La contrada dei Fiori in Condove

Contrada dei Fiori, un nome che può far pensare a una indicazione botanica, ma così chiamata perché abitata anticamente dalle famiglie Fiore, di cui è rimasta traccia in antichi documenti: Johannes de Flore de Mochis nel 1383 e Steffano e Cattharina Fior nel 1655.

La contrada dei Fiori nel catasto ottocentesco

Qui sono nato nel 1947 e ho passato gli anni più spensierati, qui le mie radici, quando in questo vicolo ci si conosceva tutti, e adesso… I tempi cambiano ma i bei ricordi rimangono indelebili e li portiamo dentro sempre. Qui oltre la mia famiglia Cordola – Pautasso, vivevano i Borgis, Reinaudo, Midellino – Franchino, Versino – Marra in parte originari della montagna Condovese e altri di diversa provenienza Corsieri, Bezio e la famiglia dello stagnaio. I miei compagni di giochi erano Marisa, Renata, Clara, Felice, Bruno, i due più grandi Ercole con mio fratello Giorgio, e Guido di cui non ricordo il cognome perché dopo qualche anno la famiglia si trasferì in Torino. Noi bambini, sia maschi che femmine, giocavamo quasi sempre insieme; pochi giochi erano prevalentemente femminili, come giocare alle bambole o a vendere.

I ragazzi della contrada dei Fiori fotografati poco sopra al roc du cëmpiun

Eravamo un gruppo di bambini che insieme, i più piccoli sotto la guida dei più grandicelli, fanciulli e fanciulle, giocavamo o anche lavoravamo. Tutti parlavamo un bel dialetto piemontese, che oserei definire genuino. Se qualcuno piangeva o aveva paura per qualche cosa, veniva per un momento consolato, ma poi, se continuava, veniva deriso con un “Ciu-ciula, ciu-ciula”, mentre i compagni fregavano insieme gli indici delle mani. Ci divertivamo moltissimo e restavamo fuori fino alla sera tardi. Giocavamo a nascondino, a pallone, con le biglie e le figurine, saltavamo la corda, inventavamo tanti giochi divertenti che ci facevano ridere a crepapelle. Alla sera nella bella stagione mamme e nonne si radunavano davanti al pilone (era l’unico punto luce pubblica) del vicolo per chiacchierare e rammendare vestiti mentre noi ragazzini scorrazzavamo per tutto il vicolo.

Il pilone dei Fiori

Di pomeriggio invece finiti i lavori domestici si riunivano nel cortile dei Versino o davanti il cortile di casa mia; c’erano tutte Rina, Natalina, Costantina, Domenica, Olimpia, Costanza, Carmelina, mia mamma Pina, Tilde e altre di cui non ricordo il nome. E come non ricordare Olga e sua mamma Tilde, la quale aveva una paura matta dei tuoni durante il temporale tanto da urlare per lo spavento e correre in casa a nascondersi. A fine giornata i padri se non stanchi del lavoro facevano un salto all’osteria dei Fiori di Alterant per una bicchierata in compagnia; lì alla domenica sera era facile incontrare il poeta pittore Alexis per parlare della sua arte e dei problemi del vivere.

Spesso di pomeriggio salivamo di fronte alla Cartoncina a far andare le barchette di legno nelle bealere. In inverno, incuranti del freddo, ci divertivamo lanciandoci palle di neve o scivolando lungo le strade ghiacciate. Nella tarda primavera andavano con gioia a raccogliere le fragoline di bosco attorno al Roc dij mess in vicinanza della strada per le Fucine per mangiarle sul posto belle fresche, oppure al Gravio per more e lamponi. La porta di casa era sempre aperta e se ci si assentava tutti la chiave era posta sotto un sasso vicino all’ingresso; non c’era pericolo, se arrivava un estraneo i cani abbaiavano e comunque chi lo vedeva avvisava tutto il rione. Attorno al borgo abitavano altri ragazzi, Bruna G., Paolo A., Rina D. e Francesco in via Mazzini ed altri in via Don Pettigiani.

Qualche anno dopo, più grandicelli, potevamo scendere alla sera in piazza e incontrarci con gli altri amici: Piero M., Beppe A., Giovanni, Osvaldo, Cesare, Ezio, Oscar, Paolo, il ritrovo era sempre fissato davanti la Bocio. Ognuno di noi aveva anche un soprannome scherzoso che evito di citare per non far arrabbiare nessuno, il mio era Censin affibbiatomi da Felice il mio vicino di casa. Non mancavano certo le ragazze Beatrice, Rita, Clelia tanto per citarne alcune. Quante chiacchiere sulle panchine della piazza, qualche volta si giocava al pallone nel cortile della vecchia chiesa finché era aperta al culto, con la costruzione della nuova chiesa si giocava nel campo sportivo oppure si guardava chi giocava a bocce, a carte o al biliardo. Anche il viale Bauchiero alla sera era pieno di persone sulle panchine e per la strada. I bar erano vivi e brulicanti di persone di ogni età. A quei tempi si formavano i gruppi dei vari rioni: i Fiori, le Fucine, le case operaie, le villette, il Molaretto, la piazza, ecc. e non mancavano divisioni di classe e di quartiere, liti e maldicenze.

L’estate si andava a fare i bagni lungo il torrente Gravio nelle immediate vicinanze della centrale idroelettrica delle Officine Moncenisio, meta prediletta di tutti i giovani Condovesi. Le splendide piscine naturali lungo il corso d’acqua cristallina erano da sempre il ritrovo estivo di gente della zona nelle giornate calde e soleggiate.

Forse non è proprio questo il modo in cui trascorrono il loro tempo libero i ragazzi d’oggi, ma sicuramente è molto diverso da quello di una volta. Non è che non mi piacciano i divertimenti d’oggi, ma considero più belli i passatempi di una volta. Nella loro semplicità avevano qualcosa di particolare, ci si accontentava di quel poco che si aveva, si poteva essere se stessi senza cercare di apparire diversi da quello che si era veramente. Nel passato le macchine erano molto rare, lo stile di vita era completamente diverso. Si conoscevano quasi tutti gli abitanti del luogo e nel proprio paese ci si sentiva come una grande famiglia.

Non so, forse mi piacerebbe vivere in un luogo del genere, ma alla fine credo che le condizioni di vita erano comunque più difficili, anche se rispetto ad oggi era più facile trovare un lavoro vista la presenza di tante fabbriche sia nel paese che in quelli limitrofi. Meglio una volta o meglio oggi questo paese? Chi lo può dire? Forse ognuno di noi è portato a valorizzare e dare più importanza alle cose passate, a credere che “era meglio una volta”, io credo che ogni cosa abbia un suo tempo, non meglio o peggio, solo penso che la conoscenza delle cose trascorse non debba essere perduta perché anche se non torneranno più, un insegnamento per affrontare meglio il futuro possono sempre darcelo. Il tempo passa e modifica uomini e cose, solo i ricordi restano sempre come li abbiamo avuti. Quelli più forti, specialmente se felici, non possono svanire, non se ne sono andati.

Gianni Cordola

La contrada dei Fiori
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La chiesa di Laietto

Laietto nei tempi antichi era sede di una cappellania e faceva parte della Parrocchia di San Saturnino in Mocchie; fu eretta a Parrocchia nel giugno 1829. I patroni sono i Santi Vito, Modesto e Crescenzia. Il territorio fu scorporato dalla Parrocchia di Mocchie a causa della distanza delle borgate della valle del Sessi dalla Chiesa, per cui il parroco di Mocchie non poteva intervenire con sollecitudine nella regione di Laietto e i bambini morivano senza battesimo, i malati senza i conforti religiosi e l’istruzione religiosa trascurata. La Parrocchia comprende le borgate di Pratobotrile, Coindo inferiore e superiore, Sigliodo inferiore e superiore, Camporossetto, Chiandone, Muni, Mianda, Brera, Breri, Cascina e Vagera.

La chiesa esistente era piccola, del tutto insufficiente ad accogliere anche solo parte della popolazione. Con la nomina di Don Rolando a parroco di Laietto iniziò la costruzione della nuova chiesa al posto della preesistente cappella: il rustico venne completato nel 1838 e le rifiniture nel 1845. Don Michele Pettigiani parroco di Condove ma originario del Laietto costruì a sue spese la nuova casa parrocchiale e alla sua morte lasciò una rendita annua in favore della parrocchia.

La chiesa nuova consiste di una navata unica, terminante nell’abside dell’altare maggiore, con due cappelle laterali. La cappella di sinistra è dedicata alla Beata Vergine del Rosario mentre quella di destra a San Giuseppe e Sant’Antonio. Sopra l’altare maggiore un quadro rappresenta il martire San Vito assiso in cielo ai piedi della Beata Vergine Maria, coi Santi Modesto e Crescenzia alle sue spalle e in basso San Carlo Borromeo. Dietro l’altare vi è una mensola con sopra una teca in vetro e legno dorato contenente le reliquie di un San Modesto inserite in una statua.

Attualmente la processione annuale viene effettuata con la statua del patrono San Vito, statua donata da Riccardo Cinato di Laietto prima di partire militare per la seconda guerra mondiale. Il confessionale e il pulpito soprastante vennero costruiti nel 1848 dai fratelli Cinato Battista e Domenico di Novaretto. Presso l’ingresso è sistemato il battistero e tramite una scala si raggiunge la tribuna della cantoria. L’armonium venne acquistato nel 1896.

La facciata ha un finestrone al centro per illuminare l’interno ed è ornata da due meridiane una solare ed una lunare. Al centro della piazza antistante la chiesa esisteva fino agli anni 50 una grande croce in calcestruzzo eretta nell’anno 1927 in sostituzione della precedente di legno. Il campanile venne costruito negli anni 1871-1872 da Col Stefano di Mocchie durante il priorato di Don Giuseppe Vinassa. Le tre campane sono dell’anno 1875.

La Parrocchia di Laietto ha nel suo territorio cinque cappelle:

  • San Bernardo nel cimitero di Laietto
  • Santo Stefano al Sigliodo
  • San Martino a Camporossetto
  • Beata Vergine Immacolata a Pratobotrile
  • Beata Vergine degli Angeli al Collombardo
La chiesa di Laietto
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La Sacra San Michele nel 1825

Tratto integralmente da: DESCRIZIONE DEI SANTUARII DEL PIEMONTE PIÙ DISTINTI PER L’ANTICHITÀ DELLA LORO VENERAZIONE E PER LA SONTUOSITÀ DEI LORO EDIFIZII – OPERA ADORNA DELLE VEDUTE PITTORESCHE DI OGNI SANTUARIO, DEDICATA ALLA S. R. M. CARLO FELICE RE DI SARDEGNA

VOLUME PRIMO – TORINO MDCCCXXV – PRESSO LI F. REYCEND E COMPAGNIA LIBRAI DI S.S.R.M.

SACRA DI SAN MICHELE DELLA CHIUSA PRESSO AVIGLIANA

Come raccontano gli Storici, volgendo l’anno novecento sessantasei, mentre la città di Torino si manteneva sotto la tutela di Geronimo Manfredi, Marchese di Susa, un certo Ugone Marino, altrimenti detto lo Sdrucito, uno dei primi personaggi dell’Alvernia e Signore di Montebucchero, ebbe a dare incominciamento ad un’Abadia, che poi divenne celebre fra le quattro principali dell’ordine di San Benedetto. Il quale Cenobio, tra per le sante virtù de’ Monaci ivi stati raccolti, tra per l’erto del sito dove fu collocato e per la struttura singolare delle sue fabbriche, in ogni tempo fu l’oggetto della venerazione ed ammirazione de popoli.

Vuolsi che questo nobil uomo, l’uno degli antenati del venerabile Pietro Eremita, di cui ne cantò Torquato Tasso, fosse andato a Roma per visitare i Santi Luoghi, ed ottenere la remissione di un suo reato; che perciò, di ritorno da quella Città, giunto in Susa, si abbia proposto di compiere i suoi voti con mandare ad effetto l’edificazione di un Monastero; ed abbia a tal uopo scelto il monte Pirchiriano, siccome ottimamente piramidato, e la cui vetta signoreggiava quell’amena Valle.

Difatti quel luogo sembrava acconcio a chiunque, sollevandosi dalle cose terrene, bramasse volgersi alla vita contemplativa; ed avvegnachè ivi già fosse stata consegrata una Cappella all’Arcangelo San Michele; così un mattino, Ugone ed Isengarda sua moglie partiti da Susa vi si recarono, e riconosciuta l’opportunità del sito, discesero in Avigliana dove, accolti dal Marchese d’Ivrea Arduino (poi Re d’Italia), fu convenuto di quanto si avesse a contribuire in oro, argento e cavalli, per ottenere la cessione de’ terreni e promuovere le cose necessarie a quell’impresa. E, fatto quindi i medesimi il loro viaggio in Francia, e ritornati in Piemonte, con grosse somme di danaro, fu incominciata l’opera, la quale fu condotta a termine in trentadue anni; molta parte avendovi presa lo stesso Marchese Arduino, anche per compiacere allo zelo del Vescovo di Torino, Anucco, come per aderire al desiderio manifestato, in prò di quella fondazione, da Papa Silvestro; senza tacere i lavori manuali fattivi attorno dal santo uomo, Giovanni Vincenzo già Arcivescovo di Ravenna, che, ritrattosi a vita romitica sul monte Caprasio verso il 996 , là poco distante, tempo ebbe ed agio per adoperarsi in quell’edifizio.

La consecrazione della Chiesa, nel 998, fu opera degli Angeli, come si ha dalle preci liturgiche che si recitano il 29 maggio, giorno di sua dedicazione; e ciò fu favorevole allo stabilimento della Badia, mentre in tal modo può dirsi essere stata fin d’allora sottratta alla giurisdizione del Vescovo Diocesano. Ma essa non era ancora condotta a quell’immenso corpo di fabbriche, come lo fu in appresso. Si trovava suo primo Abate un Monaco detto Avverto, il quale stavasi in Susa in casa dell’ospite d’Ugone Marino; e morto questi fra poco, fu suo successore un Francese nato in Tolosa, chiamato Benedetto il seniore, perchè dopo di lui, fu Abate il suo nipote chiamato Benedetto il juniore, entrambi chiari per santità di vita monastica, narrandosi che a que’ tempi molte nobili famiglie dessero a que’ santi Monaci i loro figliuoli in educazione, come si pratica tuttodì ne’ Collegii; onde il monistero si trovava frequentatissimo da’ forestieri, essendovi stati accolti Sant’Anselmo d’Aosta poi Vescovo di Cantorbery, San Guglielmo Abate di Fruttuaria, ed il monaco Ildebrando, innalzato al Papato col nome di Gregorio VII. Sorti poscia i Conti di Moriana e di Savoja, verso que giorni, e chiamati al Regime Sovrano di questi Stati, essi ebbero a fare alla nascente Abbadia ricchissime donazioni; e molte conessioni vi fecero pure, ed accordaronvi privilegi, i Pontefici, Imperatori, Re, Principi, ed altri prelati e signori, in guisa che nel 1202, soggiacevano ai suoi Abati più di cento e quaranta altre Chiese, di cui buona parte in Francia e in Italia; e quegli Abati esercivano diritti di autorità temporale e spirituale sui Borghi della Chiusa, Sant’Ambrogio, Giaveno, ec.; e furono i monaci colà convenuti i primi a diradare le tenebre di queste contrade, trovandosi in numero grande, giacchè si narra che dodici muli andassero, ed altri ne venissero sempre da Susa, onde procacciare le vittovaglie.

Ma col volger dei secoli, discostandosi quell’Instituto dall’antica osservanza, invano Sisto V tentò di metterlo sotto la dependenza della Congregazione di Monte Cassino, come di sottoporlo alla riforma di Santa Giustina. Ridotto il Convento, nel secolo decimosettimo, a soli tre Monaci, Gregorio XV, ad istanza del Serenissimo Duca di Savoja, ne ordinò la soppressione, applicandone parte dei redditi alla fondazione della Collegiata di San Lorenzo in Giaveno. Così le fabbriche della Badia, già d’allora manomesse dal tempo, caddero in rovina dappoi; ma ne rimase in piedi la Chiesa con parte dell’edifizio principale, che, per l’aspetto laterale d’una vecchia torre, la vaghezza d’una galleria, l’altezza de’ muri, e l’ampio girare delle scale, si offre qual monumento sacro e guerresco da sorprendere i forestieri. Salito il monte alto e dirupato, però non senza qualche bellezza di cespugli e di acque, e trapassate le rovine di una Cappella detta dei morti, antica sepoltura dei Monaci, per via di lunghe gradinate si giunge alla porta d’ingresso, che mette capo ad un vestibolo il quale tutto rassomiglia all’entrata d’una fortezza, là posta per guardia del passo; quindi per cento e trentacinque altri scalini, di mirabil grandezza, con ispazioso andirivieno coperto, si ascende alla porta della Chiesa, che s’innalza al di sopra; e con tanta maestria e solidità di architettura , che, mentre le masse esteriori corrispondono all’elevazione dell’ edifizio, la rocca che termina in punta del monte, serve d’appoggio e come di anima interna a tutta la fabbrica, e se ne scorge ancora l’estrema cima accanto al volto della Chiesa, cui stà addossato il tetto della medesima. Salendo le scale interne il passaggero trovasi come atterrito alla vista di alcuni scheletri, che, tratti dalle catacombe de’ monaci, furono colà rizzati lungo il muro, ed addobbati nelle più strane foggie; opera di qualche Pellegrino venuto negli ultimi tempi al Santuario. Ma l’aspetto delle cose superiori ritrae bentosto l’animo da quegli oggetti di destruzione.

La Chiesa nel suo interno, di forma come dicesi gotica semplice, senz’aver nulla di rimarchevole, pare tuttavia magnifica e venerabile a segno, che dagli abitanti di quel luogo stimasi fabbricata dagli Angeli. A rincontro de’ pilastri si vedono colonne torse con fogliami e capitelli affatto singolari. Sull’ingresso, al di dentro, si scorgono i dodici segni del zodiaco; e il corpo della Chiesa è situato in maniera, che i devoti pregando stanno cogli occhi volti all’oriente. Fra gli ornati moreschi si osservano delle lettere carlovingie, con alcuni frammenti di motti in versi, che non è più dato di leggere. Il volto della nave di mezzo è romano, fatto a cilindro; quelli delle navi laterali sono dei terzi acuti, in arresto.

Fra i quadri antichi, in numero di tre, uno ne pare di buona mano, ma assai minuto, rappresentante la Madonna sedente sovr’una Cattedra, con varii Santi attorno; gli altri due non hanno altro pregio fuori quello del tempo. L’incona di S. Michele Arcangelo, come i pochi altri quadri moderni, sono affatto mediocri. Rimarchevole è il Mausoleo del Conte Tommaso III di Savoia, sepolto nell’Abbadia, perché suo benefattore avendole dato il pedaggio del pesce; morto nel 1282. Il Principe vestito da Monaco è disteso su di un sarcofago, cui sovrastavano quattro colonne di cattivo disegno, destinate a sostenere una piramide massiccia che, qual baldacchino, sovrasta al monumento. Sopra un pilastro, vicino all’altar maggiore, in un dipinto a fresco, si scorge il ritratto, come dicesi, di donna Isengarda, moglie del Fondatore. Nell’ingresso della Chiesa, su di una lapide grande, si legge l’epitaffio del Cardinale Sebastiano Guido Ferrero, Patrizio Biellese, stato allevato in Bologna, Vescovo di Vercelli e poi Cardinale; dotto Scrittore di diritto canonico, intervenuto al Sacro Concilio di Trento, Abate di San Michele della Chiusa, e morto in Roma.

Le suppellettili della Chiesa sono di poco riguardo, se si eccettuano un legno di Santa Croce, di lunghezza due oncie, ed un calice d’argento, di cui, sulla coppa veggonsi in basso rilievo le nozze di Cana in Galilea, e sul piede la moltiplicazione de’ pani e de’ pesci; lavori di un qualche pregio. L’altezza della Sacra di San Michele, misurata dal Saussure, fu trovata di 450 tese, al dissopra del livello del mare.

Intanto pare cosa degna sia tenuto conto dello zelo del padre Bruno Certosino, che, raccoltosi a questo antico Santuario, dopo la soppressione della Certosa di Collegno, lo è andato ristaurando con opere ed anche con ispese di proprio danaro; intento com’egli è a servire decorosamente la Chiesa, ad ammaestrare i Fedeli che vi accorrono, e ad accogliere con isquisita urbanità i forestieri. Al suo alloggio si giunge per una scala posta a manca di quella della Chiesa. Nelle sue camere si scorge un bel quadro dell’Olivieri, e due ne sono del Rapous. Oltre ciò viene mostrato ai forestieri un bastone pastorale, di un antico Abate, stato ritrovato nelle tombe, pei tre quarti, impietrito.

La Sacra di San Michele della Chiusa, dove giorno e notte salmeggiavasi con coro perenne, fu eretta anzi ridotta in Commenda, fino dal 1381, e fu mantenuta quale Abazia, immediata, cioè nullius dioecesis, dopo la soppressione del Monastero ; essa conta fra i suoi Abati persone di alto grado, fra le quali, il Cardinale Maurizio di Savoja, Antonio di Savoja, e l’invitto Principe Eugenio, che nel 1699, per opera del suo Vicario generale, il Canonico Caroccio, tenne in Giaveno il suo Sinodo; le cui Costituzioni appajono pubblicate in Torino dal Zappata, Stampatore abaziale. Dell’inclita Abazia è titolare in oggi l’Abate Don Cesare Garretti di Ferrere, Torinese, Presidente della Congregazione di Soperga, Limosiniere di S. M., e Maestro di Cerimonie dell’Ordine Supremo della SS. Nunziata,


La Sacra di San Michele della Chiusa, presso Avigliana (Incisione di Giacomo Arghinenti, su disegno dal vero di Marco Nicolosino), tratta da: “Descrizione dei Santuarii del Piemonte più distinti, per l’Antichità della loro Venerazione e per la Sontuosità dei loro Edifizii. Opera adorna delle vedute pittoresche di ogni Santuario, diligentemente colorite, dedicata alla S.R.M. di Carlo Felice, Re di Sardegna”. Torino MDCCCXXII, Presso li F. Reycend e Compagnia, Librai di S.S.R.M.].

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Padre cappuccino Placido Bacco

Il Padre Placido Bacco cappuccino nacque in Giaveno il 18 aprile 1808 e morì in Torino il 19 maggio 1879, (tumulato nel convento dei frati cappuccini Madonna di Campagna di Torino distrutto durante il bombardamento dell’8 dicembre 1942 e ricostruito nel 1949).

Per circa 40 anni si dedicò con perseveranza e tenacia allo studio della storia di Avigliana e Susa. Fu un protagonista delle antichità valligiane, pur disponendo di pochi mezzi, li impiegò tutti a beneficio dell’archeologia di cui era appassionato; percorse la valle di Susa, cercò e rinvenne oggetti che erano stati per secoli sepolti, restituendoli alla luce. Non era considerato un esperto di antichità né tanto meno un epigrafista, ma un solerte e sincero raccoglitore di pezzi antichi, geloso delle proprie scoperte e troppo convinto della propria cultura.

“Sin dalla più tenera età spinto mi sentii ad erudirmi del nostro bel Piemonte, segnatamente della parte più occidentale: nel divisarne la storia facevo tempo alle tradizioni conformandole ai documenti e ai monumenti che per lo spazio di anni Quaranta circa andava discoprendo a destra e a sinistra della Dora da Avigliana alle cime di Susa”, così scriveva il cappuccino nell’introduzione di un manoscritto conservato presso la Biblioteca Civica di Susa, importante per il ricco corredo di immagini che presenta.

In Malano regione di Avigliana a partire dal 1858 il cappuccino Placido Bacco individuò il sito di “ad Fines Cotii” ovvero “ai confini di Cozio”, la stazione dove veniva riscossa la “Quadragesima Galliarum”, lavorò in solitudine scavando l’ampio recinto del tempio delle Dee Matrone portando alla luce alcuni dei più significativi reperti scultorei ed epigrafici della romanità piemontese: dal cippo di Acestes, dove le Matrone danzano, le braccia allacciate in catena, al bassorilievo del prigioniero, dalle ceramiche ai vetri colorati e alle anse, alle fibule, alle borchie in bronzo, alle monete d’oro e di rame.

Gran parte delle sue preziose scoperte sono custodite nel Museo Archeologico di Torino e Museo di Susa nel Castello della Contessa Adelaide.

Insigni personaggi, archeologi, amatori e protettori delle scienze, lo incoraggiarono e lo coadiuvarono nelle sue ricerche archeologiche. Fra costoro il Conte Valperga di Masino, il Comm. Filippo Galvagno, l’illustre geologo Prof. Bartolomeo Gastaldi, S. E. il Conte Federico Sclopis, ed infine la Società di Archeologia di Torino.

I risultati della passione di padre Bacco per le antichità della Valle di Susa, trasferiti in centinaia e centinaia di pagine manoscritte, costituiscono una documentazione di prima mano perché presentano il valore d’una testimonianza diretta ed unica pur se redatti mescolando alla scienza anche un po’ di fantasia con l’aggiunta di qualche infelice interpretazione storica. Sono conservati nella Biblioteca di Susa questi manoscritti:

  • Avigliana – Santuario, Dissertazione, Miscellanea: contenente 387 facciate scritte in foglio, dell’anno 1864
  •  Avigliana ed il Regio Santuario: opera critico-storica contenente 476 facciate in foglio, dell’anno 1865
  •  Avigliana ed il Regio Santuario: opera critico-storica contenente 438 facciate in foglio, dell’anno 1868
  •  Cenni storici su Avigliana e Susa: contenente 266 facciate scritte, dell’anno 1876, in cui c’è la storia e stemmi di 74 famiglie Segusine e 408 Aviglianesi

La direzione della Biblioteca civica di Susa comprò dagli eredi parte dei suoi manoscritti, e deliberò nella seduta del 25 maggio 1879 di iscrivere nell’albo dei benemeriti il nome di Padre Placido Bacco, per dare una testimonianza di riconoscenza a chi nel silenzio della sua umile cella tanto aveva fatto per illustrare la storia della valle di Susa.

Gianni Cordola

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I balli francoprovenzali

Il francoprovenzale è una lingua e una cultura diffusa su un vasto territorio a cavallo dell’arco alpino occidentale, che interessa tre Stati, l’Italia, la Francia e la Svizzera.
L’area francoprovenzale piemontese è prettamente alpina ed è caratterizzata da un valico di importanza storica come il Moncenisio, che, insieme ad altri colli, ha avuto un ruolo fondamentale nella vita e nella cultura delle popolazioni locali; si pensi ai pellegrinaggi religiosi, al commercio, al contrabbando, all’emigrazione stagionale, e così via.

In Piemonte sono francoprovenzali la maggior parte delle valli della provincia di Torino: Val Sangone, media e bassa Val di Susa,Val Cenischia, Valle di Viù, Val d’Ala, Val Grande di Lanzo, Valli Orco e Soana e la Val Chiusella. Esse sono uno scrigno pieno di tesori con le musiche e le danze tradizionali un tempo molto diffuse e oggi tornate vive grazie alla passione di gruppi folk. Ancora oggi, le diverse popolazioni sentono e vivono fra loro profondi legami, proprio come testimonia la matrice linguistica e culturale rimasta comune, mantenendo i costumi tradizionali, le feste, la musica e il ballo.

I balli francoprovenzali mantengono non solo la tradizione musicale ma anche la conservazione di questa antica cultura, essi uniscono magicamente i partecipanti e il ritrovarsi diventa un momento gioioso e coinvolgente. Inoltre il ballo è un momento di vita sociale che vede protagonisti senza discriminazione persone di tutte le età e di ceto sociale diverso. Vi sono danze di coppia e di gruppo che provengono da un’antichissima tradizione, esse ancora oggi sono ballate in tutte le feste popolari del Piemonte.

La coureunta francoprovenzale

La coureunta delle valli francoprovenzali Piemontesi è una danza molto conosciuta e diffusa anche fuori dai confini territoriali, numerosissimi gruppi suonano queste danze alle quali partecipano sempre numerosi ballerini. La danza ha innumerevoli versioni, una per ogni singola valle che differiscono per i passi e per la durata delle parti.

La coureunta è una danza eseguita da coppie che si dispongono in cerchio, gli uomini all’interno, le donne all’esterno con il braccio sinistro sulla schiena del compagno che le tiene col braccio destro per la vita. Si comincia con una passeggiata (andé a spass), ci si ferma le coppie si girano di fronte tenendosi per le mani e fanno un balletto col passo tipico della valle (balé), poi dei giri (vir), di nuovo ign balé e ign vir, così da capo fino che la melodia cambia per il balèt dla fin, parte finale che chiude la danza dove i cavalieri fanno ign vir con tutte le dame del cerchio. Altre varianti prevedono la passeggiata prima in senso antiorario e poi in senso orario tipico delle danze eseguite in circolo.

La tèrhi francoprovenzale

Anche la tèrhi (che in lingua italiana significa treccia) è una danza ballata nelle valli francoprovenzali ma conosciuta anche nel repertorio del ballo folk. È molto vivace e, soprattutto quando i musicisti accelerano, genera un’allegra confusione. Viene danzata da tre coppie disposte in fila, una dietro l’altra, con gli uomini che portano le dame alla loro destra. La coppia di testa, unita con presa da valzer, parte per una galoppata (igna galoupà) verso il centro della sala (8 passi), ritorna al posto (8 passi), esegue ign balé, ign vir e alla fine di questo tenendosi per mano fa un ponte passando sopra le teste delle altre due coppie e portandosi in fondo alla fila. Tocca alla seconda coppia, che ora si ritrova davanti, fare igna galoupà, ritorno, ign balé, ign vir e portarsi in fondo. Quando anche la terza coppia esegue la sua parte e si è ristabilito l’ordine iniziale delle coppie inizia la seconda parte, la vera e propria tèrhi: le coppie compiono igna galoupà che segue una forma di otto intrecciandosi, cioè incrociando le altre coppie una volta a destra l’altra a sinistra. Alla fine della parte musicale della tèrhi la coppia che si ritrova in mezzo alla pista, nel punto più lontano da quello di partenza della danza, e fa ign balèt, ign vir e alla fine si riporta in fondo al gruppo che ricomposto nella posizione di partenza ed è pronto per ripetere un’altra volta le due parti.

Gli strumenti musicali francoprovenzali

Per trascinare i ballerini in un universo di danze occorrono strumenti musicali speciali: organetto, violino e la ghironda con l’aggiunta talvolta di antichi strumenti aerofoni a sacco come la zampogna, cornamusa o vari tipi di oboe, oggi tipici delle valli francoprovenzali e occitane, strumenti tutt’altro che facili da suonare. La fisarmonica diatonica, meglio conosciuta col nome di organetto, si può definire il padre della fisarmonica d’oggi. A mantice ma fornito di bottoni, suona contemporaneamente la melodia e l’accompagnamento; è impegnativo, anche se sicuramente piacevole. Altrettanto impegnativa la ghironda, che riesce in un attimo a creare un’ atmosfera veramente particolare, dal sapore medievale.

L’organetto o fisarmonica diatonica (l’armoni)

La fisarmonica diatonica è uno strumento musicale il cui suono è generato da un flusso d’aria prodotta da un mantice e provvisto di ance libere. L’ancia libera è una sottile linguetta di acciaio, fissata a un’estremità su una piastrina di ottone o alluminio forata in modo tale da consentire all’ancia di vibrare liberamente sotto il soffio dell’aria, producendo così il suono.

Le prime fisarmoniche diatoniche o organetti compaiono verso la seconda metà del XIX secolo. Sicuramente, in base a testimonianze orali alla fine dell’ottocento l’organetto è già uno strumento popolare, conosciuto un po’ in tutte le nostre valli. Una fisarmonica diatonica è caratterizzata da una tastiera melodica a bottoni, azionata dalla mano destra, nella quale le note sono ordinate per scale diatoniche. Nella parte destra, ci possono essere una o due file di tasti, considerate verticalmente. Numerose sono le testimonianze della presenza di organetti, normalmente a otto bassi e due file per la melodia.

La ghironda (la viòla)

È uno strumento musicale a corde di origini antichissime tuttora usato in molti paesi europei per l’esecuzione di musiche delle tradizioni popolari. Le corde sono poste in vibrazione dallo sfregamento del bordo di una ruota azionata per mezzo di una manovella, il bordo della ruota deve essere cosparso di pece, le corde invece sono fasciate con una minima quantita’ di cotone che migliora il suono ed evita allo stesso tempo di consumare eccessivamente le parti in sfregamento. Le corde vengono azionate da una tastiera i cui tasti scorrono in un’apposita struttura applicata al piano armonico e sono disposti su due file con i colori generalmente invertiti rispetto alla tastiera del pianoforte. L’aspetto piu’ difficoltoso dello strumento e’ dato dall’azionamento della “trompette”, ovvero di una corda non tastata che provoca il tipico ronzio ritmico a seconda del tempo e dalla velocita’ del brano eseguito, e che costringe il suonatore a sincronizzare le due mani con movimenti poco naturali e non riscontrabili nell’uso di nessun altro strumento musicale. La ghironda si tiene normalmente poggiata sulle gambe del suonatore, ma si puo’ suonare anche in piedi.

Gianni Cordola

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Suddivisione amministrativa degli stati sardi di terraferma (regno di Sardegna 1720-1861)

In età sabauda, la suddivisione amministrativa del Regno di Sardegna era articolata su diversi livelli amministrativi, la cui organizzazione e denominazione furono soggette a diverse modifiche nel corso del tempo: una particolare influenza sulla riorganizzazione della struttura amministrativa sardo-piemontese ebbe il modello francese adottato in epoca napoleonica, allorquando il Piemonte, il Nizzardo e la Savoia furono inglobati nell’Impero francese.

Il Piemonte sabaudo

Sin dal XVII secolo, il Piemonte era stato suddiviso in circoscrizioni dette Province. Tale sistema di ripartizione, poi, in conseguenza delle successive annessioni di nuovi territori, venne, gradualmente, esteso ai nuovi domini acquisiti dalla casa regnante (parte del Milanese, Genovesato, ecc.).

Il Primo Impero francese

A partire dal 1792, durante la Prima Repubblica francese e, poi, durante l’impero di Napoleone I, quando la Francia, in guerra contro tutti gli stati europei estese progressivamente il proprio territorio, le regioni annesse furono organizzate in dipartimenti ricalcanti il modello francese. Con l’avanzata napoleonica sul territorio italiano, furono creati diversi dipartimenti in cui furono ripartiti gli Stati Sardi: Dipartimento del Po (capoluogo Torino); della Dora (capoluogo Ivrea); della Stura (capoluogo Cuneo); di Marengo (capoluogo Alessandria); del Sesia (capoluogo Vercelli); dell’Agogna (capoluogo Novara); del Tanaro (capoluogo Asti); delle Alpi Marittime (capoluogo Nizza); del Monte Bianco (capoluogo Chambéry); del Lemano (capoluogo Ginevra).

Il modello francese era articolato su quattro livelli amministrativi: il Dipartimento, l’Arrondissement, il Cantone ed il Comune.

La restaurazione dopo la sconfitta di Napoleone

Con la Restaurazione, il Regno di Sardegna ebbe nella “Divisione” la sua massima compartimentazione amministrativa. La provvisoria sistemazione territoriale del Regno fu realizzata con l’editto di Vittorio Emanuele I del 7 ottobre 1814, poi rivisto con l’editto del 27 ottobre 1815 susseguente all’incorporazione della Liguria, mentre la riorganizzazione amministrativa definitiva fu sancita il 10 novembre 1818, quando venne stabilmente adottato un modello di compartimentazione basato su quello dell’Impero napoleonico e organizzato, sempre, su quattro livelli amministrativi: la Divisione corrispondente al Dipartimento francese e amministrata da un Governatore, la Provincia corrispondente all’Arrondissement, il Mandamento corrispondente al Cantone, ed il Comune.

Anche il frazionamento territoriale napoleonico fu in larga misura mantenuto:

  •  il Dipartimento del Po divenne la Divisione di Torino
  •  il Dipartimento della Dora divenne la Divisione di Aosta
  •  il Dipartimento della Stura divenne la Divisione di Cuneo
  •  il Dipartimento di Marengo divenne la Divisione di Alessandria
  •  il Dipartimento del Sesia ed il recuperato Dipartimento dell’Agogna formarono la Divisione di Novara
  •  il Dipartimento delle Alpi Marittime divenne la Divisione di Nizza
  •  il Dipartimento del Monte Bianco e la parte sabauda del Dipartimento del Lemano divennero la Divisione di Savoia

La Liguria, invece, andò a costituire la Divisione di Genova. Ciascuna divisione, si è detto, era, poi, strutturata in livelli amministrativi minori.

La Divisione di Savoia era formata da otto province: Savoia (capoluogo Chambéry), Alta Savoia (capoluogo L’Hôpital), Carouge (capoluogo San Giuliano), Chiablese (capoluogo Thonon), Faucigny (capoluogo Bonneville), Genevese (capoluogo Annecy) , Moriana (capoluogo San Giovanni in Moriana), Tarantasia (capoluogo Moûtiers)

La Divisione di Aosta constava di una sola provincia: Aosta

La Divisione di Torino fu organizzata su cinque province: Torino, Biella, Ivrea, Pinerolo e Susa

La Divisione di Cuneo si componeva di quattro province: Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo

La Divisione di Alessandria era composta da sei province: Alessandria, Acqui, Asti, Casale, Tortona e Voghera

La Divisione di Novara era composta da sei province: Novara, Lomellina (capoluogo Mortara), Ossola (capoluogo Domo d’Ossola), Pallanza, Valsesia (capoluogo Varallo) e Vercelli

La Divisione di Nizza nacque a seguito alla riorganizzazione, che fuse la Contea di Nizza con i territori di Sanremo e Oneglia, scorporati dalla Liguria; era composta da tre province: Nizza, Sanremo e Oneglia

La Divisione di Genova, erede, come Ducato di Genova, della vecchia Repubblica di Genova, con la riorganizzazione amministrativa, cedette Sanremo e Oneglia alla divisione di Nizza; era suddivisa in sette province: Genova, Albenga, Bobbio, Chiavari, Levante (capoluogo Spezia) , Novi e Savona

Le Divisioni del Regno Sardo nel 1839


La riforma amministrativa di Carlo Alberto

Il frazionamento territoriale fu riformato dagli editti di Carlo Alberto del 27 novembre 1847 e del 7 ottobre 1848, che si inserirono in due fondamentali eventi storici: la Fusione perfetta del 1847, che abolì amministrativamente i vecchi Stati del regno, riorganizzando il Paese in uno Stato unitario, e la concessione dello Statuto Albertino, che comportò una limitata rappresentanza oligarchica. Il nuovo ordinamento, con il citato Regio editto per l’Amministrazione dei Comuni e delle Provincie del 27 novembre 1847, espanse il sistema amministrativo piemontese a tutto il territorio sabaudo, concesse la personalità giuridica ai due enti superiori ed istituì consigli elettivi divisionali e provinciali.

Le dieci circoscrizioni esistenti venivano riorganizzate in undici divisioni: la divisione aostana, infatti, veniva abrogata ed unita a quella torinese, anche la divisione della Savoia veniva soppressa ed il suo territorio suddiviso in due nuove divisioni, infine, veniva istituita in Sardegna una terza divisione. Dal 1848, il Regno di terraferma risultò, dunque, composto dalla Divisione di Annecy, Chambéry, Torino, Novara, Alessandria, Cuneo, Nizza e Genova.

Divisione di Torino

Nel 1848, la Divisione di Torino assorbì il territorio della soppressa Divisione di Aosta e fu riorganizzata su sei province:

Provincia di Torino, divisa nei seguenti mandamenti: Barbania, Brusasco, Carignano, Carmagnola, Casalborgone, Caselle, Ceres, Chieri, Chivasso, Cirié, Corio, Fiano, Gassino Torinese, Lanzo, Moncalieri, Montanaro, Orbassano, Pianezza, Poirino, Riva, Rivara, Rivarolo, Rivoli, San Benigno, Sciolze, Stupinigi, Torino, Venaria Reale, Viù, Volpiano.

Provincia di Aosta, divisa nei seguenti mandamenti: Aosta, Châtillon, Donnas, Gignod, Morgex, Quart, Verrès.

Provincia di Biella, divisa nei seguenti mandamenti: Andorno, Biella, Bioglio, Candelo, Cavaglià, Cossato, Graglia, Masserano, Mongrando, Mosso Santa Maria, Salussola.

Provincia di Ivrea, divisa nei seguenti mandamenti: Agliè, Azeglio, Borgomasino, Caluso, Castellamonte, Cuorgnè, Ivrea, Lessolo, Locana, Pavone, Pont, San Giorgio, Settimo Vittone, Strambino, Vico, Vistrorio.

Provincia di Pinerolo, divisa nei seguenti mandamenti: Bricherasio, Buriasco, Cavour, Cumiana, Fenestrelle, Luserna, None, Pancalieri, Perosa, Perrero, Pinerolo, San Secondo, Torre Pellice, Vigone, Villafranca.

Provincia di Susa, divisa nei seguenti mandamenti: Almese, Avigliana, Bussoleno, Cesana, Condove, Giaveno, Oulx e Susa.

Composizione dei mandamenti della Provincia di Susa

Il mandamento di Condove si componeva di cinque Comuni, che sono: Condove, Chiavrie, Mocchie, Frassinere e Borgone.

Il mandamento di Bussoleno si componeva di nove Comuni: Bussoleno,S. Giorio, Villarfocchiardo, S. Antonino, Vayes, Foresto, Chianoc, Bruzolo e S. Didero.

Il mandamento di Avigliana si componeva di sei Comuni: Avigliana, Buttigliera di Susa, Reano, Trana, La Chiusa e S. Ambrogio.

Il mandamento di Susa si componeva di undici Comuni: Susa, Chiomonte, Exilles, Ferrera, Giaglione, Gravere, Mattie, Meana, Mompantero, Novalesa e Venaus.

Il mandamento di Almese si componeva di quattro Comuni: Almese, Rivera, Rubiana e Villar Almese.

Il mandamento di Oulx si componeva di nove Comuni: Oulx, Arnauds, Bardonecchia, Beaulard, Melezet, Millaures, Rochemolles, Salbertrand e Savoulx.

Il mandamento di Cesana si componeva di dodici Comuni: Cesana, Bousson, Champlas du Col, Clavieres, Desertes, Fenils, Mollieres, Rollieres, Sauze di Cesana, Sauze d’Oulx, Solomiac e Thures.

Il mandamento di Giaveno si componeva di tre Comuni: Giaveno, Coazze e Valgioie.

Province sabaude del 1859

Nel 1859, nel corso della seconda guerra di indipendenza, fu emanato il Decreto Rattazzi, che riorganizzò la struttura amministrativa dello stato sabaudo e rinominò le vecchie circoscrizioni secondo una terminologia, che, poi, sarà estesa al futuro Regno d’Italia. Nello specifico, venivano mantenuti i quattro livelli amministrativi, ma veniva in parte modificata la loro denominazione. Quindi, la Divisione divenne Provincia la vecchia Provincia divenne Circondario, mentre restarono invariati il Mandamento ed il Comune. La compartimentazione territoriale Albertina fu in gran parte mantenuta da re Vittorio Emanuele II. In base alla riforma, dunque, le nuove Province di terraferma erano otto: Nizza, Alessandria, Torino, Cuneo, Novara, Genova, Chambéry e Annecy.

La Provincia di Nizza si compose di tutte le vecchie province, ormai denominate circondari, appartenute alla Divisione di Nizza. Dopo la cessione alla Francia di gran parte del territorio nizzardo, ovvero del circondario di Nizza (eccettuate Briga e Tenda), ciò che restava della provincia (i circondari di Porto Maurizio e Sanremo) andò a formare la provincia di Porto Maurizio.

La Provincia di Alessandria ricomprese, come circondari, tutte le vecchie province della Divisione di Alessandria, perdendo il solo circondario di Voghera (passato alla provincia di Pavia, in seguito all’annessione della Lombardia), ma con l’aggiunta del circondario di Novi.

Nella Provincia di Torino entrarono a far parte, come circondari, tutte le vecchie province della Divisione di Torino, fatta eccezione per il circondario di Biella, aggregato alla nuova provincia di Novara.

Alla Provincia di Cuneo furono trasferite, come circondari, tutte le vecchie province della Divisione di Cuneo. Nel 1860, inoltre, a tale provincia (e, nello specifico, al circondario di Cuneo) furono aggregate Briga e Tenda, scorporate dal circondario di Nizza, ceduto alla Francia.

La Provincia di Novara si compose di tutti i circondari che, come vecchie province, erano stati parte della Divisione di Novara, con l’aggiunta del circondario di Biella e con l’esclusione del circondario della Lomellina, che fu aggregato alla provincia di Pavia.

Nella Provincia di Genova confluirono, come circondari, tutte le vecchie province della Divisione di Genova, tranne i circondari di Novi (passato alla provincia di Alessandria) e Bobbio (aggregato alla provincia di Pavia).

La Provincia di Chambéry, dopo il trattato di Torino, fu ceduta alla Francia. Il suo territorio andò a formare il Dipartimento della Savoia.

La Provincia di Annecy, dopo il trattato di Torino, fu ceduta alla Francia, formando, così, il Dipartimento dell’Alta Savoia.

Bibliografia: Corografia fisica, storica statistica degli stati sardi italiani di terraferma 1837

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Dazio e daziere

Il dazio o gabella

Dazio, la parola deriva dal latino e l’istituzione è altrettanto antica. Si possono ritrovare esempi di dazi fin dai tempi più antichi: in epoca romana servivano soprattutto a fornire i fondi alle casse delle città, prima fra tutte la capitale. In epoca medioevale ai tempi in cui le città erano murate e le porte della città venivano chiuse di notte, lungo le vie di accesso si trovava il casello del dazio e chiunque “dal sorgere del sole al calare del sole” volesse introdurre merci in città pagava il dazio.

Tristemente famosa era la gabella sul sale che arrivava nel Basso Piemonte dalla Provenza: troviamo attestazioni di questo commercio sin dal XII secolo, lungo la via del sale. Si narra che in tempi remoti i commercianti di sale, di ritorno dalle saline ubicate in Provenza ed essendo oberati da alti dazi sul sale, usavano coprire l’ultima parte della botte, riempita di sale, con le acciughe, in modo da sfuggire agli occhi dei gabellieri, un espediente per evitare di pagare i dazi doganali, altissimi su questo prodotto e più bassi sul pesce. La guerra ai contrabbandieri del sale ha infiammato per secoli i sentieri fra il Ducato di Savoia e gli Stati confinanti.

L’usanza dei dazi continuò per secoli e dopo l’unità d’Italia, fu ufficializzata con  legge n. 1827 del 3 luglio 1864.

Era un’imposta per finanziare i comuni e di conseguenza le grandi città eressero una cinta daziaria per controllare il passaggio delle merci. Si pagava dazio sul vino, sui liquori e sulle carni. Poi, dopo la grande guerra, venne estesa a una vasta gamma di generi di consumo: olio, profumo, scarpe, tessuti, materiali da costruzione. Dal 1931 la parola dazio fu abolita, ma il pagamento rimase con il nome di Imposta Comunale di Consumo e le imposte venivano incassate direttamente dai comuni. Nel 1972 l’imposta di consumo fu eliminata con l’istituzione dell’IVA, che dura ancora oggi.

La cinta daziaria di Torino

La città di Torino era stata privata delle sue mura in età napoleonica in base all’editto del 23 giugno 1800, pochi giorni dopo la battaglia di Marengo.

Nel 1853 venne decisa la costruzione della cinta daziaria per motivi fiscali in base allo Statuto Albertino del 1848, che concedeva la possibilità alle città di riscuotere dazi. Il muro alto più di due metri fu costruito dal 1853 al 1858 aveva un perimetro di 16,5 km e includeva l’area compresa fra la Cittadella, l’attuale Cimitero Generale e San Salvario (dove c’era un forte problema di contrabbando, che si voleva debellare). All’interno del muro e lungo di esso correva una strada per tutta la sua lunghezza e così pure una seconda strada all’esterno del muro. La cinta aveva due caselli di controllo lungo le ferrovie (verso Genova e verso Susa), oltre a quelli di Nizza, Stupinigi, Orbassano, Crocetta, San Paolo, Foro boario, Francia, Martinetto, Lanzo, Milano, Abbadia di Stura, Regio Parco, Vanchiglia, Casale, Villa della Regina, Piacenza, Ponte Isabella, che permettevano l’accesso alla città e a queste barriere si riscuoteva il dazio.

La cinta daziaria del 1853 in una mappa di Torino del 1896

La presenza della cinta daziaria condizionò lo sviluppo urbanistico di Torino, tra il XIX e il XX secolo. Per non pagare il dazio, infatti, molte attività industriali si insediarono nei pressi delle barriere, così come fecero molti artigiani e molti operai, per i quali era più economico vivere fuori dalla cinta daziaria. La conseguenza fu che intorno alle barriere nacquero veri e propri quartieri, che ancora oggi portano nel proprio nome il ricordo della cinta (basti pensare alla Barriera di Milano, nata intorno, per l’appunto, alla barriera sulla strada che arrivava da Milano); spesso questi nuovi borghi ebbero uno sviluppo urbanistico disordinato, dimenticando l’antica pianta ortogonale che caratterizzava il centro cittadino. E non solo, il continuo aumento della popolazione intorno alle barriere, per evitare il pagamento del dazio, preoccupò le autorità cittadine, sia per lo sviluppo vertiginoso e incontrollato dei nuovi quartieri, sia, evidentemente, per le mancate entrate fiscali.

La cinta venne abbattuta quando Torino decise, nel 1912, di dotarsi di una cinta più ampia in seguito allo sviluppo della città. Lungo il percorso della cinta sono sorti alcuni dei corsi principali della Torino di oggi: corsi Bramante, Lepanto, Pascoli, Ferrucci, Tassoni, Svizzera, Mortara, Vigevano, Novara e Tortona.

La nuova cinta daziaria del 1912 mai completata

Nel 1912 in seguito all’espansione della città e a un piano regolatore del 1906 venne progettata e non del tutto costruita una nuova cinta daziaria, più esterna e molto più ampia della precedente, per includere le attività economiche nate nel frattempo sul territorio cittadino. La nuova cinta correva lungo quelli che oggi sono le vie Vigliani, Reni, Maria Mazzarello, De Sanctis, Cossa, Sansovino, Veronese, Botticelli ma non fu mai completata. Furono però edificate le barriere in quelle che adesso sono le piazze Bengasi, Massaua, Rebaudengo e Stampalia. Le barriere d’ingresso a Torino funzionarono fino agli anni 60 del XX secolo, molti dei torinesi più anziani le ricordano ancora.

Nel 1930, durante il periodo fascista, vennero aboliti i dazi e quindi anche questa cinta non ebbe più motivo di esistere. Anche se poi, caduto il regime, i dazi furono ripristinati e la loro abolizione ebbe luogo solo nel 1972.

Chi era il daziere o gabelliere

Era l’esattore del Dazio una tassazione particolarmente invisa al popolo. Il Dazio andava applicato al penultimo passaggio, quello tra grossista e dettagliante su di una marea di prodotti: dalle cucine a gas o a legna al ferro da stiro in ghisa, dai mobili di casa ai prosciutti e ai salumi, ed altri mille oggetti e mercanzie.

La procedura prevedeva che ogni commerciante che riceveva la merce avvisasse immediatamente (mi pare entro un massimo di 30 minuti) il Daziere, che di solito abitava in paese. Lui veniva, apponeva un sigillo che poteva essere un piombino chiuso su di uno spago che rimaneva allegato alla merce oppure se del caso con un timbro circolare. Naturalmente c’era da pagare e questo andava a caricare il prezzo di vendita.

Il Daziere poteva sanzionare chi non “metteva il dazio” con contravvenzioni piuttosto pesanti, ma lo stesso poteva fare se lui scopriva di esse stato chiamato in ritardo.
Con queste premesse si capisce perché il Daziere non fosse amato, anzi era poco simpatico praticamente a tutti, o quasi. Sicuramente temuto. Tentare di fregarlo era più uno sport che una vera e propria voglia di evadere.

La pesa pubblica di Condove

Era un meccanismo di grande precisione. Al vederla sembrava un pezzo di strada formato da una lastra di acciaio rigato perfettamente in piano. Ci salivi sopra con un camion di qualche tonnellata e lo pesavi. Poi passavi a consegnare anche solo un barattolo da 10 kg e, quando ci salivi sopra di nuovo, ti dava il nuovo peso preciso al chilo.

Indispensabile quando il dazio si pagava a peso perché stabiliva in modo ufficiale il netto dedotto della tara. Era utilizzata anche dai privati quando dovevano vendere un carro di fieno o di legna o un carico di pietre, ecc.

Sotto la piattaforma in acciaio c’era una fossa tutta foderata di cemento armato dove venivano posate una serie di leve e contrappesi lavorati con precisione. Il tutto era collegato, fuori terra, con una bilancia a leve.

La perfezione del meccanismo era tale da restituire il peso con alta precisione. Le pese pubbliche, in più, avevano la possibilità di stampare il peso inserendo un cartoncino dove veniva impressa a rilievo la data e il peso che acquisivano un carattere ufficiale e non contestabile.

A Condove negli anni ’60 l’ufficio del dazio era in Viale Bauchiero. C’era un daziere o gabelliere, un pubblico ufficiale incaricato della riscossione delle gabelle o tasse indirette. In realtà era una figura a metà fra l’ufficiale pubblico e un libero professionista, concessionario in proprio, in quanto una percentuale dei proventi derivanti dalla riscossione delle imposte gli era dovuta.

La pesa era accanto l’ala grande del mercato in via Cesare Battisti. Accanto alla pesa un piccolo vano in muratura ospitava la stadera fuori terra e i documenti.

pesa pubblica e ala mercato di Condove

Nel 1972 il dazio fu sostituito dall’IVA, che dura ancora oggi. I dazieri andarono in pensione o trovarono altri impieghi. La pesa pubblica durò ancora poco, ormai il commercio di materiale sfuso diventava meno diffuso, le aziende avevano la loro pesa in stabilimento.

Gianni Cordola

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La balma o barma

     Una breve riflessione sull’origine del termine: balma ritorna in numerosi toponimi e in parlate romanze dell’arco alpino, la sua area di diffusione va dall’arco alpino occidentale fino alla Guascogna attraversando la Francia meridionale. Il toponimo sulle Alpi piemontesi ha valore di antro, grotta, riparo sotto roccia. Con questo significato vive tuttora nel Piemonte. Nei dialetti liguri occidentali invece troviamo la forma arma, grotta per riparo all’ombra degli animali nelle ore più calde del giorno. Nel francoprovenzale si registra il toponimo barma con significato oltre che di riparo sotto la roccia anche di alpeggio. In francese balme, mentre in occitano presenta il consueto passaggio al – au diventando baume, in tedesco balm con significato identico ai precedenti.
                                                               Riepilogando
Piemontese:             Balma = antro, grotta, riparo sotto roccia per animali
Francoprovenzale: Barma = antro, grotta, riparo sotto roccia, termine tecnico dell’alpeggio
Occitano:                  Baume = grotta, riparo sotto roccia
Ligure occidentale: Arma = grotta, riparo per meriggio degli animali sotto roccia
Francese:                  Balme

     Gli anfratti rocciosi e le pareti strapiombanti che in un tempo remoto ospitavano animali selvatici oggi per lo più scomparsi, divennero in un secondo tempo il ricovero dei primi abitatori delle montagne. Sono tipi particolari di grotte presenti in aree alpine e prealpine, solitamente dei massi erratici, che dopo il distacco dalla parete rocciosa, o trascinati durante i periodi delle glaciazioni, si fermavano presentandosi in una posizione che, con un po’ di lavoro da parte dell’uomo, permettevano di ottenere un ricovero.
     La barma consiste in un unico vano naturale o scavato sotto un grosso masso che funge da tetto e chiuso sui lati da uno o più muri a secco. Veniva utilizzato a bassa quota per il ricovero degli animali, del foraggio o della lettiera, a maggiore altezza si usa come ricovero di emergenza in caso di maltempo. Generalmente la barma è priva di porta, l’accesso è libero. Usate ancora oggi come riparo temporaneo di bestie e pastori, durante la seconda guerra mondiale sono servite anche da riparo ai partigiani. In certe zone di montagna i luoghi degli alpeggi hanno spesso una balma vicina, riutilizzata di anno in anno.
     Alcune balme sono diventate veri monumenti di architettura rurale come a Balma Boves nel comune di Sanfront al piede del Monbracco o come la barma detta Binò Alpelté, in località Binò, che fa parte del Walser Ecomuseum di Gressoney-La-Trinité.
     Numerosi toponimi della Alpi Occidentali hanno origine da questo termine nelle sue diverse varianti, quali ad esempio quello del comune di Balme o il Colle della Barma e la punta omonima (al confine tra il Biellese e la Valle d’Aosta), oppure il villaggio di Barmasc nel comune di Ayas.
     Un uso particolare della balma si ritrova in Valle d’Aosta: oltre che come riparo infatti si è sviluppato l’uso delle barme chiuse, che prendono il nome di barmet, cantine o stalle a seconda dell’uso al quale viene destinato il locale. Ogni anno si tiene a Villeneuve la Fiha di barmé, la festa dei barmé o barmet, che possono essere utilizzati anche per la viticultura, come deposito per l’acqua per preparare il verderame con cui irrorare i vigneti.

     Anche nella montagna di Condove sono presenti delle barme, la più conosciuta è senz’altro la Barmanera (Barmanèiri in francoprovenzale) cioè la barma nera, oscura, che si incontra salendo al Santuario del Collombardo.

La Barmanèiri

Non da meno è la Barma moulere, riparo sotto roccia della cava di pietre da macina che si trova ai confini tra Condove e Mocchie lungo la strada piana di Mocchie poco dopo il Salto dei Francesi, luogo di riposo dei cavatori che lavoravano nei pressi al taglio e al distacco delle pietre da macina. Barma del masso dei messi (Barma dou roch dij mess o dou diav), dove durante la seconda guerra mondiali gli abitanti della zona erano soliti utilizzarla come riparo durante i bombardamenti.
     Nel territorio del comune di Condove troviamo ancora: barma larun, barma caté, barma du fin, barma chouquin, barmafrèida, barmarata, barma chërlichèta, barma dla traita, barma ‘d trombëtta, la mineri dla barma, barma gnasiet, barma davì, barma dle masque, barma ëd canal, barma fru e tante altre di cui si è perso il nome.

Gianni Cordola

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Il mio ricordo della scuola

Ciascuno di noi ha ricordi indelebili della scuola. A scuola diventiamo grandi, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con i sogni e la realtà, immaginiamo le persone che vorremmo essere e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita.

Anno 1953 La domenica del corriere annuncia l’inizio dell’anno scolastico

La scuola ai miei tempi iniziava il primo di ottobre e terminava a giugno. Mi ricordo il primo giorno nel lontano 1953, ordinato, lavato e pettinato, con il grembiulino nero, colletto bianco e un gran fiocco azzurro. Ero già stato all’asilo eppure quel giorno, ero preoccupatissimo ma anche curioso di conoscere questo nuovo mondo, mi batteva forte il cuore e la mamma, che mi accompagnava, cercava di rassicurarmi: “A scòla mama a-i é pa, ma a-i é ël magìster; ti it fas con chiel l’istess coma se i fussa mi – A scuola mamma non c’è, ma c’è il maestro; quindi comportati con lui come se ci fossi io”. Non mi va di fare un confronto retorico su quanto sarebbe bello se i genitori anche oggi dicessero una cosa del genere ai propri figli, voglio solo ripercorrere la potenza intimidatoria di cui erano investite queste parole… E per me ogni insegnante, fu un’autorità a cui si doveva il massimo rispetto. Alla fine, andò tutto bene, ritrovai amichetti dell’asilo e un maestro buono e paterno.

Il giorno seguente, ero già molto più tranquillo. I genitori, allora, affidavano i loro bambini alla scuola con fiducia, si dava per scontato che gli insegnanti avessero sempre ragione e non ci fosse mai da discutere con loro per difendere i propri figli. Essi avevano delle certezze, la prima era che gli insegnanti avrebbero fatto il loro lavoro nel migliore dei modi e, oltre all’istruzione, avrebbero anche dato un’educazione ai loro ragazzi, ma la cosa che più li faceva stare tranquilli, era il fatto che i bambini, dentro alla scuola, erano al sicuro, controllati e in un edificio solido, dove non sarebbe mai crollato il soffitto o parte di esso! Oggi, non è più così, le scuole stanno cadendo a pezzi ma non riusciamo più a trovare i soldi per la manutenzione, nemmeno dopo che sono successi incidenti gravissimi, per fortuna, non a Condove.

Ho frequentato la scuola elementare di Condove che accoglieva tutti i bambini del paese. Era una scuola con un aspetto severo nella piazza principale dotata di grandi aule, di una palestra e di un cortile per le attività fisiche all’aperto: corsa, salto ed esercizi a corpo libero. Si accedeva a scuola nell’anno in cui si compiva il sesto compleanno.

Condove la scuola elementare

Le aule erano arredate con banchi da due posti con il calamaio in mezzo con l’inchiostro per scrivere e ogni volta che cadeva una goccia sui quaderni…aiuto…! Tanti rimproveri. La nostra salvezza era la carta assorbente. Il primo libro era il sussidiario, ma i metodi di studio erano ben diversi e non sempre adatti allo spirito dei bambini. A scuola si lavorava molto e spesso non si capiva bene ciò che il maestro voleva dire e allora erano guai… a casa dovevamo ricorrere ai genitori o ai parenti. Il primo insegnamento si basava sulle aste: cioè su segni che preparavano alla scrittura.

Non avevo lo zaino per i libri ma una borsa che si chiamava cartella, all’interno il sussidiario,la carta assorbente, l’astuccio in legno con le penne e i pennini, qualche matita colorata e un lapis nero, oltre a una o più gomme per cancellare, i quaderni erano più piccoli degli attuali, uno a righe ed uno a quadretti con la copertina nera ad effetto pelle di serpente. Si scriveva inizialmente con la matita e poi con un pennino che si bagnava con l’inchiostro.

Quaderni

C’era la lavagna con gessetto, cancellino e la cattedra. In quegli anni la lavagna non era appesa al muro, ma era posta su un supporto di legno e quando era completamente scritta da un lato, veniva ruotata sull’altro lato. Sui muri dell’aula c’erano tanti cartelloni con le lettere dell’alfabeto con a fianco l’immagine dell’oggetto la cui iniziale corrispondeva a quella lettera, oltre alla carta geografica d’Italia, la foto del Presidente della Repubblica e l’immancabile crocefisso.

Lavagna

Dopo aver imparato a leggere e scrivere in Italiano facevamo il dettato e i riassunti, di aritmetica facevamo la moltiplicazione, la divisione, la sottrazione e l’addizione; storia e geografia le studiavamo sul libro e il maestro ci risentiva quello che avevamo studiato a casa. L’anno scolastico era diviso in tre trimestri con voti per ogni materia alla fine di ognuno, i voti andavano da uno a dieci e al termine dell’anno scolastico si era promossi alla classe successiva o bocciati per ripetere l’anno. Era valutata anche la condotta ossia il comportamento in aula e fuori durante la ricreazione. Fino al 1958 si sosteneva un esame in terza elementare, si trattava di un esame vero e non di un pro forma e non era impossibile essere bocciati e dover ripetere la terza elementare anche se tutto quello che si chiedeva all’alunno era di saper leggere, scrivere e far di conto. Superato quello scoglio l’esame successivo era quello del quinto anno per ottenere la licenza elementare che permetteva di proseguire gli studi. Quando entrava il direttore o un insegnante, tutti ci alzavamo in piedi e dicevamo buon giorno. Le classi erano separate tra maschi e femmine, noi eravamo in 18 alunni, i più lontani provenivano dalle borgate Poisatto, Fucine e Ceretto. Le borgate di montagna avevano la loro scuola in loco.

Il percorso da casa mia, in contrada dei Fiori, alla scuola elementare non era lungo. Quando c’era neve la discesa dalle vie Francesco Re e Garibaldi, le ripide strade selciate che portavano alla piazza, era divertente perché permetteva di fare delle belle scivolate, con grande disappunto di molti, in quanto, passa e ripassa, in breve si formava una lastra di ghiaccio (che per la verità era proprio ciò che si voleva ottenere). Il divertimento era allora brutalmente interrotto dallo spargimento di sabbia, cenere o segatura. Partivamo dal borgo io, mio fratello Giorgio ed Ercole Borgis, che facevano la quarta elementare, l’anno successivo si aggiunsero Felice Midellino, Marisa Versino e Renata Reinaudo.

I ragazzi della contrada dei Fiori

Ricordo alcuni compagni di classe: Ravetto, Ferro, Midellino Piero, Cordola Luciano (il mio compagno di banco), Arrigoni Paolo, Zagner, Girardi Livio, Croce Giovanni, Soave, Cordola Bruno, Bonaudo Arturo, Borello Remigio, Lorigiola, Serrato, Listello Valter. All’uscita di scuola quasi sempre percorrevo via IV Novembre e Via Mazzini assieme a Lucianino che andava dalla nonna alle Fucine e Paolo che abitava vicino al rio della Rossa.

Il ricordo delle giornate di scuola mi rimase impresso a lungo negli anni seguenti, soprattutto per alcuni eventi inconsueti. Ad esempio, vigeva nella scuola la consuetudine dei castighi: non erano quelli corporali veri e propri, tipo bacchettate, già in quegli anni non più tanto di moda, ma consistevano in strane forme di punizione cosiddetta educativa ed esemplare: ho ben presente l’immagine di compagni discoli in castigo dietro alla lavagna oppure passare un periodo dietro la lavagna a scrivere molte volte la stessa frase o “penso”, oppure obbligati a scrivere sul quaderno ripetute volte il motivo del castigo.

Memorabile fu l’anno in cui con l’aiuto del nostro maestro Trovato ,costruimmo una mongolfiera (forse è più giusto dire un pallone aerostatico ad aria calda o lanterna) di carta dal diametro di circa tre metri, ed un pomeriggio sulla piazza del paese dando fuoco ad un panno imbevuto di alcool il pallone si alzò in volo. Grande fu la gioia di noi ragazzi nel vedere volare il pallone costruito da noi stessi con materiali poveri: canne di bambù, carta, colla e fil di ferro. Lo seguimmo per un tratto finché scomparve alla nostra vista verso la montagna. Per giorni aspettammo di ricevere una cartolina che avevamo attaccato ad esso per sapere dove fosse arrivato, ma niente, non abbiamo più saputo nulla, chissà dove era finito.

Pallone ad aria calda

Nell’ultimo anno di scuola ci fu un altro momento importante per noi: è stato quando abbiamo recitato un racconto con l’intervento di tecnici del terzo canale radio per la registrazione. Ognuno di noi aveva una parte nella recita e Lorigiola che aveva una bella voce cantava un allegro motivetto. Il tutto era stato diffuso in radio nel mese seguente.

Ricordo che ogni anno si celebrava la festa degli alberi, dove con i compagni di classe, esonerati da qualche ora di lezione, assieme al maestro, andavamo in corteo dalla scuola fino in Via Conte Verde sulle prime pendici dell’altura chiamata “La Mura” a mettere a dimora delle piantine di alberi forniteci dalla Forestale. Si cercava così di insegnare a noi bambini quanto era importante il bosco.

Nel periodo natalizio allestivamo in aula un piccolo presepe realizzato con ciò che avevamo a disposizione, ognuno di noi portava qualcosa ma tante volte casette e statuine erano di carta, ritagliate anche dai noi bambini. Le casette oltre che di carta erano fatte con pezzetti di legno o di paglia, usavamo la ghiaia per fare le strade e la carta blu dello zucchero per fare i ruscelli, era proprio una festa fare il presepe per noi bambini, poi si imparavano poesie sul Natale da recitare in casa la sera della vigilia.

Io non fui certo esente dai rimproveri, in particolare per la disciplina, era sufficiente che il maestro voltasse le spalle per lanciare palline di carta ai compagni oppure con la cerbottana costruita arrotolando la copertina di un vecchio quaderno far volare coni di carta lunghi e sottili fabbricati ad arte. Avevamo anche imparato a lanciare sassolini o chicchi di riso con un vecchio pennino fuori uso infilato nel banco di legno e usato come catapulta. Giochi non autorizzati e puniti dal maestro con rimproveri verbali o con la convocazione di un genitore ed allora erano guai seri.

Questi ricordi ed emozioni fanno parte di un grande dono che, oltre a consentirci momenti di piacevolezza nel rievocare, rappresentano un valido strumento di crescita attraverso l’osservazione di noi stessi consentendoci di mettere a confronto alcune nostre parti in un rapporto dinamico tra il prima e il dopo, tra il nostro passato e il nostro presente.

Gianni Cordola (gennaio 2020)

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Anno 1970 i lavoratori della Moncenisio dicono no alle armi

Il 24 settembre 1970 i lavoratori della Officine Moncenisio, azienda metalmeccanica operante in Condove paese della Valle di Susa, primi e forse unici nel mondo, ebbero la consapevolezza e la dignità di chiedere alla proprietà di non produrre più armi, strumenti di morte e distruzione per i popoli. L’iniziativa suscitò la solidarietà da parte di persone e movimenti in varie parti del mondo e stimolò altri lavoratori ad affrontare la questione della produzione di armi e della riconversione dell’industria bellica.

Le Officine Moncenisio nate nel 1906, occupavano nel 1970 circa 850 persone tra operai e impiegati e fabbricavano principalmente vagoni ferroviari per il Ministero dei Trasporti e macchine per la tessitura di calze. Però, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale le maestranze erano state impegnate a fondo nella fabbricazione di proiettili, bombe e soprattutto armi subacquee. L’industria Condovese era registrata negli elenchi dei fornitori della Marina Militare, la quale richiedeva ogni anno all’azienda gli elenchi dei giovani di leva per un eventuale arruolamento.

Officine Moncenisio di Condove

La mozione approvata dai lavoratori della fabbrica in assemblea generale segnava una importante presa di coscienza da parte della massa operaia. Era un documento unico nel suo genere in Italia.

Vediamo i contenuti principali del documento: “I lavoratori delle Officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili e che la pace è supremo interesse e massimo bene del genere umano…(omissis)… – diffidano – la Direzione della loro officina dall’assumere commesse di armi, proiettili, siluri o di altro materiale destinato alla preparazione o all’esercizio della violenza armata, di cui non possono e non vogliono farsi complici. – Avvertono – tempestivamente e lealmente le autorità aziendali di non essere pertanto in nessun caso disposti a lavorare, trasportare e collaudare i suddetti materiali bellici. – Esigono – dallo Stato e dal potere politico che il pubblico denaro, che è denaro dei lavoratori, sia investito nella costruzione e nella fabbricazione di cose utili ai loro interessi, richieste dalla loro dignità umana, rivendicate dal loro senso di giustizia e dal loro amore alla pace, di cui l’umanità ha estremo bisogno. – Chiedono – alle organizzazioni sindacali di appoggiare la loro strategia di pace, di propagandarla in Italia e, tramite le internazionali sindacali, fra i lavoratori di tutto il mondo; alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese ed organizzazioni religiose di voler rilevare ed appoggiare il contenuto religioso e morale della loro presa di coscienza”.

Come si era arrivati all’approvazione del documento pacifista? Il tutto era stato preparato a lungo, copie della mozione erano state fatte circolare mesi prima in tutti i reparti dell’azienda, in modo che ciascun lavoratore prendesse conoscenza e consapevolezza del problema. C’erano stati dibattiti, discussioni, incontri con il GVAN “gruppo valsusino di azione non violenta”, fondato da Achille Croce, Don Giuseppe Viglongo e altri, di cui alcuni componenti furono tra i primi obiettori di coscienza e il cui sacrificio doveva portare al riconoscimento del servizio civile come alternativa alla leva militare. I giovani della Moncenisio erano molto favorevoli all’iniziativa mentre gli anziani erano più propensi a soluzioni di compromesso per timore di perdere posti di lavoro, ma il documento fu approvato quasi all’unanimità. Da quel momento l’iniziativa fu fatta pervenire ad altre fabbriche impegnate nella produzione di materiale bellico perché fosse discussa e portata avanti.

Possiamo dire che nel 1970 la non violenza entrò nella fabbrica: dove una volta si costruivano strumenti di morte, da quel giorno si lavorò per preparare la pace, partendo dalla base cioè dalla coscienza dei lavoratori. Il Mahatma Gandhi tolta la veste bianca aveva indossato la tuta del metalmeccanico.

Alcuni componenti del Gruppo Valsusino di Azione Non Violenta

In piedi da destra: Don Viglongo, Giovanni Croce, Walter Listello, Achille Croce, Roberto Carlovich, Ramsahai Purohit, sconosciuto, Gualtiero Cuatto, sconosciuto. Fila in basso da destra: Piersandro Roccati, Alberto Perino, Mario Suppo, Mariagrazia Benvenuti, Marina Falco, Giovanni Falco, Mariolina Montagnoli.

Gianni Cordola

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