Meglio ieri o meglio oggi

Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar! Era la canzone preferita dei nostri bisnonni di cento e più anni or sono che vivevano nelle borgate montane di Condove, Mocchie e Frassinere ed esprimeva in modo evidente e semplice il grande desiderio di una vita migliore, l’ansia di liberarsi da una condizione di miseria, dalla fame e da una vita dura e sacrificata, anche se vissuta nella semplicità di una società laboriosa, solidale e sostanzialmente buona ed onesta.

Questo occorre ricordare e ribadire soprattutto ora, all’inizio del secondo ventennio degli anni 2000, quando cominciano sempre più frequentemente a venire fuori gli allarmismi di facili e possibili scenari disastrosi, fantasticando di tempi ed avvenimenti da finimondo (guerre, pandemie, terremoti, ecc.).

Da un lato ci sono i pessimisti che moltiplicano le ansie degli ingenui raccattando le varie previsioni profuse di tempo in tempo, mentre dall’altra parte ci sono i nostalgici del tempo passato che vanno rimpiangendo la serenità dei bei tempi antichi mitizzandone la quiete ed il benessere: “Come si viveva felici ai tempi dei nonni”. Sarà poi vero?

Tempo addietro ho letto sul “Bollettino parrocchiale Valle del Gravio e Valle del Sessi” di gennaio 2012 una ricerca condotta da Francesco Pautasso sui registri parrocchiali dei defunti dal 1829 al 1939 a Laietto(°): dando uno sguardo complessivo, ho constatato quanto fosse difficile in quel periodo la salute e la stessa vita.

Nel 1830, la parrocchia di Laietto a cui facevano riferimento le borgate Pratobotrile, Coindo inferiore e superiore, Sigliodo inf. e sup., Camporossetto, Chiandone, Muni, Mianda, Brera, Breri, Cascina e Vagera, contava 511 abitanti poi aumentati sino a raggiungere i circa 900 nel 1904 e ancor più nel decennio successivo. Il libro dei defunti della parrocchia per il periodo che va dall’inizio della parrocchia, il 5 giugno 1829 al 31 dicembre 1939 contiene 1690 atti di morte (820 femmine e 870 maschi). Dei 1690 atti di morte, quasi la metà cioè 813 atti riguardano bambini sotto i sei anni di vita. Di questi 303 vissero alcuni giorni, 271 alcuni mesi e 239 tra uno e sei anni. Considerando le 877 persone decedute ad un’età maggiore di cinque anni, l’aspettativa media di vita per i 422 maschi è di 56 anni, mentre per le 455 femmine è di 51 anni. Nel 1918 dal 7 novembre al 16 dicembre muoiono a Laietto 2 bambini e 12 adulti per l’epidemia influenzale “Spagnola”. Diverse donne nel periodo considerato muoiono a causa del parto.

Altro che tempi da rimpiangere. I focolari dei bisnonni erano perennemente tormentati dalla fame e insidiati dall’arretratezza igienica, dall’assoluta mancanza di specifiche medicine, alla mercé di malattie che dilagavano e non concedevano scampo e che falciavano i bambini con le malattie infantili e la difterite, distruggevano i giovani con la tubercolosi, sterminavano gli adulti con la polmonite per la quale non c’era altro rimedio che le terapie con sanguisughe. Se poi vogliamo guardare al Settecento ed al Seicento situazione ancora più disastrosa, aggravata da guerre e conseguenti carestie che esponevano la vita quotidiana a sofferenze ben superiori alla nostra immaginazione.

Basti pensare che come oggi siamo sconcertati dall’arrivo degli immigrati che ci giungono da tante parti del mondo, fuggendo disperati dai loro paesi, con lo stesso animo erano allora i nostri avi ad emigrare con tanta nostalgia, speranza e disperazione che si alternavano in fondo al cuore, in cerca della “America”.

Quindi dobbiamo avere un po’ più di fiducia nei nostri tempi attuali ed essere felici del benessere generale e delle molteplici possibilità e comodità della vita moderna, come pure della longevità che ci consente.

Non lamentiamoci troppo. Ancor meno perdiamo tempo a guastarci inutilmente la vita con le sciocche predizioni sul futuro, la vita ha già abbastanza guai senza che ne inventiamo altri.

(°) Laietto borgata montana dell’ex comune di Mocchie (ora Condove – TO)

Gianni Cordola (gennaio 2021)

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Perché a mezzogiorno suonano le campane

Se ci troviamo in prossimità di un campanile durante l’ora di mezzogiorno, possiamo essere allettati dal vigoroso suono delle sue campane. Nel nostro tempo le campane suonano a mezzogiorno per dare l’annunzio dell’angelus, ma l’usanza ha un’origine molto antica.

L’uso della sonata risale al medioevo e serviva per scandire il lavoro dei campi e per ricordare la preghiera ai contadini. suonava alle 6 la mattina e alle 18 la sera, sempre per richiamare alla preghiera e per indicare l’inizio e la fine della giornata lavorativa. al giorno d’oggi sono poche le chiese a cui è permesso suonarle perché regolamenti vari limitano l’emissione di suoni in determinate ore.

Ma da dove trae origine la consuetudine di suonare le campane a mezzogiorno, entrata ormai a far parte della giornata religiosa? Ci sono due versioni ugualmente reali che fanno riferimento a episodi diversi ma di identica matrice e significano gratitudine per l’intercessione della Vergine Santissima nella vittoria del Cristianesimo sul nemico e celebrazione dell’evento.

La prima versione fa risalire la sonata di mezzogiorno al 7 ottobre 1571. Quella fu la data della Battaglia di Lepanto, in cui vari Stati cristiani, coalizzati nella Lega Santa, sconfissero l’Impero Ottomano.

Nel 1570, infatti, scoppiò la Guerra di Cipro, tra la Repubblica di Venezia e l’Impero Ottomano. L’isola di Cipro era il più grande e importante possedimento della Serenissima, e l’Impero Ottomano, che già aveva privato i veneti di Rodi nel 1522 e di Naxos nel 1566, voleva metterci le mani. Nell’agosto 1570 i turchi misero sotto assedio Famagosta, ultima città cipriota rimasta in mani veneziane. A questo punto il papa Pio V, vista l’impressionate forza militare dei turchi e le terribili atrocità che questi commettevano ai danni dei prigionieri di guerra cristiani, mobilitò i sovrani cristiani in difesa della città e riuscì nel non facile intento di creare la Lega Santa, una coalizione militare.

Le nazioni che risposero all’appello furono la Repubblica di Venezia e la Spagna di Filippo II. Successivamente si aggiunsero i Cavalieri di Malta, la Repubblica di Genova, il Granducato di Toscana, il Ducato d’Urbino, il Ducato di Parma, la Repubblica di Lucca, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Mantova ed il Ducato di Savoia.

In un contesto più generale, la creazione della Lega Santa fu un episodio importante della lotta tra potenze europee e Impero turco per il controllo del Mediterraneo. Benché tra Oriente e Occidente gli scambi di persone, merci, denaro e tecniche non cessassero mai e anzi fossero sempre intensi, il crescente espansionismo ottomano in quegli anni preoccupava sempre più i governi dell’occidente mediterraneo: esso minacciava non solo i possedimenti veneziani come Cipro, ma anche gli interessi spagnoli per via della pirateria turca.

Consapevole di questa crescente tensione, papa Pio V ritenne che il momento fosse propizio per coalizzare le forze della cristianità, all’epoca divise. La costituzione effettiva della flotta fu però lunga e laboriosa. Allarmato per il ritardo, Pio V dovette imporre tutta la sua autorità ai principi europei e minacciarli di scomunica se non fossero salpati. Infine, la flotta prese forma e il vessillo, benedetto dal papa, fu consegnato solennemente dal cardinale di Granvelle a don Giovanni d’Austria, nella basilica di Santa Chiara a Napoli il 14 agosto 1571. Intanto la città di Famagosta difesa da Marcantonio Bragadin senatore veneziano comandante la fortezza cadde il 1º agosto 1571, mentre la flotta mandata in suo soccorso era ancora in viaggio.

L’Impero Ottomano disponeva di 272 navi. La Lega Santa allestì una flotta in grado di competere con quella nemica: 109 galee e 6 galeazze veneziane, 30 galee napoletane, 27 genovesi, 14 spagnole, 12 toscane, 10 siciliane, 4 maltesi e 3 savoiarde, per un totale di 215 navi. I turchi erano comandati da Müezzinzade Alì Pascià, mente i cristiani da don Giovanni d’Austria coadiuvato dal doge di Venezia Sebastiano Venier e dall’ammiraglio Marcantonio Colonna.

La battaglia fu sanguinosissima. Nonostante la superiorità numerica i turchi persero 170 navi e 30000 uomini, tra cui lo stesso Müezzinzade Alì Pascià. Fu una vittoria totale dei cristiani: i turchi da allora non avrebbero più avuto una flotta potente quanto quella distrutta a Lepanto, e Venezia riuscì, proprio grazie alla superiorità marittima, a fungere da vero e proprio scudo per l’Europa Occidentale, frenando sempre l’avanzata ottomana.

La battaglia ebbe luogo la domenica del 7 ottobre 1571. Quel giorno, mentre si combatteva nel golfo di Patrasso, presso Lepanto, si narra che a Roma il papa avesse una visione ed esclamasse “sono le 12, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima”. Da quel giorno è così subentrato l’uso di suonare ogni giorno le campane allo scoccare del mezzogiorno e non si è mai persa questa abitudine.

La Lega fu sciolta alla firma del trattato di pace tra Venezia e l’Impero ottomano nel 1573.

Il 7 ottobre ricorre la festa della Madonna del Rosario, istituita nel 1572 per celebrare il primo anniversario della Battaglia di Lepanto, cioè la vittoria dei cristiani sui musulmani. Il papa Pio V attribuì il merito alla Madonna (Vergine di Loreto) e volle esprimere la sua gratitudine istituendo la festa dedicata alla ” Beata Vergine della Vittoria”, ma non poté celebrarla perché moriva il 1° maggio 1572. Il suo successore papa Gregorio XIII mantenne la festa, ma la intitolò alla “Madonna del Rosario” per far probabilmente rivivere quella mobilitazione spirituale che aveva impegnato tutti i credenti nella recita collettiva del Rosario, l’arma più efficace per spingere i cristiani alla vittoria.

La seconda versione fa risalire la sonata delle campane ancora prima della battaglia di Lepanto e precisamente al 6 agosto 1456 data della battaglia di Belgrado sempre contro i Turchi sotto il pontificato di Papa Callisto III.

Durante la battaglia di Belgrado (che al tempo si trovava in Ungheria) il Papa Callisto III ordinò la costruzione di una campana di mezzogiorno per invitare alla preghiera i fedeli cristiani. Il 6 agosto le truppe del condottiero János Hunyadi, incoraggiate dal frate abruzzese Giovanni da Capestrano, sconfissero l’esercito nemico guidato dal sultano Mehmed II . Si decise così di continuare a far suonare le campane a perpetua memoria di quella gloriosa impresa militare. Sempre per celebrare la vittoria, il 6 agosto venne istituita la festa della Trasfigurazione, come a dire che, grazie a quella battaglia, la civiltà europea poteva continuare a splendere.

Il campanile della Chiesa di Laietto (Condove)

Gianni Cordola

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L’arrotino

Lungo le strade di paesi e borgate della Valle di Susa si annunciava con il suo grido caratteristico: “Dòne a-i é ël molita” (donne c’è l’arrotino). Un tormentone che molti giovani non hanno mai sentito riecheggiare per le vie del paese, ma che molte altre persone invece rimpiangono. E subito iniziava la processione di donne che portavano coltelli, forbici e mezzelune. Un uomo di una certa età, barba incolta, capelli arruffati, mani callose che conduceva una bicicletta con applicata dietro il manubrio una ruota in pietra (la mola), azionata dal movimento dei pedali che l’arrotino faceva girare dopo aver sollevato la parte posteriore della bici su un cavalletto.

L’arrotino pedalava da fermo, con la bicicletta sollevata e così faceva girare vorticosamente quella ruota di pietra sulla quale molava le lame dei coltelli. Si vedevano scintille, mentre l’arrotino operava e per noi ragazzini di una volta era uno spettacolo. La bicicletta era dotava anche di una borraccia di acqua che serviva per raffreddare i metalli. Questo artigiano della strada, avvicinava con maestria alla mola i coltelli, le asce, le roncole e li affilava.

L’arrotino al lavoro

Di buon mattino arrivava in paese e si collocava sempre allo stesso posto. Le prime clienti erano le casalinghe con coltelli da cucina e forbici, poi gli uomini con scuri, falci, roncole per essere affilati. L’uomo che azionava la mola prima di eseguire il lavoro pattuiva il prezzo. Un vero e proprio contratto verbale non sempre facile. Le donne riuscivano meglio degli uomini in questa trattativa, quelle giovani e carine ancora di più.

Allora gli utensili da taglio periodicamente si affilavano. Si faceva in modo che gli utensili durassero e fossero efficienti da cedere poi ai figli, ai nipoti. La riparazione allora apparteneva al modo di pensare, di conservare anche un modesto coltello. Era un vanto possedere una scure o una falce appartenente ai nonni o ai bisnonni.

Il “molita” era un artigiano esperto che conosceva e valorizzava il metallo e consigliava il cliente su come far durare a lungo l’affilatura. Si vantava della sua arte, di mettere a nuovo ogni tipo di lama come forbici di grandi o piccole dimensioni o prodotti d’acciaio come le forbici da seta dal filo particolarmente sottile. Per arrotare un utensile, l’arrotino imprimeva alla ruota un movimento ben ritmato e continuo e con abili gesti delle mani lo passava sulla mola fino a che la lama non diventava tagliente.

Noi bambini osservavamo con gli occhi sbarrati la mola girante che sprigionava scintille a contatto dell’oggetto metallico affilato e, con stupore, contavamo le gocce d’acqua che bagnavano lentamente la mola, servivano per non danneggiare il metallo. La presenza di noi bambini gli era gradita perché il nostro chiasso pubblicizzava la sua presenza.

I grandi lo chiamavano per nome e non gli risparmiavano critiche sull’utensile affilato. La sua perentoria affermazione non si faceva attendere: “Se non taglia, riportamelo”. All’onestà dell’arrotino faceva seguito la furbizia del cliente che contestava l’affilatura per ottenere un piccolo sconto.

Gli arrotini provenivano dalle vallate di montagna, dove era più facile trovare le pietre per le mole, verso la pianura, trascinandosi il materiale su un carretto per strade sterrate e polverose. Poi è arrivata l’epoca della bicicletta, poi della lambretta e in seguito del motocarro APE, più comodo e funzionale. L’arrotino tanti anni fa svolgeva il suo mestiere girando per tutte le strade, si fermava in un angolo o entrava nei cortili, poi chiedeva ospitalità per dormire in qualche fienile e si spostava il giorno successivo in un altro paese o borgata. L’arrotino tornava di rado a casa sua, era una vita molto grama: ambulante, senza fissa dimora, dormiva dove capitava, in una stalla o in un fienile, dentro in un sacco di tela, si lavava alla pubblica fontana, mangiava quasi sempre a secco un pezzo di pane e formaggio, più raramente un piatto caldo in qualche osteria. Costretto a pedalare, era esposto ad ogni intemperia, portando la bicicletta su strade non asfaltate o di montagna, in equilibrio tutto il giorno sui pedali.

Da molti decenni questo personaggio non c’è più, l’utensile che non taglia o si cambia o lo si manda ad affilare in qualche officina. Riservare un piccolo ricordo e merito a questo artigiano del passato è doveroso, se non altro per aver facilitato e alleggerito in passato il lavoro della casalinga, del falegname, del macellaio, del boscaiolo con le sue pazienti affilature. Con lui è uscito di scena un modesto artigiano che lavorava per pochi soldi e con tanta passione. Come tutti i mestieri di un tempo, con l’arrivo della tecnologia, anche questa attività ambulante è quasi del tutto scomparsa, almeno con queste modalità, portandosi dietro innumerevoli ricordi di una vita che non c’è più e anche un po’ di bellissimi ricordi della nostra fanciullezza.

I giovani, al giorno d’oggi, non dimostrano passione per imparare a fare l’arrotino, la cui formazione avviene sul campo, affiancandosi a un maestro esperto. Oggi è interessante conoscere questo mestiere: si possono utilizzare materiali più evoluti per rendere gli attrezzi più efficienti anche perché gli oggetti da affilare sono più sofisticati e non come i semplici coltelli di un tempo. Inoltre bisogna avere conoscenze chiare sui materiali e le paste abrasive, capire i tipi di pietra più adatti per costruire le mole e sapere come le particelle del materiale che si utilizza reagiscono al calore e al freddo .Dunque quello dell’arrotino è un lavoro sempre più specializzato e interessante.

Gianni Cordola

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La festa di Sant’Antonio Abate nella vita contadina di ieri

Il 17 gennaio si festeggia, come da tradizione, Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, patrono dei contadini, degli allevatori, dei macellai e dei salumieri, Santo al quale chiedere di ritrovare ciò che si è perduto; ecco tutto quel che c’è da sapere su questa festa.

Una volta si diceva che l’annata agricola inizia il giorno di Sant’Antonio Abate e termina il giorno di San Martino, durando pertanto dal 17 gennaio all’11 novembre. Le due date sono significative, oltre che onorate dalla Chiesa con due grandi Santi. Questa giornata di gennaio viene alla fine del periodo dove la notte sembra non debba aver termine, ora il giorno sta riprendendo il sopravvento; così pure la terra, che sembrava morta ed oppressa dal grande buio comincia a rinascere. Fin dall’antichità, l’uomo, ha segnato questo periodo che prelude alla primavera con una serie di riti propiziatori, sacrifici di animali e feste. Per tale motivo la Chiesa, dopo le feste di Natale che celebrano la venuta del figlio di Dio tra di noi, indice dopo l’Epifania il periodo di festa del Carnevale, e pone proprio a metà di gennaio la venerazione di Antonio Abate.

In questo giorno era tradizione recarsi alla messa a prendere il santino nuovo da inchiodare alla porta della stalla e a ricevere dal prete il pane benedetto da mangiare, un pezzetto per ognuno in famiglia e da mettere nel pasto degli animali.
Molti portavano a benedire anche gli animali, davanti al sagrato della chiesa, e poi svariate volte il prete stesso andava di casa in casa a benedire le stalle, anche contando sulle offerte dei fedeli. Una festa tradizionale, a metà fra il sacro e il profano, che si rinnova ogni anno fra canti popolari, vino rosso e dolci tipici con cui si rende omaggio a Sant’Antonio.

Chi era Sant’Antonio

Antonio nacque a Coma in Egitto (oggi Qumans) intorno al 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent’anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l’esortazione evangelica: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri”. Così, distribuiti i beni ai poveri e affidata la sorella a una comunità femminile, seguì la vita solitaria che già altri anacoreti (eremiti dediti alla contemplazione e alle pratiche ascetiche) facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità.

Si racconta che ebbe una visione in cui un eremita come lui riempiva la giornata dividendo il tempo tra preghiera e l’intreccio di una corda. Da questo dedusse che, oltre alla preghiera, ci si doveva dedicare a un’attività concreta. Così ispirato condusse da solo una vita ritirata, dove i frutti del suo lavoro gli servivano per procurarsi il cibo e per fare carità. In questi primi anni fu molto tormentato da tentazioni fortissime, dubbi lo assalivano sulla validità di questa vita solitaria. Consultando altri eremiti venne esortato a perseverare. Lo consigliarono di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo. Allora, coperto da un rude panno, si chiuse in una tomba scavata nella roccia nei pressi del villaggio di Coma. In questo luogo sarebbe stato aggredito e percosso dal demonio; senza sensi venne raccolto da persone che si recavano alla tomba per portargli del cibo e fu trasportato nella chiesa del villaggio, dove si rimise.

In seguito Antonio si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Era il 285 e rimase in questo luogo per 20 anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all’anno. In questo luogo egli proseguì la sua ricerca di totale purificazione, pur essendo aspramente tormentato, secondo la leggenda, dal demonio.

Con il tempo molte persone vollero stare vicino a lui e, abbattute le mura del fortino, liberarono Antonio dal suo rifugio. Antonio allora si dedicò a lenire i sofferenti operando guarigioni e liberazioni dal demonio.

Il gruppo dei seguaci di Antonio si divise in due comunità, una a oriente e l’altra a occidente del fiume Nilo. Questi Padri del deserto vivevano in grotte e anfratti, ma sempre sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come guida spirituale.

Visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, all’età di 105 anni, probabilmente nel 356. Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto.

Antonio è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, si consacrarono al servizio di Dio. Ma che c’entra Sant’Antonio con la campagna e gli animali, seppure sia sempre raffigurato con un porcellino con la campanella al fianco, la fiamma in mano ed il bastone, dal momento che visse nel deserto ed in luoghi in cui i maiali non c’erano?

Sant’Antonio, ritiratosi nel deserto della Tebaide, prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.

Mentre era in vita tanti ammalati si recavano dal Santo per chiedere e ottenere guarigione da terribili malattie; tra queste vi era l’herpes zoster, il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio, per tale motivo era invocato come potente taumaturgo. In alcune parti d’Italia, è tradizione accendere nella sera del 17 gennaio grandi falò in suo onore, in ricordo anche della leggenda che lo vuole donatore del fuoco all’umanità: sceso all’inferno per contendere al diavolo le anime di alcuni defunti, accadde che il suo maialino sgattaiolò dentro creando scompiglio fra i demoni; il Santo ne approfittò per accendere col fuoco infernale il suo bastone che poi portò fuori, insieme al maialino recuperato, accendendo con esso una catasta di legna.

Nel 1088 poi un nobile francese, Gaston de Valloire, dopo la guarigione del figlio dal fuoco di Sant’Antonio, decise di costruire un ospedale e di fondare una confraternita per l’assistenza dei pellegrini e dei malati, che col tempo si sarebbe trasformata nell’Ordine Ospedaliero degli Antoniani. Costoro avevano ottenuto il permesso di allevare maiali all’interno dei centri abitati, poiché col grasso di questi animali ungevano gli ammalati colpiti dal fuoco di Sant’Antonio, e con la carne, nutriente e calorica nutrivano i degenti e i bisognosi. I maiali erano nutriti a spese della comunità e circolavano liberamente nei paesi con al collo una campanella. Da ciò deriva la tradizione, tra le più antiche del cristianesimo, che vuole Sant’Antonio Abate protettore delle campagne e dei contadini, degli animali domestici ma anche dei macellai e dei salumieri.

Anche oggi, il culto di Sant’Antonio Abate non conosce crisi: non c’è stalla o cascina ove non si trovi appesa una sua immagine e così anche le parrocchie di Condove, Frassinere, Mocchie e Laietto festeggiano il Santo nelle domeniche di gennaio con liturgie solenni, feste e lotterie che vedono sempre una grande partecipazione di fedeli. Durante le funzioni ha luogo la benedizione del pane (chiamato pane della carità) che poi viene distribuito ai fedeli e al termine della messa i contadini portavano gli animali domestici (muli, asini, mucche, cavalli, capre, pecore, cani, ecc.) fuori dalla Essere priore della festa era motivo di orgoglioChiesa a ricevere la benedizione di Sant’Antonio.

A Laietto fino agli anni 60 del secolo scorso la festa era molto sentita, non mancavano mai i priori che si alternavano ad organizzare la celebrazione addobbando la Chiesa ed offrendo il pane della carità, ma spesse volte non erano di Laietto o Pratobotrile. Ricordo alcune di queste famiglie: Martin da Camporossetto, Cordola del Coindo, Margaira di Vagera, Pettigiani e Vercellino del Sigliodo e i Giuglard della Brera. Essere priore della festa era motivo di orgoglio. Anche i bambini della scuola elementare uscivano accompagnati dalla maestra, perché in quel periodo veniva celebrata il giorno esatto anche se feriale, e divoravano velocemente il pane benedetto.

Secondo una leggenda la notte fra il 16 gennaio e il 17 gli animali possono parlare. Durante questo evento i contadini si tenevano lontani dalle stalle, perché udire le greggi parlare sarebbe stato di cattivo auspicio quindi, se vi capita di sentire il vostro cane o il vostro gatto che discutono tra loro non vi preoccupate… state comunque lontani perché interrompere loro non porta bene.

E poi, c’è la credenza popolare che vuole che il Santo aiuti a trovare le cose perdute. In Piemonte si diceSant’Antoni dla barba bianca fame artrové lòn ch’i l’hai perdù – “Sant’Antonio dalla barba bianca, fammi ritrovare quello che ho perso” oppure Sant’Antoni pien ëd virtù fame artrové lòn ch’i l’hai perdù” – “Sant’Antonio pieno di virtù fammi ritrovare quello che ho perso”.

Gianni Cordola


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Borghi e borgate di Torino

La città fondata dagli antichi Romani era suddivisa in quattro parti dall’intersezione delle due strade principali, il cardo e il decumano. Ognuna di queste parti era un quarto della città ovvero un “quartiere”. Di questi quartieri a Torino è rimasta traccia nell’attuale “Quadrilatero Romano”, questa è l’unica area storica di Torino nata con il nome di quartiere. Questa suddivisione restò invariata anche in epoca medioevale.

Con il crescere della popolazione iniziarono a formarsi aree abitate al di fuori delle mura della città, detti Burgus. Due tra i più antichi nacquero sulle sponde dei fiumi Po e Dora fuori dalle antiche mura, ma presto Borgo Po e Borgo Dora furono inglobati nel tessuto urbano.
Successivamente nacquero i borghi Vanchiglia, San Donato, Martinetto, San Secondo e molti altri, ed una volta assorbiti dalla città se ne formarono altri: Vittoria, Sassi, Regio Parco, Cenisia ecc. Altre borgate storiche sono quelle di Lucento e Madonna di Campagna, abitate dal XIV e dal XVI secolo. Borgata Ceronda e Vittoria nascono a fine Ottocento, mentre la nuova Borgata Lanzo e le Vallette risalgono al Novecento. e così via in un inseguimento durato secoli, fino all’attuale conformazione cittadina.

Quindi il borgo è un quartiere o un sobborgo cittadino che si trovava originariamente fuori dalla cortina delle mura o dalla cerchia della fortificazione, caratterizzato da un’economia prevalentemente commerciale e con una periferia a carattere agricolo.

La borgata invece rappresenta l’entità minima con cui è possibile definire una località abitata (di meno ci sono solo le case sparse), un raggruppamento di case, localizzato in una zona cittadina ancora da urbanizzare, solitamente lungo una strada d’accesso alla città o attorno a una barriera della cinta daziaria; essa subisce poi ampliamenti normati, tali da rendere non sempre facile l’individuazione topologica d’origine.

Nella città di Torino definiamo quartiere un settore di territorio che ha assorbito più borghi, oppure luoghi dove l’antico borgo sia difficilmente riconoscibile e si distingue dagli altri settori cittadini per le sue caratteristiche. Un quartiere o più quartieri possono pure rappresentare una suddivisione amministrativa nella città (circoscrizione) e in tal caso è rappresentato da un consiglio. In un’accezione familiare, il termine viene spesso utilizzato per la zona in cui si abita, riferendosi ad esempio alla vita del quartiere o al cinema del quartiere.
Ma dove l’identità del borgo è rimasta, anche il nome è rimasto. In alcuni casi sostituendosi per intero alla definizione quartiere come Borgo Vittoria che tutti identificano nelle vie a ridosso della chiesa e del mercato, altri resistendo anche all’interno di un quartiere più ampio come Borgo San Secondo che è di fatto una porzione del quartiere Crocetta, ma che ha mantenuto un’identità molto forte, anche in questo caso attorno alla chiesa ed al proprio mercato.

Circoscrizioni, quartieri, borghi e borgate di Torino

Circoscrizione Quartieri Borghi e borgate
1 Centro
Crocetta
Centro
Quadrilatero Romano
Porta Palazzo
Borgo Nuovo
Borgo Crocetta
Borgo San Secondo
2 Santa Rita
Mirafiori Nord
Mirafiori Sud
Santa Rita
Borgo Mirafiori Nord
Borgata Città Giardino
Borgo Cina
Borgo Mirafiori Sud
(Cime Bianche, Le Basse)
3 San Paolo,
Cenisia
Pozzo Strada
Cit Turin
Lesna
Borgo San Paolo (Rione Lancia)
Borgata Cenisia
Borgo Pozzo Strada
Borgata Lesna
Cit Turin
4 San Donato
Campidoglio
Parella
Borgo San Donato
Borgata Campidoglio
Borgata Parella
Borgo Martinetto
5 Vittoria
Madonna di Campagna Lucento
Vallette
Borgata Vittoria
Borgata Tesso
Borgo Madonna di Campagna
Borgo Lucento
Borgata Santa Caterina
Borgata Ceronda
Borgata Lanzo
Borgata Vallette
6 Barriera di Milano
Regio Parco
Barca
Bertolla
Falchera
Barriera di Milano
Borgata Monterosa
Borgata Monte Bianco
Borgo Regio Parco
Borgo Barca
Borgo Bertolla
Borgata Falchera (Pietra Alta)
Borgo Rebaudengo
Villaretto
Famolenta
7 Aurora,
Vanchiglia
Sassi
Madonna del Pilone
Borgata Aurora
Borgo Rossini
Borgo Valdocco
Borgo Dora
Borgo Vanchiglia
Borgata Vanchiglietta
Borgata Sassi
Borgata Superga
Borgata Rosa
Borgata Reaglie
Borgo Madonna del Pilone
Borgata Mongreno
Borgata Lomellina
8 San Salvario
Cavoretto
Borgo Po
Nizza Millefonti Lingotto
Borgo San Salvario
Borgo Cavoretto (Colle dell’Eremo, San Luca)
Borgo Po
(Gran Madre, San Vito, Val Salice, Monte dei Cappuccini, Colle della Maddalena)
Borgo Rubatto
Borgo Crimea
Borgata Pilonetto
Borgo Nizza Millefonti
(Molinette, Barriera Nizza, Italia 61)
Borgo Lingotto
Borgata Filadelfia (Villaggio Olimpico)
Le otto circoscrizioni di Torino

Gianni Cordola (gennaio 2021)

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Cipolle ripiene di Laietto (siole pien-e ‘d Lajèt)

Le cipolle ripiene sono il piatto tipico della borgata Laietto nel comune di Condove. Il paese sorge sul versante destro orografico del torrente Sessi, affluente della Dora Riparia nei pressi di Caprie. In questa borgata è tradizione durante la festa in onore del patrono San Vito, celebrata in una domenica in prossimità del 15 di giugno, accendere il forno di Bruno e Lucia e metterlo a disposizione di tutti coloro che vogliono far cuocere le proprie teglie di cipolle ripiene. Questa è la ricetta di mia mamma nata nel 1905, ma simile a tante altre di cui ogni vecchia famiglia di Laietto conserva con gelosia la propria personalizzazione.

Laietto

Ingredienti per fare una teglia per quattro persone:

  • un kg di cipolle, ideali sono le dorate piatte piemontesi (°)
  • Grissini o in mancanza anche pane raffermo
  • Latte
  • Noce moscata
  • Due uova
  • Parmigiano (o le nostre “tome” stagionate come una volta)
  • Saporita (misto di spezie: semi di coriandolo, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, semi carvi e anice stellato)
  • Burro
  • Sale quanto basta
Cipolle dorate piatte

Pulire le cipolle, avendo cura di rimuovere la calotta superiore. Far cuocere entrambe le parti, lasciandole sulla fiamma per una ventina di minuti in acqua bollente, o comunque fino a che la parte più esterna diventa trasparente. Scolarle e farle raffreddare, nel frattempo iniziare la preparazione del ripieno.

Per ottenerlo, ammollare i grissini sbriciolati in un po’ di latte con una grattugiata di noce moscata, eliminando al termine il latte in eccesso.

I grissini (foto di Tiziana Cordola)

Prendere le cipolle cotte ormai raffreddate. Svuotarle del loro interno, facendo leva con una forchetta. Tenere da parte le cipolle svuotate, che dovrebbero avere soltanto più un paio di anelli, i più esterni, e disporle in una teglia.

Le cipolle svuotate (foto di Tiziana Cordola)

A questo punto frullare le calotte superiori e la parte interna delle cipolle insieme ad un uovo, ad abbondante parmigiano grattugiato o altro formaggio stagionato secondo i proprio gusti, ad un pizzico di Saporita e quanto basta di sale fino.

Il ripieno (foto Tiziana Cordola)

Se l’impasto risultasse essere non sufficientemente denso, unite del pangrattato e riempire le cipolle svuotate fino al bordo.

In una ciotola sbattere l’altro uovo rimasto con del parmigiano, fino a che non si ottiene una crema liscia, con la quale ricoprire le cipolle ripiene. Mettere su ognuna di esse un pezzetto di burro ed infornate per circa 30 minuti a 180/200 gradi, fino a che il profumo non avrà praticamente saturato la vostra cucina.

Pronte per il forno (foto di Tiziana Cordola)

Per essere sicuri che siano pronte, basterà osservare la loro superficie: la preparazione sarà ultimata quando si sarà formata una croccante crosticina dorata.

Pronte in tavola (foto di Tiziana Cordola)
Il forno di Laietto

(°) la cipolla dorata piatta e una varietà piemontese di cipolla bionda, dalla forma appiattita e dal sapore molto dolce, che la rende perfettamente adatta alla preparazione di prelibate specialità culinarie come quelle suggerite dalla tradizione montanara di Laietto.

Gianni Cordola

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13 Dicembre Santa Lucia, giorno più corto o no?

Vi sarà capitato di sentir dire: ” Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia”, ma è veramente così? In realtà no, visto che scientificamente il giorno più corto dell’anno è quello che corrisponde al Solstizio d’Inverno, che cade il 21 o 22 Dicembre. Ma è incredibile come una semplice rima possa mettere in scacco una tra le più elementari delle conoscenze. E purtroppo è così per molte, troppe persone che non si prendono la briga di approfondire la materia.

Il momento in cui la durata del giorno è minore e la durata della notte maggiore corrisponde sempre con il solstizio d’inverno! Ma un fondo di verità nel detto c’è: la questione risale a parecchi anni fa: prima della riforma del calendario, introdotta da Papa Gregorio XIII nel 1582, il solstizio d’inverno cadeva proprio attorno al 12-13 di dicembre (da qui il detto). La riforma suddetta, fece slittare il calendario di circa 10 giorni, cosicché il solstizio andò a posizionarsi attorno al 21-23 dicembre ma il giorno dedicato a Santa Lucia restò il 13 dicembre. Nel giorno del solstizio d’inverno inizia ufficialmente l’inverno astronomico nell’emisfero boreale (e l’estate in quello australe).

A parziale discolpa e recupero del detto in questione, tuttavia, ci sono alcune doverose considerazioni da fare: vicino al 13 Dicembre si ha effettivamente una riduzione apparente delle giornate, perché il Sole tramonta prima. Al Solstizio il sole tramonta generalmente circa 3 minuti dopo rispetto a Santa Lucia, ma è l’alba che ritarda il suo arrivo. Pertanto anche se il sole tramonta più tardi, esso resta sopra l’orizzonte circa 3 minuti in meno rispetto al giorno 13.

Alla luce di queste informazioni possiamo dire che il giorno di Santa Lucia è sicuramente tra i giorni più corti che ci siano o meglio tra i tramonti più corti che ci siano. I ragionamenti fatti per il giorno più corto valgono in modo speculare per quello più lungo, quindi la durata maggiore di luce ci sarà nel solstizio d’estate del 20/21 giugno.

Chi era Santa Lucia

Santa Lucia è considerata dai devoti la protettrice degli occhi e degli oculisti, e viene spesso invocata nelle malattie degli occhi. Nacque a Siracusa verso la fine del III secolo, da una nobile famiglia cristiana. Sin da fanciulla, si consacrò segretamente a Dio con voto di perpetua verginità, ma, secondo le consuetudini dell’epoca, venne promessa in sposa a un pretendente, invaghitosi per la sua straordinaria bellezza. Al rifiuto di Lucia colui che l’aveva pretesa come sposa, si vendicò denunciandola al locale tribunale dell’impero romano, con l’accusa che ella fosse cristiana, poiché infieriva la crudele persecuzione anti-cristiana dell’imperatore Diocleziano. Arrestata, Lucia ammette e ribadisce la sua fede, irremovibile anche sotto tortura, affermando che la sua forza viene non dal corpo, ma dallo spirito e quindi venne processata e condannata dal magistrato Pascasio.


Rimasta miracolosamente illesa da crudeli supplizi, profetizzò l’imminente fine delle persecuzioni di Diocleziano e la pace per la Chiesa, dopo di che morì con un colpo di spada in gola e venne devotamente sepolta nelle grandi catacombe cristiane della sua Siracusa. Era il 13 dicembre dell’anno 304. Da allora, il suo culto si diffuse ben presto in tutta la Chiesa, e ancora oggi Santa Lucia è certamente tra i santi più popolari, più amati e più venerati nel mondo.

Il culto e la storia di Santa Lucia si diffondono molto velocemente lungo tutta la penisola ed oltre partendo già dal giorno della sua deposizione. Da subito i siracusani la venerarono come Santa e il sepolcro divenne meta di pellegrinaggi. La storia di Santa Lucia fu messa per iscritto, prima in greco e poi in latino, e fu tramandata alle generazioni successive. Santa Lucia è uno dei Santi più conosciuti e apprezzati in tutto il mondo. Le tradizioni sono rimaste maggiormente vive nella sua zona natale, Siracusa

Il corpo della santa, prelevato a Siracusa in epoca antica dai Bizantini, giunse a Costantinopoli e da qui è stato successivamente trafugato dai Veneziani che conquistarono la capitale bizantina nel 1204 ed è quindi attualmente conservato e venerato nella chiesa di San Geremia a Venezia. Le sacre spoglie della santa siracusana tornarono eccezionalmente a Siracusa per sette giorni nel dicembre 2004 in occasione del 17º centenario del suo martirio.
Sembra non ci siano tuttavia elementi certi che il corpo trafugato dai Bizantini fosse veramente di Santa Lucia, non essendovi al tempo alcun indizio che indicasse dove fosse seppellita la santa all’interno del complesso catacombale siracusano. Oltretutto per quasi ben due secoli, dal 1040 al 1204 si persero le tracce di questo corpo.

Gianni Cordola

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Il ciabattino o calzolaio

Se ci guardiamo un pò intorno, ci accorgiamo che botteghe di ciabattini o calzolai ne sono rimaste davvero poche. Qualcuno resiste nelle città, ma nei paesi non se ne trova più traccia. Questo, perché la lavorazione delle scarpe oggi più diffusa è quella industriale, che riesce a soddisfare tutte le esigenze del mercato italiano e in parte di quello estero. Le scarpe sono diventate un accessorio fondamentale della moda, che le trasforma, di volta in volta, secondo il gusto del momento.

Una volta invece, quando le necessità estetiche erano molto meno sentite e le scarpe dovevano durare il più a lungo possibile, il ciabattino riusciva a soddisfare tutte le esigenze. Per il lavoro di ciabattino era sufficiente uno spazio ridotto, una stanzetta in affitto al piano terra e la bottega era allestita, ed in caso di maltempo diventava uno dei principali spazi di socializzazione. Spazi ridotti e attrezzatura essenziale.

Quando la porta della bottega era aperta, già nell’avvicinarsi ti colpiva l’immagine di un ambiente buio, di un odore di cuoio e di colla; talvolta si udivano i colpi del martello, raggruppati in breve successione con intensità crescente nel tempo attorno a ciascuna infissione di chiodo nella suola. Una volta entrato, l’occhio vagava curioso su uno scenario sempre interessante anche se abituale. Il ciabattino seduto su uno sgabello con un robusto e ampio grembiule con pettorina e tante tasche, dei chiodi tenuti in bocca tra le labbra ricoprenti i pochi denti rimasti, ed un berretto con visiera ben calzato sul capo. Elemento caratteristico era un tavolino di circa un metro di lato, con i bordi rialzati e per tre lati diviso i piccoli scomparti in cui trovavano alloggiamento chiodini di varia misura, la pece, la cera d’api, gomitoli di filo e pezzi di cuoio.

Parte degli attrezzi del ciabattino

Gli attrezzi la lesina, il trincetto, forbici, pinze, tenaglie, martello, un attrezzo per forare la pelle, una raspa, ecc. Completavano l’armamentario un assortimento di forme in legno di varia foggia e misura, un treppiede in ferro a tre bracci terminanti con appendici di forma diversa, su ciascuna delle quali avvenivano le operazioni di battitura e inchiodatura dei tacchi e delle suole col martello da ciabattino. Anche questo era molto particolare, per avere una testa rotonda e piatta collegata al corpo dell’attrezzo da un collo cilindrico più stretto e sagomato. Sui ripiani lungo le pareti si vedevano scarpe, forme di legno, barattoli, scatole, attrezzi e oggetti di varia natura. Su quei ripiani vidi gli ultimi scarponi chiodati, ancora usati da qualche montanaro, ma che sarebbero presto scomparsi, soppiantati dalla diffusione delle suole di gomma dette a carroarmato. La macchina da cucire sarebbe stata in seguito un valido aiuto per cucire la tomaia.

Treppiede del ciabattino

Una parte notevole del lavoro erano le riparazioni, Prima di finire in soffitta la scarpa veniva sfruttata fino all’ultimo e spesso le pelli venivano riciclate. I tacchi venivano spesso ferrati per resistere più a lungo. Sotto la suola lungo il bordo venivano conficcate col martello dei pezzi di ferro che ritardavano il consumo della suola. Sotto il tacco venivano conficcati dei chiodi a formare una x. Dal ciabattino si andava spesso per chiedere interventi di risuolatura, di sostituzione dei ferretti a protezione di punta e tacco delle scarpe. Raramente il ciabattino si occupava di zoccoli in legno e cinture: i primi erano costruiti dai falegnami e arrivavano da lui solo per fissare la tomaia di cuoio con chiodini mentre per le seconde bastava nella maggior parte dei casi un avanzo di corda.

Scarpe rinforzate con ferro e chiodi

Un breve accenno alla realizzazione degli zoccoli in legno anticamente molto usati nelle nostre montagne: il legno più utilizzato, per la loro produzione è quello di salice perché è più leggero e non si “sfilaccia” oppure dí tiglio, betulla, frassino, pioppo. Gli attrezzi utilizzati sono sempre gli stessi fin dalle origini perché sono i migliori. La produzione di uno zoccolo richiede 2-3 ore e si compone di varie fasi. Si comincia col disegnare sul ceppo di legno la forma, e ovviamente la misura, del piede che poi viene sgrossata con la lama. Successivamente, con la sgorbia (particolare tipo di scalpello), viene incavato il buco dove poi si inserirà il piede; lo zoccolo quindi viene levigato con della cartavetro per renderlo liscio. Dopo la parte di legno si prepara il cuoio: si disegna la forma sulla tomaia (il cuoio) e viene tagliato, poi si modella con il piega cuoio. Infine la tomaia viene fissata allo zoccolo con dei chiodi, infilati verso il basso per non farli uscire dove si inserisce il piede.Altri tipi erano invece dotati di chiodi per permettere una migliore presa sui terreni ghiacciati. Avevano tre chiodi sul davanti e due sul tacco. Questi sono i passaggi necessari per la preparazione di uno zoccolo partendo da un semplice ceppo di legno. A Condove gli zoccoli in legno si trovavano nel negozio di Vigin-a.

Zoccoli di legno

Gianni Cordola

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Due poesie di Cesare Meano

Cesare Meano (1899 – 1957) nasce da un’antica famiglia valsusina ed è sepolto a Condove. Il paese gli ha dedicato un bella strada; è giusto che un piccolo paese si ricordi non soltanto dei suoi maestri, dei suoi santi, dei suoi guerrieri ma renda omaggio di memoria anche al suo poeta. Meano era nato a Torino, tuttavia nelle sue opere se ne vede l’origine valligiana. Il fratello di Cesare, l’architetto Corrado progettò il campanile della Chiesa di San Pietro in Vincoli di Condove. Cesare fu collaboratore del Corriere della sera e di altri giornali, pubblicò romanzi (Questa povera , 1932; L’avventura è finita, 1935; ecc.) e raccolte liriche (Esplorazione dell’anima, 1935; ecc.) di un delicato intimismo. Compose anche commedie (Nascita di Salomè, 1937; ecc.), libretti d’opera, soggetti cinematografici e lavori radiofonici e compilò un Commentario dizionario italiano della moda (1936).

Sono tre piccole stelle

Sono tre piccole stelle

che tu puoi toccare,

due rosse e una azzurra,

stanno sopra le tue ginocchia

come se ti volessero in grembo volare.

Sono tre stelle inchiodate

tra i quadranti del cruscotto;

quel motore parlotta là sotto,

si lamenta coi paracarri bianchi

della luce dei fari.

Sono tre stelle in esilio

che è così facile spegnere,

e forse per questo le guardi

tu che guardi nient’altro

e pensi che è così facile un gesto.

Minuti invece di strade

Credevi che camminassi di strada in strada,

mi seguivi contenta ma stanca,

e c’era un chiaro cielo d’ovatta

fasciato fra i tetti della città.

Credevi che cercassi una strada fra tutte quelle strade,

una casa fra tutte quelle case,

una piazza fra tutte quelle piazze,

e invece non camminavo per la città,

ma nel tempo camminavo,

lungo le ore cercavo un attimo

che non riuscivo a trovare.

Minuti invece di strade,

minuti invece di case,

e tu credevi che cercassi un luogo

ove poterti baciare.

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2 Dicembre Santa Bibiana

2 Dzèmber Santa Bibian-a

Ël temp ch’a fà a Santa Bibian-a a lo fa për quaranta dì e na sman-a

Tutti abbiamo fra i nostri antenati qualcuno che, in tempi più o meno lontani, ha impugnato la zappa per mantenere sé e la propria famiglia subendo i capricci del clima che influiva in maniera determinante sui prodotti dei campi, sulla loro qualità e quantità. Essi erano esperti nello scrutare i segni del tempo che verrà, originando detti e proverbi che oggi sembrano venati di umorismo, ma in realtà furono ispirati da situazioni ben più difficili e riguardavano tutte le stagione dell’anno. Anche l’autunno ha i suoi proverbi riferiti al clima e ne elenco alcuni:

  • 29 Settembre San Michele Arcangelo – Pieuva dossa a San Michel, invern doss. Pieuva fòrta invern cru (Pioggerellina a San Michele, inverno mite – Pioggia forte inverno rigido).
  • 29 Settembre San Michele Arcangelo – La galinëtta ‘d San Michel a slarga j’ale e a vòla an cel (La coccinella di San Michele allarga le ali e vola in cielo, sverna in attesa della prossima primavera).
  • 1 Novembre Tutti i Santi – Për tuti ij Sant manigòt e guant (Per tutti i Santi manicotti e guanti).
  • 11 Novembre San Martino – A riva l’istà ‘d San Martin (Arriva l’estate di San Martino, periodo di bel tempo).
  • 25 Novembre Santa Caterina – L’istà ‘d Santa Catlin-a ch’a dura da la sèira a la matin-a (L’estate di Santa Caterina che dura dalla sera alla mattina).
  • 30 Novembre Sant’Andrea – A Sant’Andreja l’invern a monta ‘n carèja (A Sant’Andrea l’inverno monta in cattedra).
  • 2 Dicembre Santa Bibiana – Ël temp ch’a fà a Santa Bibian-a a lo fà për quaranta dì e na sman-a (Il tempo che fa a Santa Bibiana lo fa 40 giorni e una settimana).
  • Senza data – Se la fiòca a ven prima ‘d Natal a buta i dènt coma la sal (Se la neve cade prima di Natale mette i denti senza sciogliersi come fosse sale).

Ovviamente non esiste alcuna regola vera e propria ed oltretutto le previsioni attinenti ai detti poche volte sono rispettate. In questi detti invece emerge nell’uomo l’istinto di esorcizzare gli eventi, di addomesticarli a proprio favore. Un istinto che nasce molto lontano nel tempo, là dove l’uomo intuisce che i fenomeni climatici a favore o sfavore possono essere favoriti o contrastati attraverso la religione anche se sa più di superstizione che di dedizione.

Adesso voglio parlare di Santa Bibiana, la martire romana uccisa a quindici anni, flagellata a una colonna con verghe e pallini di piombo considerata, protettrice contro il mal di testa e l’epilessia. In Piemonte questa Santa è legata come detto sopra alla saggezza contadina che arriva fino ai giorni nostri. Infatti il proverbio che conosciamo dice “Ël temp ch’a fà a Santa Bibian-a a lo fà për quaranta dì e na sman-a” ovvero “il tempo che fa il 2 novembre lo fa per 40 giorni e una settimana” a dimostrazione che sia la Santa a segnare il tempo. Non tutti sanno però che il proverbio veniva così completato: “se santa Barbara a ji pìa nen ël pont” ovvero “se Santa Barbara non prende il punto” cioè toccherebbe quindi a santa Barbara, ricordata il 4 dicembre, correggere eventualmente la previsione del più popolare detto meteorologico.

Bibiana appartiene ad una famiglia di Santi martiri: il padre è Flaviano, già prefetto di Roma, la madre santa Dafrosa, la sorella santa Demetria. Tutta la famiglia fu martirizzata durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata, quasi mezzo secolo dopo che Costantino aveva concesso libertà di culto ai cristiani con l’Editto di Milano del 313. Flaviano fu esiliato e martirizzato ad Aquas Taurinas nel 361. A partire da quel momento, Bibiana e Demetria si rinchiusero nella loro abitazione insieme alla madre Dafrosa, riunendosi in preghiera e nell’attesa del loro imminente martirio. Le sante non tardarono infatti ad essere arrestate perché cristiane, venendo rinchiuse in carcere e condannate a morire d’inedia. Grazie ad un miracolo, la sentenza si rivelò fallimentare, cosicché il prefetto decise di infliggere loro una morte cruenta: Dafrosa venne decapitata il 6 gennaio 362, mentre Demetria, rinchiusa nuovamente in carcere e minacciata di severe punizioni, professò la sua fede e spirò, in preda a una forte ansia.

Aproniano pensò invece di risparmiare la sola Bibiana, facendola affiancare da una turpe mezzana di nome Rufina, esperta di intrighi amorosi e di seduzioni del piacere. Nemmeno il pensiero di una vita mondana ebbe effetto sulla giovanissima santa, la quale, fedele alle sue virtù, proclamò nuovamente la sua fede. Il prefetto, offeso dalla scelta di Bibiana, decise allora di destinarla al martirio come i suoi parenti: legata ad una colonna e flagellata senza pietà con le «piombate», ovvero con fasci di verghe e pallini di piombo, la santa spirò quattro giorni dopo, secondo la tradizione, a quindici anni. Il corpo della santa, sempre secondo la leggenda, venne, su ordine dello stesso Aproniano, esposto ai cani randagi, i quali lo lasciarono perfettamente illeso. Le spoglie vennero dunque raccolte dal presbitero Giovanni, che le collocò nel palazzo del padre.

In realtà pare che alla base della persecuzione la religione era solo una scusa. Flaviano era prefetto di Roma già dai tempi di Costantino, e discendente di una famiglia consolare, quindi famiglia nobile e ricca. Al suo posto fu nominato Aproniano dall’imperatore Giuliano. Eliminare tutta la famiglia significava potere confiscare i beni di Flaviano, che erano consistenti, e impadronirsene. Ciò che accadde puntualmente dopo la morte di Bibiana.

Ora che abbiamo conosciuto meglio Santa Bibiana come comportarsi nei confronti del proverbio? Teniamolo come parte integrante della cultura popolare e non diamogli troppa importanza, in sostanza è una delle cose che è giusto sapere perché parte della nostra tradizione ma non ha alcuna valenza scientifica.

Gianni Cordola

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