un macigno, nel territorio di Condove , appunto là , dove si crede che fosse costruita la famosa muraglia, o chiusa, che Desiderio re dei longobardi fece innalzare contro le invadenti forze di Carlo Magno.

Nel secolo XV il paese di Mocchie era divenuto signoria dei Barali di Susa, insieme con vari altri luoghi.

Popolazione 2301

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Frassinere dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

Tratto dal dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna

COMPILATO PER CURA DEL PROFESSORE GOFFREDO CASALIS NEL 1839 DOTTORE DI BELLE LETTERE

OPERA MOLTO UTILE AGLI IMPIEGATI NEI PUBBLICI E PRIVATI UFFIZI A TUTTE LE PERSONE APPLICATE AL FORO ALLA MILIZIA AL COMMERCIO E SINGOLARMENTE AGLI AMATORI DELLE COSE PATRIE

FRASSINERE (Fraxinaria sylva) Comune nel mandamento di Condove, provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana, posta di Condove.

Questo luogo, di romana origine, giace a scirocco da Susa: è distante miglia otto dal capo di provincia e due da quello di mandamento. Quattro ne sono le vie comunali, tutte in pessimo stato: una tende a Mocchie; un’altra a Borgone, ed indi a Susa ; la terza scorge alla parrocchia di Maffiotto o Maffiodo; la quarta accenna alle alpi di Mocchie, a Lemie e ed Usseglio. I monti ed i poggi di Frassinere presentano molti pascoli per vario bestiame.

Il territorio è innaffiato dalle acque di un rivo denominato Gravio: produce discreta quantità segale, avena ed uve e gli abitanti nelle prospere annate, vendono il soprappiù dei loro prodotti nei borghi di Condove, di S. Antonino, e singolarmente in Susa. L’anzidetto rivo contiene trote di ottima qualità: non è valicato che da un ponte in legno malamente costrutto, che non si tragitta senza pericolo in tempo di dirotte piogge.

Tra Frassinere e Celle si trova stascisto porfiroideo con epidoto.

La parrocchia di moderna struttura è sotto l’invocazione di S. Stefano: le sta attiguo il cimitero. Il parroco ha il titolo di pievano. Nella giurisdizione di questa pievania sono molti oratorii campestri, cioè S. Lucia, S. Michele , S. Rocco, S. Antonio da Padova, S.Sebastiano, S. Giovanni Battista; la SS. Trinità. La prima sta nella borgata dei Colombatti, distante circa cento metri dalla parrocchia; la seconda è nella villata di Vianand , lontana un miglio e mezzo, ad ostro, dal capoluogo; la terza sorge nel sito che chiamasi delle Mollette, a più di un miglio, verso levante, dalla parrocchia; la quarta è in Val Gravio, verso mezzodì, alla distanza d’un miglio e mezzo dalla chiesa parrocchiale ; la quinta trovasi nella borgata dei Reni inferiori, anche ad ostro dalla parrocchia, e a un miglio e mezzo da essa ; la sesta sorge nella borgata dei Reni superiori, anche a mezzodì dal capoluogo, e da esso distante miglia due; alla settima lontana più di due miglia dalla parrocchia vanno’ processionalmente gli abitanti del comune nel giorno della festa della SS. Triade, e in occasione di pubbliche calamita per implorare di esserne liberati.

Nella villata di Maffiotto, lontana tre miglia dal capoluogo, evvi una chiesa sotto il titolo di S. Grato, già vicecura della pievania di Frassinere, ed ora eretta in parrocchiale assoluta ed indipendente. Il parroco vi ha il titolo di curato.

Pesi e misure di Piemonte: monete dei regii stati. Gli abitanti sono robusti, applicati al lavoro ed al traffico, ed assai costumati. Frassinere fu già feudo dell’abazia di S. Giusto.

Popolazione 1442

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Condove – Il mercato settimanale

 Tratto da “La Dora” Torino 1861 di Giuseppe Regaldi (Varallo 1809 – Bologna 1883) libro in prosa in cui illustra geograficamente e storicamente terre da lui percorse. La parte di Condove si trova nel capitolo terzo da Susa al Pirchiriano al punto XIX.

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Come Sant’Antonino divenne allegro ed agiato provvedendo alla pubblica salute, così il vicino paese di Condove, a sinistra della Dora, crebbe in prosperità col suo mercato del mercoledì, il più frequente di commercio in Val dì Susa. Una volta i montanari dalle ville circostanti, colle loro patate, i latticini, la segale, le castagne e frutta e derrate di ogni specie, scendevano la sera del mercoledì in Condove per avviarsi nel giorno seguente di buon mattino al florido mercato di Avigliana. La sera, ragionando quivi delle loro faccende, iniziavano e talvolta terminavano i loro negozi, onde a poco a poco si conobbe che il mercato aviglianese del giovedì si faceva per buona parte nella sera antecedente in Condove. Pertanto venne quivi sancito il mercato di mercoledì, al quale aggiunse eziandio importanza la via nuova che dalla strada provinciale mette al paese. Un sereno mercoledì d’autunno mi aggirai sotto i portici e per le vie liete di commercio e stipate di popolo che danno manifesto indizio della nuova vita di Condove. Passai fra panieri di patate e di castagne, e sacchi di segale addossati l’uno all’altro, fra alte pertiche uncinate, da cui pendevano nastri di ogni colore, fra tavolati carichi di tele e di sete sotto tende sorrette da pali, e in mezzo all’affaccendarsi di chi va e di chi viene, di chi vende e di chi compera, incontrai, presso una fontana, su d’un carro, un nuovo Dulcamara, un uomo di strane sembianze, che, schiamazzando con rauca voce, traea intorno a sé la moltitudine e raccomandava i suoi cerotti, i suoi rimedi per tutti i malanni del mondo; e frattanto sul vicino prato, a pochi passi dalla chiesetta del cimitero, un povero cieco cantava i miracoli d’una Madonna e vendeva pie canzoncine. Così ciascuno spacciava la sua merce nel mercato di Condove, ed io scriveva la mia pagina.

Stanco di urti e di schiamazzi, a tramontana del paese salii il poggio di Molaretto (che non va confuso con quello del Moncenisio) e quivi dalla casa del capitano Perodo, che mi è stato assai cortese, ho goduto d’incantevole vista. Fertili e vasti piani, e monti verdeggianti di vigneti e di selve mi stavano d’intorno, e a ponente le giogaie delle Alpi nell’estremo orizzonte biancheggiavano di nevi. Il monte che attirava maggiormente il mio sguardo era a sud-est, il Pirchiriano. Su la cima v’ha la Sagra di San Michele, alle falde le Chiuse de’ Longobardi. Quante memorie di religione e di guerra si accolgono intorno a quel monte, aspro a chi lo guarda, sublime a chi lo medita!

(Giuseppe Regaldi)

 

 

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