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Oroscopo celtico

Le popolazioni antiche hanno sempre alzato lo sguardo al cielo per ricavare segnali utili alla vita sulla Terra. L’astrologia occidentale ha suddiviso l’eclittica nei dodici segni tradizionali, il cui nome si lega alle costellazioni che si possono osservare lungo la fascia di cielo detta Zodiaco.

Ma altre culture hanno in passato elaborato sistemi diversi che ancora oggi hanno una loro validità. Fra tutte merita attenzione l’oroscopo celtico. I Celti erano una popolazione anticamente presente su gran parte del territorio europeo, compreso il nord Italia. Non avevano stanziamenti fissi ma abitudini nomadi e gran parte della loro vita si svolgeva nelle foreste. I Celti non avevano inventato un sistema di scrittura, per cui le storie e le leggende che li riguardano sono state tramandate oralmente.

Per il popolo dei Celti il tempo scorreva seguendo una spirale o ruota e credeva che le stelle si muovessero attorno ad un asse costituito dalla Stella Polare, il loro Paradiso, ed allo stesso modo che le stagioni potessero succedersi e tornare ciclicamente le stesse, anno dopo anno.

albero celtico

albero celtico

I Druidi, sacerdoti di questo popolo, furono grandi osservatori degli eventi celesti e suddivisero il percorso del sole in settori elaborando un calendario di 13 mesi (uno di questi, in particolare, era composto da soli 3 giorni, e rappresentava il momento di passaggio dal vecchio anno al nuovo) e avevano affidato a ogni sezione un albero che, per le sue caratteristiche, più si adattava a quel momento dell’anno: il loro sistema è articolato su 21 segni.

L’albero rappresentava il ciclo della vita e la possibilità di mettere in relazione le tre parti del cosmo: il sottosuolo (le radici), la terra (il tronco) e il cielo (la chioma).
Inoltre i Celti attribuivano ad ogni albero della foresta alcune interpretazioni caratteriali molto simili a quelle degli esseri umani.

croce celtica

croce celtica

Quindi come già detto il loro calendario iniziava il primo novembre ed era composto da 13 mesi, inoltre contraddistinguevano l’anno a mezzo di una croce, che simboleggiava i cicli solari e lunari. La croce era a bracci ortogonali e simmetrici. Le festività solari erano connaturate allo scorrere delle stagioni: solstizio d’inverno (22 Dicembre), equinozio di primavera (21 marzo), solstizio d’estate (21 giugno) e infine equinozio d’autunno (23 settembre). Le quattro festività lunari erano, invece, legate al mondo bucolico e pastorale. Beltaine, festa di primavera con ricorrenza al primo maggio. Imbolc od Oimelc, al primo febbraio. Lughnasad o Lùnasa, festa d’estate celebrata il primo giorno d’agosto. Samhain, festa celtica dei morti onorata il primo di novembre. Quest’ultima festa celebrava anche l’inizio del nuovo anno.

tabella segni
Abete (Dal 2 al 11 Gennaio / Dal 5 al 14 Luglio)

L’Abete è stato considerato con rispetto fin dalla notte dei tempi ed è uno degli alberi più antichi. Personalità sobria e matura, l’individuo Abete è la classica brava persona, e non certo in senso riduttivo. Ambizioso con moderazione, gran lavoratore ma sempre consapevole che i valori importanti sono altri, può comunque infervorarsi per cause nobili e ha bisogno di dare un senso alla propria esistenza, onesto ma suscettibile. L’Abete è sia intimorito che attratto dalla metafisica e, se cede al richiamo di questa materia, diventa un esperto conoscitore del mondo astratto e fantastico. Castagno e Betulla danno positività ai nati sotto questo segno.

Acero (Dal 11 al 20 aprile / Dal 14 al 23 Ottobre)

Il legno dell’acero, robusto e leggero, fin dai tempi antichi è stato usato per la realizzazione di archi da caccia e da battaglia. Il nato sotto il segno dell’Acero è indubbiamente interessante: orgoglioso, narcisista, vive la vita come una sacra battaglia in cui persegue vittorie con grande capacità e determinazione. A volte è solitario, perché considera i propri scopi, anche lavorativi, alla stregua di una missione per cui sacrificare ozi o divertimenti. Può giungere molto in alto, ma difficilmente si sentirà soddisfatto e cercherà sempre qualcosa di nuovo o di più. Per creare un equilibrio ideale ai nati sotto il segno dell’Acero è consigliata la compagnia di Meli.

Bagolaro (Dal 14 al 23 agosto / Dal 9 al 18 febbraio)

Il Bagolaro è un grande albero spontaneo, il suo legno si presenta chiaro, duro, flessibile, tenace ed elastico e di grande durata. Il nato sotto il segno del Bagolaro conduce spesso una vita inconsueta ed affascinante e rimane scolpito nella memoria di chi gli vive accanto. È un simpatico pazzerello, che sembra aver dichiarato guerra alla noia e alla mediocrità. Originale e fantasioso, ha spesso modi un po’ insolenti che possono procurargli qualche guaio, ma che gli assicurano comunque una certa notorietà. Infatti ama attirare su di sé l’attenzione e per questo potrebbe essere un buon personaggio dello spettacolo. I Bagolari sono affascinati dai Pini e dalle Querce, ma solo la calma del Frassino bilancia efficacemente la loro mente effervescente.

Betulla (Solo per i nati il 24 giugno)

Il sole allo zenit dona al nativo Betulla un carattere estroverso e molto vivace. Letteralmente solare, ama brillare di luce propria ed è difficile che passi inosservato. È attratto da tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, per questo è un grande viaggiatore e nella vita è capace di trarre insegnamento anche dalle esperienze negative. È istintivamente autorevole ma deve stare attento a non apparire borioso o un po’ cinico.
Con l’aiuto di un compagno molto equilibrato come l’Olmo i nativi della Betulla sono capaci di amori realmente sinceri.

Carpino (Dal 4 al 13 Giugno / Dal 2 al 11 Dicembre)

Fin dall’antichità il legno bianco del Carpino è sempre stato usato per la costruzione di carri, abitazioni, templi. Essendo perciò visto come simbolo dei trasporti, dell’utilità, i nati sotto questo segno sono abilissimi mercanti, viaggiatori. È mondano e appariscente, persona molto socievole e amante delle comodità. I modi sono un po’ ricercati, ma mai eccessivi o volgari. E’ infatti molto legato al piano estetico, e per questo non ispira immediate simpatie, anche se con la maturità riesce ad acquisire tratti più semplici e spontanei. Sul lavoro è molto abile e stimato. Sono di notevole aiuto a questo segno il Pioppo ed il Bagolaro.

Castagno (Dal 15 al 24 Maggio / Dal 12 al 21 Novembre)

I suoi frutti erano il principale nutrimento dell’inverno e la tradizione popolare riconosce al Castagno una capacità di preveggenza. Sano, forte, spesso bello, il tipo Castagno ha senso pratico da vendere e sa convivere con gli aspetti meno gratificanti della vita, pur combattendo ogni forma di meschinità o ingiustizia. È dotato di una naturale nobiltà, ma in certi casi il suo rigore morale lo irrigidisce un po’ troppo, trasformando la sua saggezza in dogmatismo. E’ comunque una persona disponibile a mettersi in discussione e capace di migliorarsi. Essendo rigorosi moralisti e censori i Castagni hanno sovente necessità degli altri per ritrovare in loro la vera nobiltà che li distingue. In particolare in compagnia di Pini e Betulle la sua personalità tende a mutare in un costante miglioramento.

Cipresso (Dal 25 Gennaio al 3 Febbraio / Dal 26 Luglio al 4 Agosto)

Il Cipresso, con il suo verde perenne, è sempre stato simbolo di longevità. Come altri sempreverdi, l’individuo Cipresso è considerato un tipo resistente e longevo. Ciò è dovuto soprattutto al suo carattere ottimista e tollerante, insomma positivo. Molto autonomo fin da giovane, non pretende comunque di raggiungere grandi traguardi: ama la vita semplice, la natura e gli animali. Non per questo è eccentrico o solitario: semplicemente cerca di evitare le complicazioni ma, se necessario, dimostra grinta e capacità. Un Cipresso potrà trascorrere tranquillamente la vita intera a fianco di una o un Ulivo, mentre la compagnia trainante di Faggi e Olmi non è adatta a lui.

Corniolo (Dal 1 al 10 Aprile / Dal 4 al 13 Ottobre)

Il nato sotto il segno del Corniolo è esuberante, intuitivo e incredibilmente vitale. Ama rischiare e desidera soprattutto non passare inosservato, lasciare una traccia di sé, magari per qualcosa di eccezionale che ha fatto o scoperto. Per questo vive con l’adrenalina sempre a livelli alti, in un’inquietudine che detesta l’ozio, ma che può diventare dispersiva o troppo stressante. I Cornioli, tendono ad acuire la propria sensibilità e a vivere le bellezze del quotidiano come una pena molto faticosa, sono delicati, candidi ma irrequieti ed intuitivi. Dotati di fantasia spericolata e molto poco realistica potrà riportarli nella giusta carreggiata un saggio Ulivo.

Faggio (Solo per i nati il 22 Dicembre)

Il primo simbolo dell’inizio della fase ascendente del ciclo annuale che incomincia il giorno dei solstizio d’inverno, è rappresentato dalla longevità e dalla prosperità del Faggio. Il nato sotto il segno del Faggio è spesso baciato dalla fortuna, con una forte carica vitale, che investe con perseveranza soprattutto nel campo lavorativo. Ha molta memoria e spirito di osservazione, oltre a doti oratorie che lo rendono persona dalla gradevolissima conversazione, ma a volte un po’ saccente. Attento a ogni rischio, cura i propri interessi e ha una natura pragmatica e poco attratta dai voli pindarici. Per segni con caratteristiche sognanti come il Salice o l’Olmo i nati sotto il segno del Faggio verranno visti come insensibili ed egoisti; ma la compagnia rassicurante di quelli del Faggio si manifesterà preziosa per l’Abete e la Betulla, che a loro volta contraccambieranno con l’insegnamento dell’ispirazione e della fantasia.

Fico (Dal 14 al 23 Giugno / Dal 12 al 21 Dicembre)

I nati del Fico sono emotivi e sensibili. Spesso diventano grandi artisti. Sono capaci di provare emozioni in modo più intenso e completo rispetto a quanto capita solitamente e, per questo motivo, riescono ad apprezzare maggiormente le bellezze naturali e le opere d’arte. Sono però anche molto vulnerabili. Fino dalla nascita le persone del Fico apprezzano le gioie della famiglia, e spontaneamente sarebbero socievoli e generosi; purtroppo sovente tendono a troncare le discussioni ed i problemi in maniera autoritaria e prepotente lasciandosi spesso trascinare nel tranciare giudizi precisi e prevedibili, moralisti e prevaricatori. Per arginare la loro prepotenza devono accompagnarsi a compagni gentili ma fermi, come i Pini e le Betulle, che riescono a costringere quelli del Fico a mostrare solo la loro gentilezza.

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Frassino (Dal 25 Maggio al 3 Giugno / Dal 22 Novembre al 1 Dicembre)

Il Frassino era considerato nell’antichità simbolo di potenza e d’immortalità. Il nato sotto il segno del Frassino è molto furbo, abile, vivace, di grande acume. E’ anche un po’ vanitoso e non ama essere costretto a fare, o a non fare, qualche cosa: vive sull’onda del momento e non si pone troppi problemi etici, così da comportarsi in modo egoista o altruista con la stessa disinvoltura. Spirito libero, non è influenzabile ma nemmeno cerca di influenzare gli altri, che a suo modo rispetta molto. Si legano ad un solo compagno e la loro vita diventa feconda e serena. Per loro, in questo caso, la migliore decisione è legarsi a quelli dell’Ulivo o del Faggio.

Melo (Dal 25 Giugno al 4 Luglio / Dal 23 Dicembre al 1 Gennaio)

Osservare un Melo, con la sua struttura poco imponente, la sua familiarità, la sua ingenuità, riposa lo sguardo. L’individuo Melo ha un carattere da adolescente: giocoso, ingenuo, allegro, curioso e sempre in cerca di esperienze e di avventure. La sua leggerezza lo rende simpatico a prima vista, ma da qualcuno può essere considerato un po’ frivolo. E’ comunque un animo generoso e aperto, disposto a conoscere tutti e tutto, magari non proprio profondamente ma sinceramente. I nati del segno del Melo, presentando caratteristiche d’animo delicate e affascinanti riescono a confortare le anime tormentate, facili da trovare soprattutto nel segno del Pioppo.

Nocciolo (Dal 22 al 31 Marzo / Dal 24 Settembre al 3 Ottobre)

Il nato sotto il segno del Nocciolo si nota poco in compagnia: gracile e raffinato, ha tuttavia un mondo interiore ricco e travolgente, e chiede solo di poterlo condividere, anche se è consapevole che non tutti possono apprezzarlo. Per questo sa pazientare e non imporsi, ma è sempre disposto ad accogliere le richieste altrui, nonché a rischiare ogni avventura che la vita gli proponga. Si lasciano spesso avvicinare dalle altre persone (soprattutto da Salici e Tigli) chiedendo amore e dolcezza, per poi in modo sconcertante dissuaderli con energia. Si consiglia, per evitare un rinchiudersi in eremitaggio del Nocciolo la rassicurante compagnia nella sua vita di un Melo che può aiutarlo a ristabilire il contatto con gli altri.

Noce (Dal 21 al 30 Aprile / Dal 24 Ottobre al 2 Novembre)

Il Noce, albero solitario, fu glorificato come dispensatore di doni e nutrimento. Enigmatico e un po’ misterioso, il tipo Noce è ricercato per la sua intelligenza lucida e penetrante, la sua capacità di risolvere le situazioni più ingarbugliate. E’ portato istintivamente a proteggere i più deboli, però deve stare attento a non diventare manipolatore. A volte tende a isolarsi dalla mondanità, forse per meditare al riparo delle distrazioni, o forse solo per aumentare il proprio fascino. Si consiglia ai Noci di lasciarsi guidare, in una vita senza troppa affettazione, dalle Querce e dagli Aceri.

Olmo (Dal 12 al 24 Gennaio / Dal 15 al 25 Luglio)

Il nativo del segno dell’Olmo ha molti pregi e pochi difetti. Tra i primi sono senz’altro da ricordare una sincera bontà d’animo, la fiducia negli altri e nella vita, la coscienziosità, la disponibilità. Tra i secondi una certa tendenza al conformismo e all’indolenza: peccati veniali, in fondo. E’ spesso coinvolto in campo sociale e accetta la vita così come viene, senza grossi crucci né troppe aspettative. L’imponenza del Fico o dell’Ulivo spaventano i nati dell’Olmo, che invece dovrebbero accostarsi ad essi con fiducia. L’autorità propria di questi segni potrebbe indirizzare più realisticamente le vedute dei semplici e fiduciosi Olmi.

Pino (Dal 19 al 29 Febbraio – Dal 24 agosto al 2 Settembre)

Dall’adolescenza in poi il nato sotto il segno del Pino ama la perfezione, è un esteta, quasi maniacale nel suo perfezionismo, molto legato alla forma. Più resistente che forte, affronta la vita con determinazione cercando di fare esperienza di ogni cosa, anche la più strana o difficile. Ama lo sport e soprattutto il senso di salute che ne deriva, ma ha un forte senso del dovere e quindi raramente si comporta in modo incosciente. Si tratta di un segno intelligente, ma implacabile, e conduce i suoi affari, denaro, amore, carriera, senza un minimo segno di cedimento. La follia dei Bagolaro migliorerà la loro vita.

Pioppo (Dal 4 al 8 Febbraio – Dal 1 al 14 Maggio – Dal 5 al 13 Agosto – Dal 3 al 11 Novembre)

Questi alberi sono consacrati al regno degli eroi morti in battaglia ed il nato nel segno sembra ereditare la consapevolezza della vanità dell’esistenza ed una predisposizione al pessimismo. È intelligente, acuto e gentile, ha un grande senso di responsabilità e può gestire bene ruoli dirigenziali o delicati. Ha tuttavia una natura più contemplativa che operativa: tendenzialmente malinconico, sembra quasi gravato da un senso di impermanenza che gli impedisce di gioire pienamente della vita. Per questo può attraversare momenti di chiusura, ma non si tira mai indietro di fronte ai doveri.
Il Pioppo dovrebbe evitare il Salice ed alimentare la propria sete di sapere presso i sapienti Tigli.

Quercia (Solo per i nati il 21 Marzo)

La Quercia si riconosce in ogni epoca come simbolo di forza. Robusta e regale, rappresenta il periodo in cui tutte le forze della natura si ridestano e si rinnovano, è il simbolo della giustizia. In analogia al momento del risveglio della natura, il tipo Quercia ha energia da vendere, forza d’animo e grande resistenza. Molto generoso, ama stimolare riconoscenza e ammirazione, aumentando così la propria autostima. E’ anche persona capace e affidabile, solitamente dotata di naturale carisma; per questo nel lavoro tende a dirigere più che a eseguire, demandando ad altri le mansioni più umili.

Salice (Dal 1 al 10 Marzo / Dal 3 al 12 Settembre)

Il Salice è un albero che si abbandona languidamente ai capricci del vento ed è da sempre simbolo di nostalgia. Il tipo Salice ha una personalità complessa e a volte un po’ nevrotica. Di grande sensibilità, tende a essere malinconico e sembra preferire il mondo dell’arte, della poesia o del sogno alla vita reale. Non è comunque fragilissimo e la sua tendenza ad autocommiserarsi nasconde forse una sottile presunzione da incompreso che tuttavia, si sa, fa tanta tenerezza. Per giustificare la tendenza alla tristezza, questo segno si circonda anche nella vita quotidiana di eventi patetici, influenzando anche la vita di chi gli sta intorno. In cambio, il Salice riesce a dare un amore molto tenero e sensuale. I Faggi o gli Ulivi, capaci di non cedere a questo influsso melodrammatico, ne sapranno approfittare.

Tiglio (Dal 11 al 20 Marzo / Dal 13 al 22 Settembre)

Il nato sotto il segno del Tiglio, più di ogni altra cosa, desidera starsene in pace. Detesta la competizione, lo stress da carriera ed evita se possibile ogni pur piccolo litigio o grattacapo. Per questo accetta continui compromessi e a volte rinuncia a esperienze importanti pur di non sentirsi sotto pressione. E’ comunque una persona molto dinamica, anche perché preferisce l’eclettismo alla specializzazione. Ha bisogno di partner tranquilli e ricchi di fantasia dato che lui è dotato di un’intelligenza concreta e razionale, di corto raggio.

Ulivo (Solo per i nati il 23 Settembre)

L’Ulivo è l’emblema nello zodiaco celtico del mondo del calore e del fuoco. È un albero tradizionalmente sacro. Il nativo di questo segno ha infatti una personalità importante, sa essere molto generoso, ma a volte risulta saccente e moralista, tanto severo nei confronti degli altri quanto poco disposto ad accettarne le critiche. Eppure non è forte quanto vorrebbe sembrare e ha un inesauribile bisogno di ammirazione. Neo dell’Ulivo è l’incapacità di avere un’opinione personale; questo lo rende indeciso nell’affrontare la vita. Per conciliare la loro necessità di fraternizzare con una attenzione sincera ed onesta, i nati dell’Ulivo dovranno essere accompagnati da segni di intelligenza lucida.
L’individuo dell’Ulivo possiede di solito ottima salute ed una particolare longevità.

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Il mostro che spaventò Borgone

Ciò che è misterioso e diverso incuriosisce e allo stesso tempo spaventa. Nel paese di Borgone di Susa, alla fine del mese di giugno dell’anno 1947 un agricoltore M. Davì rimase scioccato dopo aver visto nella sua vigna a monte del paese un rettile mostruoso. La notizia in breve raggiunse tutti gli abitanti e fu ripresa dal giornale LA STAMPA di Torino. Il mostro non fu mai catturato ma è stato identificato in seguito come una grossa vipera con una particolare cresta, definita dalla stampa come appartenente alla famiglia dei basilischi (il basilisco, piccolo serpente con la cresta da gallo lungo poche decine di centimetri, sarebbe, secondo le antiche credenze, la creatura più mortale in assoluto, infatti ancora oggi da alcuni anziani è considerato un essere dal morso velenosissimo, in grado di addormentare e uccidere con il solo sguardo uomini e animali).

Il giovedì 26 giugno 1947 a pagina 3 il giornale LA STAMPA di Torino pubblicava il seguente articolo:

Un mostro spaventoso terrorizza Borgone

Da due giorni la popolazione di Borgone, un piccolo comune della Valle di Susa, è in allarme, per la comparsa di un mostro nelle vicinanze del paese. I borgonesi evitano d’inoltrarsi soli e disarmati nella campagna, e la sera nonostante il caldo, si tappano in casa con porte e finestre sbarrate. Due giorni fa un contadino, tuttora a letto con un’alta febbre di spavento, stava dando il verderame alle viti quando un fischio, ch’egli, appena poté parlare, definì lacerante, lo fece trasalire. Si volse e vide, a pochi passi, uno strano animale, rettile colla testa di gatto e le zampe di ramarro e una gigantesca cresta di gallo, che per alcuni istanti lo affascinò coi suoi grandi occhi di bue. Cilindrico lungo un metro, con un bel paio di mustacchi aveva la testa grossa come quella di un bambino di otto mesi, e quattro viscide zampe, lunghe venti centimetri, gli ornavano i fianchi. Con un violento sforzo di volontà, il contadino distolse gli sguardi e fuggi urlando in paese. Ci vollero due ore perché ricuperasse la parola, e allora i più ardimentosi di Borgone organizzarono una battuta. Poco sopra la vigna, appollaiato su alcune rocce, videro il mostro e spararono, ma non lo colpirono. Una seconda battuta ebbe esito negativo; ora stanno preparandone una terza, mentre la presenza dello strano essere incombe come un incubo sul paese.

Il 27 giugno 1947 su STAMPA SERA altro articolo:

Smascherato il mostro di Borgone di Susa

È una grossa vipera, della categoria dei “basilischi”. A distanza di anni compare nella zona, ma si trova anche a Chiomonte.

Borgone, venerdì sera (dall’inviato c.q.).

Il mostro di Borgone, uscito dal favoloso regno in cui l’avevano cacciato le accese fantasie dei valligiani, si è andato man mano riducendo a proporzioni accettabili dal buon senso. Col passar dei giorni – poiché infestava la montagna da circa una settimana – ha perduto una alla volta quegli attributi per cui appariva una bestiaccia infernale. Cadutagli la testa, grossa quanto quella di un bambino e cadutigli per conseguenza anche i baffi – per essere precisi, i baffi li aveva perduti prima della testa – ritirate le gambe dentro il cilindro del corpo, è diventato un viperone. Un viperone con la cresta perché il contadino che l’ha veduto, rinunciando a malincuore a diversi pezzi anatomici, arrivato alla cresta si è impuntato esclamando: “o la cresta o niente”. E non c’è stato verso di smuoverlo. Ma non per cocciutaggine perché il motivo di questa sua categorica affermazione c’è, in quanto che il particolare di quel … fastigio rivela il vizio della bestia, dato che lo inalbera soltanto per ragioni speciali e cioè quando il…. desio d’amor la punge. Quindi non è neppure un mostro, ma una …. mostra che, una volta all’anno, travolta da una fregola senza remissione, esce dalla tana a sdraiarsi al sole. Restando così a cuocersi, le spunta la cresta, quasi come una vela a cui affidi la navigazione dei suoi sogni. Disturbata dall’apparire del contadino, che dava il solfato di rame e che, con quell’arnese sulle spalle da cui sibilando usciva uno spruzzo d’acqua polverizzata in fumo verde, deve esserle apparso un mostro assai più grosso e pericoloso di lei, e coraggiosamente lo ha caricato. È stato provato, libri alla mano, che appartiene alla categoria dei “basilischi”: bestie che non abbiamo mai veduto e che perciò non ci arrischiamo a descrivere. Il basilisco o meglio, la basilisca di Borgone, non è alle sue prime apparizioni e, da quanto affermano i vecchi del paese, dal 1915 a oggi sarebbe venuta fuori tre volte. Di altre simili a questa, maschi e femmine, se ne trovano più frequentemente a Chiomonte. Questa mattina si organizza la terza battuta di caccia, poi, del mostro non se ne parlerà più fino alla prossima apparizione.

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Il Castello di Bruzolo

Sulla sponda sinistra del fiume Dora Riparia in Valle Susa, abbarbicato sulle pendici montane, il castello di Bruzolo si erge, con la sua possente torre, quasi ai piedi dell’abitato all’incirca a metà del pendio che sale fino alla gola del rio Pissaglio. Si trova in una zona ancora parzialmente circondata da prati e vigneti, al centro di uno spazio aperto. Non è costruito su un punto elevato e pertanto sono stati adottati accorgimenti difensivi nel Medioevo come una doppia cinta e un vallo. La struttura cinquecentesca è ben conservata, con all’esterno il ricetto ancora visibile e abitato, circondato sul lato posteriore dalle campagne e anteriormente dal pergolato delle viti, con all’interno i soffitti a cassettoni e i preziosi arredi.

Il primo nucleo risale al 1227. E’ questa la data più antica che riguarda il castello di Bruzolo. E’ l’anno in cui un fiduciario del Conte di Savoia, Bertrandi di Montméliant, ottiene in feudo il territorio corrispondente alla parrocchia di Bruzolo. Il 30 agosto viene stilato a Susa, alla presenza dei principali nobili valsusini riunitisi nel giardino dei Barralis, il primo documento conosciuto del feudo di Bruzolo. Si presume che subito dopo i Bertrandi avviino la costruzione del Castello. Da allora e per almeno 130 anni gran parte di Bruzolo è loro, con ampie prerogative feudali. Del patrimonio del feudo di Bruzolo, insieme al castello facevano anche parte terre, boschi, pascoli, mulini e la Fucina di Bruzolo, risalente al XIII secolo e ancora conservata.

Il maniero viene poi acquistato da un’altra casata nobile dell’entourage dei Conti di Savoia, i De La Rivoire. E’ però la dinastia Grosso a segnare il più lungo periodo di possesso nobiliare del castello. Loro nel 1610 ospitano Carlo Emanuele I di Savoia e gli emissari del Re di Francia per il Trattato di Bruzolo. Nel corso di lavori, eseguiti dal 1712, furono abbattute le due torri angolari del lato est e mozzate le due torri restanti, mentre vennero realizzate nuove ali di fabbricato. Causa delle massiccia opera di trasformazione fu senza dubbio la cessata necessità di difesa individuale e il lento evolversi delle esigenze di una corte signorile, che sempre più si trovò a far parte delle storia. Lo stile medievale persiste, in quella forma racchiusa del castello, dominata dalla torre quadrata, e dalla presenza di caditoie, realizzate sulla torre e a cavallo dell’accesso al cortile, dove essa è inoltre munita di corpo di guardia superiore. E poi ci sono i sotterranei e le cantine, un tempo utilizzati anche come luogo di prigionia. Le grandi sale, poi, raccordate sui vari piani da un grande scalone o da più ristretti passaggi a chiocciola. Tanti e nobili dovevano essere i pellegrini di passaggio che trovavano ospitalità presso il castello, dove potevano trovare anche una cappella dedicata a San Michele per pregare in silenzio.

Nel 1797 Faustina Grosso Mazzetti, vende il castello, sotto il peso dell’imposta fondiaria e la spinta della Rivoluzione francese, a Giuseppe Olivero, condovese, capostipite di un’altra lunga discendenza, seguita da quella dei Marconcini. Sono il segno di una nuova epoca che inizia, l’Ottocento, secolo della borghesia. Inizio anche di quell’ampia famiglia borghese di un esponente della élite politica e universitaria del primo Novecento, il professor Federico Marconcini: docente, sin dalla sua fondazione dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, Deputato del Regno d’Italia e quindi Senatore della prima Legislatura repubblicana. Sposato con Lidia Torretta maestra e scrittrice di libri per bambini presso l’editore Paravia di Torino. La coppia ebbe due figli Silvano morto in giovane età e nel 1921 Raffaella. Qui nel castello la piccola Raffaella nel 1930 ha recitato a memoria una poesia per il principe ereditario Umberto II, cui resterà legata per tutta la vita. Una vita da insegnante la sua, prima a Biella, poi in una scuola media di periferia a Torino. Donna moderna che prende la patente e nel 1962 acquista quella 1100 Fiat che ancora pochi anni or sono usava per Bruzolo. Sul finire degli anni sessanta il matrimonio con Adriano Pampana, che troppo presto la lascia vedova. Diventa presidente del neonato Consorzio irriguo, madrina del Gruppo Alpini di Bruzolo e lancia la tradizione della messa di San Michele con il falò nel cortile del castello. Morì nell’agosto 2014. Questo insieme storico, architettonico e ambientale, mantenutosi nel tempo e profondamente contrassegnato dalle varie epoche storiche, abitato con continuità dal XIII secolo a oggi, rappresenta un complesso patrimoniale che merita di essere salvaguardato.

Bibliografia:  Saverio Provana di Collegno, Notizie di alcune Certose del Piemonte, Torino1901 — Bruzolo. Storia di un comune e della sua gente. 1493-1993, Melli, Borgone Susa 1993 — Patria L.,  Caseforti, torri e motte in Piemonte: (secoli XII-XVI), SSAA Cuneo 2005

Alcune immagini del Castello di Bruzolo (realizzate da Giovanna Ravetto nel 2015)

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Castello di Bruzolo – Targa commemorativa Trattato di Bruzolo

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Lidia Torretta Marconcini (1887/1972)

 

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Il rondò della forca a Torino

Torino una città esoterica che affascina chiunque la visiti. Si dice, infatti, che la città sia il vertice di due triangoli: quello della magia bianca, insieme a Praga e Lione, e quello della magia nera insieme a San Francisco e Londra. Uno dei luoghi più visitati a Torino dal turismo esoterico è il Rondò della Forca. Con questo nome si indica un punto preciso, che si trova nell’area risultante dalla confluenza degli attuali corsi Valdocco, Principe Eugenio e Regina Margherita con via Cigna (il Rondò della Forca non è distante da piazza dello Statuto: uno dei fulcri della Torino esoterica). In realtà, il comune di Torino non ha mai assegnato questo nome a questo luogo. Il nome è stato tramandato dalla tradizione popolare perché qui sono avvenute le esecuzioni capitali (pubblica impiccagione) per un periodo abbastanza breve dall’anno 1835 al 1853. Precedentemente la forca era innalzata sulle rive del Po, in seguito della Dora per poi finire in Piazza delle Erbe (attuale Palazzo di Città) e nella Piazza Reale (attuale Piazza San Carlo). Negli anni dell’occupazione francese la forca fu sostituita dalla ghigliottina e le esecuzioni avvenivano in Piazza Carlo Emanuele II detta Piazza Carlina.

La zona del rondò della forca nella carta di Torino del 1839

La zona del rondò della forca nella carta di Torino del 1839

Perché questa località era stata scelta per le esecuzioni? Nei secoli passati l’esecuzione doveva essere pubblica e doveva coinvolgere il maggior numero di persone cioè far vedere che il reo veniva punito ed intimorire gli spettatori per prevenire i reati. In quel periodo, l’attuale Rondò della Forca era aperta campagna: era stato scelto proprio questo luogo per la sua vicinanza alla prigione che si trovava in quella che oggi è via Corte d’Appello ed essendo uno spazio molto ampio per contenere un numero elevato di spettatori, inoltre era circondato da grandi pini che rendevano l’ambiente sufficientemente buio e tetro. Tutt’intorno prati, fossi, pozze e poche case.

L’esecuzione capitale era preceduta da un’usanza che aveva tutto il gusto di un rituale sacrificale: al condannato venivano legati capo e mani, poi saliva sul carro in compagnia del sacerdote. Tale carro percorreva, in mezzo alla folla, le vie della città verso il luogo d’esecuzione pubblica, preceduto dai confratelli dell’Arciconfraternita della Misericordia con i loro cappucci e mantelli neri, fiancheggiato dai carnefici e dai soldati, mentre la campana del carcere coi rintocchi a morto cadenzava la marcia. Lungo tutto il percorso, il corteo era fatto oggetto a lanci di sassi o di immondizia, verso il condannato o verso il boia che lo accompagnava, secondo l’umore del momento. Arrivata l’ora dell’impiccagione, il Sindaco della Misericordia bendava gli occhi al condannato e don Cafasso concedeva l’assoluzione facendo baciare il crocifisso.

La forca veniva rizzata di volta in volta in quanto l’uso non era frequente e se fosse rimasta in piedi sarebbe stata oggetto di atti vandalici e magari anche di distruzione perché poco amata dai cittadini. Nei giorni precedenti l’esecuzione si rizzava la forca composta da due pali in legno infissi verticalmente nei fori centrali di due grosse macine da mulino ancorate al terreno, sulla loro sommità veniva incastrata una trave trasversale. Su quest’ultima si appoggiavano due scale contrapposte, su una saliva il boia e sull’altra il condannato già col cappio al collo. Fissata la corda del cappio alla trave il boia dava una violenta spinta al condannato che restava appeso nel vuoto e strangolato. Alcune volte il boia saliva sulle spalle del condannato mentre il “tirapiedi” del boia tirava il condannato verso il basso per affrettarne la morte.

esecuzioneLa pena capitale era comminata soltanto nei casi di omicidio e cospirazione politica.
Nel 1853 le due macine vennero rimosse e collocate alla Cittadella dove restarono fino all’abolizione della pena di morte avvenuta nel 1890 (l’ultima esecuzione avvenne nel 1864).
Il giorno dell’esecuzione una grande folla raggiungeva il Rondò della forca e lo spiazzo aveva l’aspetto di una festa popolare con saltimbanchi, cantastorie, venditori e borsaioli. Nel momento cruciale si contava il numero di giri che il corpo dell’impiccato avrebbe fatto prima di restare immobile per giocarli al lotto. Certe volte il pubblico manifestava i suoi umori mediante lanci di sassi al condannato se la condanna era ritenuta giusta oppure alle forze dell’ordine se la condanna era ingiusta.

Al numero 2 di via Franco Bonelli, all’epoca detta “Contrada dei Fornelli” per i molteplici fornelli pubblici, abitava Piero Pantoni, l’ultimo boia di Torino, diverse esecuzioni a carico e una moglie che per la vergogna non usciva mai di casa. La vicina chiesa di Sant’Agostino era detta la “chiesa del boia”, in quanto nei suoi pressi vi venivano sepolti i condannati a morte e i detenuti defunti in carcere: qui il boia cittadino si era guadagnato il diritto ad avere un banco tutto per sé e ad essere sepolto sotto il campanile. Cambia la zona, ma non la considerazione popolare per il mestiere di boia. In alcuni negozi, per ricevere i suoi soldi, gli veniva passata una scodella che serviva a lavare il denaro proveniente dal suo ruolo istituzionalizzato di assassino. E alla moglie del boia i panettieri porgevano il pane al contrario: dopo ripetute proteste da parte del boia alle autorità, un’ordinanza vietò questa pratica e sembra che alcuni forni di Torino cominciarono a cuocere uno strano pane a forma di mattone in modo che potesse essere dato al boia sempre al contrario senza che quest’ultimo potesse lamentarsi. La leggenda vuole che da questa invenzione per aggirare la legge e continuare a manifestare il disprezzo per il boia ebbe origine il pancarré, quello utilizzato per i toast.

“Meglio avere la moglie del boia come cliente, che essere clienti del boia”, dicevano allora.
Diceria popolare vuole che il Pantoni avesse come unico amico il Becchino di Rivarolo, tale Caranca, con il quale si confidava e si disperava per le esecuzioni da lui ritenute ingiuste. Dalla pratica del mestiere del boia ebbero origine diversi modi di dire piemontesi. Il più comune è “bòja fàuss” imprecazione dovuta al fatto che il popolo non accettava che il boia guadagnasse denaro dall’uccisione di altri uomini, per questo i Torinesi lo battezzarono “fàuss”; oppure per indicare un atto compiuto sgarbatamente si dice che “a smija ch’a daga la contenta al bòja”, cioè sembra che dia la paga al boia; per alludere ad una persona che si trovi in fin di vita si dice che abbia preso il brodo delle undici “a l’ha pijà ‘l breu dle ondes ore” perché alle undici del mattino, un’ora prima dell’esecuzione, era usanza offrire una tazza di brodo ai condannati; oppure per indicare un luogo lontano si dice che è sulla forca “an sla forca”.
Nel maggio del 1945 al Rondò della forca ci fu un’ultima esecuzione (ma senza cappio) postuma: la sedicenne Marilena Grill, colpevole secondo alcuni di essere una spia, in realtà una semplice ausiliaria della Repubblica Sociale Italiana, venne fucilata dai partigiani.

Monumento a San Giuseppe Cafasso

Monumento a San Giuseppe Cafasso

Oggi all’angolo con Corso Regina Margherita è possibile ammirare una statua, eretta nel punto esatto in cui una volta c’era il patibolo. Il piccolo monumento, eretto nel 1960 in occasione del centenario della morte, è dedicato a San Giuseppe Cafasso, originario di Castelnuovo d’Asti (AT), nato il 15 gennaio 1811 e moro a Torino il 23 giugno 1860. San Giuseppe Cafasso fu, a Torino, l’apostolo dei carcerati e, in particolare, dei condannati a morte che usava accompagnare, per confortarli, fin ai piedi della forca che li attendeva.

Sulla base del monumento, nei rispettivi quattro lati, si legge:
“A San Giuseppe Cafasso MCMLX”
“Qui sul Rondò della Forca ritorna la soave figura del Santo degli impiccati per ricordare che la giustizia umana ha bisogno di accompagnarsi alla carità di Cristo”
“I carcerati di tutta Italia hanno eretto questo monumento al loro celeste patrono nel centenario della sua morte in umile testimonianza di riconoscenza e sincero proposito di redenzione”

Particolare del monumento a San Giuseppe Cafasso

Particolare del monumento a San Giuseppe Cafasso

“Come un ponte ideale fra le cupole della Consolata e Dell’Ausiliatrice brillano le figura dei Preti Santi: Can. Cottolengo, Don Cafasso, Don Bosco, che hanno reso famoso nel mondo il nome di Torino”.
La storia macabra di questo slargo non è attenuata da una storia più antica, testimoniata ancora dal nome del Corso Valdocco che deriverebbe dal toponomastico latino Vallis Occisorum. L’area sarebbe, dunque, un luogo da lungo tempo deputato alla morte e, per tale motivo, entrato nei tour di Torino degli appassionati di occultismo ed esoterismo.

Gianni Cordola

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Via Garibaldi a Torino

Torino, una città al centro di una conca compresa tra le montagne e la collina con vie rettilinee dagli sfondi panoramici. A Torino abbiamo le montagne al fondo delle vie, anche le vie più brevi sembrano sovrastate dai monti che appaiono al di sopra dei tetti delle case. Una di queste è via Garibaldi: chi entra nella via dalla piazza Castello con tempo sereno, non è attratto dalla sequenza delle facciate delle case, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede, ma in fondo al rettilineo dalla gigantesca mole con cima quasi pianeggiante del monte Civrari, con dietro la Croce Rossa e la Punta d’Arnas, innevate.

Torre civica costruita nel 1379 e demolita nel 1801

Torre civica costruita nel 1379 e demolita nel 1801

Questa via ancora chiamata “contrada di Doragrossa” nel secondo Ottocento è lunga circa 1050 metri e collega piazza Castello con la piazza dello Statuto. La via era la strada principale della Torino antica ed era tortuosa, stretta (larga dai 4 ai 5 metri) ed irregolare finché un regio Editto di Carlo Emanuele III (1701-1773) del 27 giugno 1736 sancì il riallineamento degli edifici della via ed il suo allargamento. Il riallineamento terminò nel 1801 con la demolizione dell’antica torre civica all’angolo con via San Francesco d’Assisi, al piede della quale era posta la pietra del vituperio dove i debitori insolventi calate le braghe venivano fatti cadere da una considerevole altezza battendo il sedere nudo sulla pietra.

Proviamo a ripercorrere la storia della principale via della Torino antica. Già nella Torino di fondazione romana esisteva l’attuale via Garibaldi col nome di “decumano massimo” (asse rettore), arteria urbana principale di attraversamento della città in direzione est-ovest dalla porta Fibellona o Praetoria (oggi inglobata nel palazzo Madama) sino alla Porta Susina o Decumana (all’altezza dell’attuale via della Consolata), percorsa da un capo all’altro da una bealera. Nel 1375 la Città che aveva circa 7.000 abitanti decide di avere un nuovo palazzo comunale acquistando da un mercante una casa attigua alla futura contrada Doragrossa (all’angolo con l’attuale via San Francesco d’Assisi) e nel 1379 di innalzare una torre civica al posto di una struttura preesistente. All’inizio del Quattrocento la strada diventa residenza nobiliare e sede delle istituzioni civili e religiose cittadine tra le quali figura l’Università con vicino il “vicolo dei librai”. Nel 1437, il comune ordina ai proprietari delle case di selciare a proprie spese il tratto di strada antistante. Nel 1472 il comune abbandona la sede che occupa e si trasferisce nella più commerciale piazza delle Erbe sede del mercato alimentare acquistando il palazzo Scrivandi.

Nel 1563 il duca Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) trasferisce la capitale del ducato Sabaudo da Chambéry a Torino e nel 1575 dotò la via di un canaletto d’acqua permanente, deviato fuori le mura dalla Dora Riparia per “ragione di pubblica politezza” che si scaricava nel fossato del Castello oltre i bastioni verso Po, e la via da allora si chiamò “contrada Doragrossa”, in quel periodo Torino aveva circa 20.000 abitanti.

Pianta di Torino voluta da Emanuele Filiberto di Savoia e incisa su legno da Johann Krieger nel 1572 su disegno di Giovanni Carracha

Pianta di Torino voluta da Emanuele Filiberto di Savoia e incisa su legno da Johann Krieger nel 1572 su disegno di Giovanni Carracha

Nel Seicento è ampliata la piazza Castello, aperta la “contrada Nuova” (attuale via Roma) sul fondale del palazzo ancora Ducale, e creata la via di Po sulla vecchia “strada della calce” avente per sfondo la facciata a est del Castello, quando il Juvarra creava a ponente di esso la nuova facciata che lo completava e lo trasformava in Palazzo Madama Reale.

La contrada Doragrossa, stretta e tortuosa, non costituiva certo prospettiva degna di tale sfondo per chi guardasse dalla loggia del nuovo scalone. Esistevano allora sulla fronte della via case di varie forme e altezze risalenti al medioevo fatte sugli allineamenti del Decumano romano in parte dotate di portici. Esisteva la torre del Comune e già abbellivano la via Doragrossa le facciate delle Chiese di San Dalmazzo, della Trinità e dei SS. Martiri, disposte su piazzette arretrate rispetto al filo della via, così che quando fu deciso l’ampliamento della stessa questo non fu di pregiudizio alla loro conservazione.

L’editto del 1736 e le disposizioni esecutive redatte nel 1739 dal Primo Architetto Regio Benedetto Alfieri (1699-1767) a sua integrazione danno inizio al processo, definito di “grossazione”, di accorpamento di più cellule preesistenti ancora di impianto medievale, che vengono demolite per fabbricare il più moderno e redditizio tipo della casa d’affitto, di maggiore densità edilizia e di più razionale impianto architettonico. Vengono prescritti un’altezza di cornicione uniforme con cinque piani fuori terra e l’allineamento delle facciate, che possono differire nei particolari decorativi, ma devono risultare unitarie isolato per isolato: i nuovi palazzi da reddito si connotano per la presenza di botteghe al piano terra e da quattro piani sovrastanti su via destinati ad alloggi da locazione. Gli edifici furono quasi tutti completamente ricostruiti sullo stile Juvarriano portando la strada ad una larghezza di 11 metri. La ricostruzione della via durò complessivamente 22 anni. La Torre del Comune che costituiva l’ultimo ostacolo all’allargamento della via fu abbattuta nel 1801 per decreto del Governo Provvisorio Francese. Sin dal 1786 si era dato mano a porre le fondamenta della nuova torre Comunale che doveva sorgere all’angolo della contrada d’Italia (via Milano) con la via delle Patte (via Corte d’Appello), ma solo la parte corrispondente all’altezza del palazzo Municipale fu eseguita in rustico, così come si vede tuttora.

Anno 1775 - Veduta della strada di Dora Grossa dalla Piazza del Castello

Incisione di Ignazio Sclopis di Borgostura del 1775, veduta della strada di Dora Grossa di Torino (attuale via Garibaldi) dalla piazza del Castello; è visibile sul lato sinistro l’antica torre civica

Nel 1830 la via fu dotata nuovamente di un canale sotterraneo diviso in due parti: per gli scarichi bianchi la parte superiore e per quelli neri la parte inferiore. Nel 1843 i marciapiedi furono abbassati a livello del piano stradale per consentire ai carri la sosta laterale senza arrecare pregiudizio a quelli transitanti e nel 1846 fu dotata di illuminazione a gas ed iniziarono le prime corse degli Omnibus gli antenati dei tram, i quali erano carrozze trainate da cavalli senza rotaie. Nei mesi freddi erano chiusi e venivano chiamati “tranvai”, mentre d’estate erano aperti. Nel 1864 la via Doragrossa aveva il suo completamento con la costruzione dei due ultimi isolati, con portici, tra i corsi Palestro e Valdocco e la piazza dello Statuto costituendo con la piazza stessa un nuovo complesso unitario secondo la migliore tradizione Torinese. Verso la fine dell’Ottocento la strada era percorsa dalla linea di tram a cavalli su rotaia.

Via Garibaldi, tram trainato da cavallo

Inizio via Garibaldi da piazza Castello, tram trainato da cavallo

Durante l’ultima guerra 1940-45 tre isolati venivano distrutti, ma nella ricostruzione le altezze stabilite dal Regio Editto 27 giugno 1736 vennero rispettate. Mantenne il nome Doragrossa per oltre tre secoli, fino a quando alla morte di Giuseppe Garibaldi (1807-1882) il Consiglio Comunale di Torino a ricordo dell’eroe del risorgimento italiano decise di intitolargli la predetta via. Negli anni 70 la via Garibaldi era percorsa da 3 linee tranviarie, il n. 3, il n. 4 ed il n. 6 (a Torino è abitudine chiamare le linee del tram al maschile), dal 1978 la via è diventata pedonale.

Via Garibaldi pedonale

Via Garibaldi pedonale

Gianni Cordola

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I giorni della merla (ij di dla merla)

Vuole la tradizione popolare che il 29-30-31 di gennaio, gli ultimi tre giorni del primo mese dell’anno, vengano ricordati come i “ij di dla merla” (i giorni della Merla), ad indicare uno tra i periodi più freddi dell’inverno. Ma da dove trae origine questa credenza, entrata oramai a far parte della vita di tutti noi? Ne conosco due versioni ugualmente fantasiose.

La prima versione della leggenda narra che in tempi lontani il mese di gennaio aveva 28 giorni, quello di febbraio 31 ed i merli erano di colore bianco. L’Inverno mandava neve e gelo sul Piemonte, il suo potere era massimo nei mesi di dicembre e gennaio mentre già in febbraio calava la sua forza influenzato dall’avvicinarsi della primavera e si faceva più mite. Si racconta che l’Inverno fosse scherzoso e invidioso, in particolar modo di una Merla, molto ammirata per il suo becco scintillante e le bellissime piume bianche.

L’Inverno si divertiva a tormentarla: ogni volta infatti che ella usciva dal nido in cerca di cibo egli scatenava bufera di neve e vento. Al 28 gennaio la Merla uscì dal nido contenta che il periodo per lei più difficile stesse per finire. Già si vedeva qualche filo d’erba spuntare da sotto la neve e sotto i primi pallidi raggi di sole cominciò a prendersi gioco dell’Inverno. Sbattendo le ali iniziò a vantarsi dello scampato pericolo: “anche quest’Inverno è passato”, “l’Inverno non fa più paura”, “domani sarà febbraio e non sarà più capace di fare niente”.

L’Inverno spazientito sentendosi deriso da quella Merla si arrabbiò e urlò: “ti pentirai di avermi preso in giro”. Ciò detto raccolse tutte le sue forze, strappò tre giorni a febbraio e li attaccò alla fine di gennaio. Quindi scatenò la più grande bufera di tutto il mese: vento gelido e neve per tre giorni come non si era mai visto.

La Merla che festeggiava la fine dell’inverno smise subito di ridere e cercò conforto nel suo nido. Ma il vento era troppo forte e il gelo arrivò anche lì. Allora cercò riparo tra gli alberi o sotto le gronde ma il freddo la raggiunse implacabile. Alla fine per trovare un po’ di tepore si rifugiò nel comignolo di una casa. Per tutto il 29 gennaio il freddo aumentò, passò anche il 30 e continuò a nevicare, arrivò il 31 e fu il giorno più freddo di tutto l’anno.

La Merla si salvò restando per tre giorni nel tiepido camino in cui si era rifugiata. La sera del 31 gennaio la tempesta si placò e la temperatura iniziò a risalire, l’Inverno aveva terminato la sua prova di forza e, soddisfatto, poteva lasciare spazio a un febbraio in cui avrebbe condiviso il tempo con l’avanzare della fresca primavera di marzo.

Finalmente la Merla poté uscire dal suo riparo di fortuna. Iniziò a beccare i primi fili d’erba che già spuntavano per placare i morsi della fame. Appena fu più tranquilla specchiandosi in una fontanella vide che qualcosa era cambiato: le sue bianche piume dopo i tre giorni trascorsi nel camino si erano impregnate di fuliggine ed erano diventate tutte nere. Provò a lavarsi in qualche pozza di neve sciolta, si strisciò le piume nelle prime foglioline verdi, non ci fu niente da fare: il nero non se ne andò e il suo piumaggio bianco fu perso per sempre.

L’Inverno si godette la scena, quindi disse: “che questo serva da lezione a te e a tutti gli esseri viventi: non si scherza con le stagioni, con il freddo, con il clima. Da oggi in poi gennaio avrà 31 giorni e i suoi ultimi tre giorni saranno i più freddi dell’anno. Per ricordare a tutti questa storia i merli porteranno per sempre le penne nere”.

Da allora gennaio ha sempre 31 giorni, i merli hanno sempre le piume nere e gli ultimi tre giorni di gennaio, i più freddi dell’anno, vengono chiamati “i giorni della merla”. Questa storia insegna che se durante l’inverno c’è un giorno di sole è meglio goderselo in silenzio, allentarsi la sciarpa, togliersi il berretto, alzare lo sguardo e sorridere al cielo blu, l’Inverno apprezzerà.

La seconda versione ci fa tornare alla Torino del XVI secolo ed ha come protagonisti un merlo, una merla e i loro figlioletti tutti con le piume bianche. La famigliola di merli era venuta a Torino sul finire dell’estate e aveva sistemato il suo nido su un alto albero appena fuori le mura della città e poi per l’inverno sotto una gronda dell’attiguo Palazzo Ducale, al riparo dalla neve che in quell’anno era particolarmente abbondante. Il gelo rendeva difficile trovare da mangiare così che il merlo volava da mattina a sera in cerca di cibo, che tuttavia scarseggiava sempre di più. Un giorno il merlo decise di volare ai confini di quella nevicata, per trovare un rifugio più mite per la sua famiglia. Intanto continuava a nevicare. La merla, per proteggere i figlioletti intirizziti dal freddo, spostò il nido sul tetto del Palazzo Ducale, dove fumava un comignolo da cui proveniva un po’ di tepore. La tormenta tenne lontano il merlo da casa per tre giorni (gli ultimi tre di Gennaio). Quando tornò indietro, quasi non riconosceva più la consorte e i figlioletti erano diventati tutti neri per il fumo che emanava il camino. Nel primo giorno di febbraio comparve finalmente un pallido sole e uscirono tutti dal nido invernale; anche il capofamiglia si era scurito a contatto con la fuliggine. Da allora i merli nacquero tutti neri e gli ultimi tre giorni di gennaio, i più freddi dell’anno, vengono chiamati i giorni della merla.

Sempre secondo la tradizione popolare, se i giorni della merla sono freddi, la primavera sarà bella; se sono caldi, la primavera arriverà in ritardo.

Una curiosità, a Torino nella domenica più vicina ai giorni della merla c’è chi, incurante del gelo, si tuffa nel Po: sono i partecipanti al “Cimento Invernale Orsi Polari”. Tutti gli anni senza interruzioni dal 1899 si svolge la manifestazione organizzata dalla Rari Nantes Torino società di nuoto piemontese fondata dal colonnello Nino Vaudano, che fu anche uno dei promotori del nuoto italiano alle origini. È anche grazie all’interesse suscitato da manifestazioni di questo tipo che l’amore per questa disciplina si diffuse in Piemonte. Inoltre con questo tuffo gli Orsi Polari sottolineano l’importanza del Grande Fiume nella nostra città.

Gianni Cordola

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Estate di San Martino e “fé San Martin”

La leggenda di San Martino

A volte i modi di dire esprimono saggezza popolare e hanno un significato profondo o morale, tra questi è compreso sicuramente “l’estate di San Martino” per indicare quella diffusa presenza di bel tempo, che nei giorni intorno alla prima decade di Novembre, caratterizza il clima, dovuta, secondo la leggenda, alla volontà di Dio per ricordare il nobile gesto del Santo.

Martino nacque intorno al 316 d.C. in Pannonia (l’odierna Ungheria) a Sabaria da pagani. Figlio di un tribuno della legione, si arruola a sua volta nella cavalleria imperiale prestando poi servizio in Gallia diventando comandante del corpo di guardia nella città di Amiens, dove visse l’esperienza che cambiò per sempre la sua vita e lo consegnò alla storia, alla leggenda e alla santità. Una notte di novembre mentre usciva a cavallo da una delle porte della città francese di Amiens, per ispezionare i posti di guardia il cielo era coperto, piovigginava e tirava un vento gelido che penetrava nelle ossa; per questo il cavaliere era avvolto nel suo ampio mantello di soldato.

Ma ecco che lungo la strada c’è un povero vecchio coperto soltanto di stracci, spinto dal vento, barcollante e tremante per il freddo. Martino lo guarda e sente una stretta al cuore e pensa come fare per dargli un po’ di sollievo. Basterebbe una coperta, ma non ne ha. Sarebbe sufficiente del denaro, con il quale il povero potrebbe comprarsi una coperta o un vestito; ma il cavaliere non ha con sé nemmeno una moneta. Ha quel pesante mantello che lo copre tutto. Gli viene un’idea, si toglie il mantello, lo taglia in due con la spada e ne dà una metà al poveretto. “Dio ve ne renda merito!”, balbetta il mendicante, e sparisce.

Martino, contento di avere fatto la carità, sprona il cavallo e se ne va sotto la pioggia, che comincia a cadere più forte che mai, mentre un vento rabbioso pare che voglia portargli via anche la parte di mantello che lo ricopre a malapena. Ma dopo qualche ora ecco che smette di piovere, il vento si calma. Di lì a poco le nubi si diradano e se ne vanno. Il cielo diventa sereno, l’aria si fa mite. Il sole comincia a riscaldare la terra obbligando il cavaliere a levarsi anche il mezzo mantello. La notte seguente in sogno, Cristo gli apparve rivestito di quello stesso mantello.

Ecco l’estate di San Martino, che si rinnova ogni anno per festeggiare un bell’atto di carità ed anche per ricordarci che la carità verso i poveri è il dono più gradito a Dio.

Martino, militare romano non cristiano dopo la mistica esperienza, lasciato l’esercito nel 356 d.C., si convertì, già battezzato forse ad Amiens, raggiunge a Poitiers il vescovo Ilario che lo ordina esorcista (un passo verso il sacerdozio). Dopo alcuni viaggi Martino torna in Gallia, dove viene ordinato prete da Ilario. Nel 361 fonda a Ligugé una comunità di asceti, che è considerata il primo monastero databile in Europa. Nel 371 d.C. divenne Vescovo di Tours, dove acclamato dai suoi cittadini, proseguì umilmente fino alla morte (397 d.C.) la sua opera pastorale. Martino è tra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa cattolica, è venerato anche da quella ortodossa e da quella copta. Si celebra l’11 novembre, giorno dei suoi funerali avvenuti nell’odierna Tours. Il suo mantello miracoloso divenne reliquia e fu conservata dai Re Merovingi. Da allora chi conservava il mantello corto, detto appunto “Cappella”, venne definito cappellano.

San Martino è celebrato come il protettore dei pellegrini, dei viandanti di un tempo, ed in alcuni casi la giornata in cui si festeggia il santo, diventa un giorno di festa per i camionisti, i viandanti di oggi. A San Martino sono dedicate le cappelle di Camporossetto e Grange di Condove (TO).

San Martino

San Martino

Fé San Martin

A Torino ed in tutto il Piemonte è consuetudine usare la frase “fé San Martin” quando si trasloca.
La frase non è un semplice luogo comune ma ha riferimenti storici importanti ed ancor oggi viene utilizzata molto più spesso di quanto si pensi. Ma perchè?
Prima della riforma dei patti agrari avvenuta nel secondo dopoguerra, l’anno agrario terminava il 10 novembre data scelta in quanto i lavori nei campi erano già terminati senza però che fosse già arrivato l’inverno e di conseguenza era finito il lavoro del mezzadro ed il relativo contratto di affitto. I braccianti che venivano riconfermati dal proprietario terriero per il nuovo anno agrario, che ripartiva il giorno successivo, non avevano problemi: il posto di lavoro era mantenuto così come l’abitazione.

Per coloro che venivano licenziati, l’11 novembre, quando la chiesa ricorda San Martino di Tours, era un giorno disgraziato. Il mezzadro con la sua famiglia era praticamente messo alla porta, doveva raccogliere tutte le sue cose ed era costretto ad abbandonare casa e lavoro. Non era inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni masserizia che si spostavano da un podere all’altro, ecco perché è tradizione utilizzare il termine “fé San Martin” (fare San Martino) quando si trasloca.

Fé San Martin

Fé San Martin

Aneddoto storico riferito a San Martino

Un aneddoto riferito a questo modo di dire riguarda il primo re d’Italia. Il 24 giugno 1859 durante la seconda guerra d’indipendenza l’esercito del regno di Sardegna sta cercando di conquistare il piccolo paese di San Martino.
Lo scontro è cruento e l’esito della battaglia, incerto. Vittorio Emanuele II incita i suoi soldati con la celebre frase “Fòrsa fieuj, ò i pijoma San Martin ò j’auti an fan fé San Martin a noi!” (Forza ragazzi o prendiamo San Martino o gli altri fanno fare San Martino a noi).sanmartino2a

Altre tradizioni legate a San Martino

Nel comune abruzzese di Scanno, in onore di San Martino si accendono grandi fuochi detti “glorie di San Martino” e le contrade si sfidano a chi fa il fuoco più alto e durevole.

Nel veneziano l’11 novembre è usanza preparare il dolce di San Martino, un biscotto dolce di pasta frolla con la forma del Santo con la spada a cavallo, decorato con glassa di albume e zucchero ricoperta di confetti e caramelle; è usanza inoltre che i bambini della città lagunare intonino un canto d’augurio casa per casa e negozio per negozio, suonando padelle e strumenti di fortuna, in cambio di qualche monetina o qualche dolcetto.

A Palermo si preparano i biscotti di San Martino inzuppati nel vino moscato di Pantelleria, a forma di pagnottella rotonda grande come un’arancia e l’aggiunta nell’impasto di semi d’anice o finocchio selvatico che conferisce loro un sapore e un profumo particolare.

In molte regioni d’Italia l’11 novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino nuovo (da qui il proverbio”A San Martino ogni mosto diventa vino”) ed è un’occasione di ritrovo e festeggiamenti nei quali si brinda, appunto, stappando il vino appena maturato e accompagnato da castagne o caldarroste.

San Martino, dà il titolo ad una rappresentazione teatrale di Oscar Barile, “La Fiera di San Martino”: una storia in piemontese, una storia ambientata sulle nostre colline, una storia vera, una storia d’amore. Molto delicata e intrisa di emozione autentica.

Gianni Cordola

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Significato di “na figura da cicolaté”

Abbiamo fatto una figura da cioccolatai. “I l’oma fàit na figura da cicolaté”. L’utilizzo di questa espressione nelle chiacchiere o nei dibattiti è comune in Piemonte. Il significato dell’espressione è ben chiaro: fare una figura da cioccolataio vuol dire fare una brutta figura, una figura barbina, meschina, ridicola, da sfacciato o un comportamento inappropriato.

Ma quando nasce questa espressione e da dove deriva?
Per comprenderne l’origine dobbiamo andare indietro nel tempo ed approdare nella Torino degli anni intorno al 1821÷31, epoca in cui regnava il Duca Carlo Felice di Savoia (1765-1831) col titolo di Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, e la città Torinese era la capitale indiscussa del cioccolato.

Il legame tra Torino e il cioccolato nasce nel XVI secolo quando dalle colonie spagnole arrivano i primi semi di cacao. Fino all’Ottocento il cioccolato era consumato solamente in tazza come bevanda liquida. Nel 1826 l’imprenditore Paul Caffarel dà inizio alla produzione di cioccolato solido ottenuto mescolando cacao, acqua, zucchero e vaniglia. Da lì in poi la città vedrà un fiorire di laboratori per la lavorazione del cioccolato ed i mastri cioccolatieri diventano i nuovi ricchi ed acquistano dimore lussuose e belle carrozze.

Lo storico Alberto Viriglio (1851-1913), così spiega nel suo libro “Voci e cose del vecchio Piemonte” (Torino 1917) l’origine del detto. Si narra che da tempo un cioccolatiere andasse in giro per la città di Torino con una ricca carrozza trainata da una quadriglia di cavalli, mentre solitamente i ricchi borghesi ne usavano una trainata da due. Pare allora che, vedendolo, il Duca Carlo Felice si sia risentito e lo abbia fatto chiamare, chiedendogli di non ostentare abitudini regali: il re non poteva permettersi di fare “na figura da cicolaté”.

Secondo un’altra versione meno accreditata un ricco cioccolataio fu scambiato per il re quando si presentò all’inaugurazione del teatro Carlo Felice in Genova, nel 1828, su una carrozza molto lussuosa tirata da una quadriglia. Essendo la carrozza del re meno bella, la gente mormorò che “il re aveva fatto una figura da cioccolataio” e la battuta riportata di paese in paese venne a conoscenza di tutti i Piemontesi.

Carlo Felice avrebbe potuto mettere un tiro a sei cavalli alla sua carrozza, ma questo giustamente avrebbe significato mettersi in competizione con un semplice cioccolataio, per cui preferì ridimensionare le velleità dell’artigiano e fargli ricordare le sue umili origini.
Da quando il detto divenne popolare, gli artigiani del mestiere preferiscono essere chiamati cioccolatieri.

Gian dij Cordòla

La carrozza reale nel 1817

La carrozza reale nel 1817

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Significato di “Furb coma Gariboja”

Un piemontese per indicare uno sciocco dice “a l’é furb coma Gariboja”, da dove viene questo modo di dire?

Fare il furbo significa cercare di barare, di cavarsela usando la furberia o imbrogliando gli altri; cercare di ribaltare una situazione o di confonderla a proprio vantaggio, tentando di far credere una cosa per un’altra. In Piemonte dicendo essere furbo come Gariboja non viene ammirata la destrezza di chi riesce nell’imbroglio, ma la dabbenaggine dell’individuo.

Il nome Gariboja risale ad un francese della Borgogna Jean Gribouille, personaggio popolare in Francia al pari di Bertoldino in Italia, proverbiale per la sua minchioneria. In Francia il personaggio di Gribouille è protagonista del romanzo “La Sœur de Gribouille” scritto nel 1862 da Sophie Rostopcina, contéssa di Ségur. Gariboja è diventato in Piemonte l’emblema di una ingenuità spinta ai confini della stoltezza. È uno strano quanto simpatico personaggio molto sempliciotto e gli si attribuiscono molte sciocchezze. Ne elenco alcune:

Ch’a stërmèissa ij sòld ant le sacòcie dj’àutri për tëmma d’esse derobà, (che nascondesse i soldi in tasca degli altri per timore di essere derubato)

Ch’a se stërmava sota ‘n pont ant l’eva për tëmma d’esse bagnà da la pieuva (che si nascondeva sotto un ponte nell’acqua per paura di essere bagnato dalla pioggia)

Ch’a s-ciapèissa le nos con j’euv (che spaccasse le noci con le uova)

Ch’a comprèissa j’euv a dodes sòld la dosen-a për arvendje a un sòld l’un (che acquistava le uova a dodici soldi la dozzina per rivenderle a un soldo l’una “guadagnando sulla quantità”)

Ch’a dava da beive a le ciòche e vestìa ‘l cioché (che dava da bere alle campane e vestiva il campanile)

Ch’a pupava sua mare ‘n sla schin-a (che succhiava il latte alla madre sulla schiena)

Ch’a serchèissa ‘d passé tra na stissa e l’àutra për nen esse bagnà da la pieuva (che cercasse di passare tra una goccia e l’altra per non essere bagnato dalla pioggia)

Per questo essere “furb coma Gariboja” vuol dire non esserlo per niente anzi essere particolarmente sciocco e credulone.

Gian dij Cordòla

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