La leggenda della masca “Tometa” di Mocchie

Come già abbiamo visto in altri racconti, i montanari nei tempi passati si dilettavano a ricordare antiche leggende; e negli ingenui racconti, e nelle credenze che sembrano assurde a chi non ha profonda conoscenza del passato, ci hanno trasmesso una preziosa eredità degli avi.

Camminando a piedi verso il colle della Portia o della Forcola nella montagna di Condove, potrebbe capitare di vedere strane impronte, simili a quelle lasciate dagli zoccoli di legno, ma più larghe. Non si devono mai seguire! La leggenda narra che sono impronte della masca “Tometa”¹ e chi metteva il piede su un’orma da lei lasciata finiva per perdere la memoria ed era costretto per forza d’incantesimo a seguire le impronte fino a giungere alla sua barma in un luogo nascosto e impervio.

La masca “Tometa” è un essere tra mito e realtà che ha le fattezze di una donna apparentemente normale, ma dotata di facoltà sovrannaturali; anziana, di corporatura robusta, con vestiti in lana di pecora, un grande cappello fatto di foglie intrecciate e uno scialle nero a coprire tutto il corpo. La sua indole è di solito benevola, ma burbera e selvaggia, ed è inoltre suscettibile e vendicativa nei confronti di chi tradisce la sua fiducia. Lavora molto ed è sempre in cerca di qualcuno che possa aiutarla nei suoi lavori, soprattutto quelli caseari.

La tometa

La “Tometa” ha fama di saper produrre i migliori formaggi della Valsusa, che con un incantesimo porta al mercato di Condove, dove vanno a ruba; ma nessuno è mai riuscito a vedere o capire dove vivesse, quante mucche e pecore avesse, e dove pascolasse gli animali. Ha altre utili conoscenze, come quella di guarire il bestiame e di riconoscere e saper usare le erbe medicinali. È anche considerata abile nel far pascolare il bestiame ed a scegliere le erbe migliori nei pascoli in alta montagna.

Secondo la leggenda, la “Tometa” essendo avanti negli anni, talvolta rapisce le persone per trasformarle in suoi servitori. Un episodio riguarda una ragazza di Laietto che si sarebbe ritrovata al cospetto della “Tometa” subito dopo averne calpestato le impronte nei pascoli del Collombardo. La creatura le alitò in viso e la condusse nella sua barma. Le fece bere il latte di una capretta nera e la ragazza dimenticò subito tutta la sua vita passata, trascorrendo gli anni successivi al suo servizio. La “Tometa” è una maestra dell’arte casearia e le insegnò a fare il burro, ma anche le famose tome fatte con latte vaccino crudo e tutti i segreti del mestiere.

Nella borgata passati diversi anni avevano ormai perso la speranza di rivedere la ragazza, ma un giorno un margaro alla ricerca di una pecora smarrita la vide sola mentre raccoglieva delle erbe, la riconobbe e la riportò in paese nonostante la sua resistenza. Si fecero molti tentativi per far tornare la memoria alla sventurata; alla fine, ciò che funzionò da antidoto fu il latte di una capretta bianca, offertale da una vecchietta esperta in alchimie.

D’improvviso la fanciulla recuperò la memoria e insegnò ai suoi compaesani i segreti che la “Tometa” le aveva svelato per fare il burro e le tome. È per questo motivo che ancora oggi gli abitanti delle borgate di Mocchie sono bravissimi nel produrre le tome ed hanno ottenuto tanti riconoscimenti.

Forse questa leggenda deriva dalla mitizzazione di un personaggio reale o forse dalla fantasia degli abitanti delle borgate di Mocchie, ma dopo secoli la toma di Condove (il comune di Mocchie è stato aggregato a Condove nel 1936) ha ottenuto il prestigioso marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta) una garanzia di qualità. Sarà grazie alla masca “Tometa”? Non lo sapremo mai!

¹ – Tometa – nome in lingua piemontese (la “o” si pronuncia “u”) col quale si indica una donna astuta e maliziosa.

Gianni Cordola

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La leggenda della processione dei morti a Laietto

Le leggende sono il risultato di spontanee interpretazioni di fatti storici, di credenze, di pregiudizi o anche semplicemente fantastiche elaborazioni. Esse sono strettamente legate alla sensibilità della gente, alla sua cultura e alle sue tradizioni.

L’antichità pagana, credette nell’apparizione delle anime dei morti sotto forma di fantasmi; e fra le memorie lasciate dai secoli lontani, si può rinvenire traccia di questa credenza, che fu comune a popoli diversi. Si racconta di morti che escono dalle tombe alla mezzanotte del primo novembre, dopo che i lenti rintocchi delle campane, che hanno cominciato a suonare nelle chiese e cappelle fin dalla sera, li hanno destati e troviamo in questa leggenda una reminiscenza più viva delle credenze pagane.

Sulle nostre montagne si trovano molti racconti che dicono cose strane intorno a certe processioni dei morti. Volevano forse dire i montanari che le immaginarono che essi non sanno o non vogliono abbandonare le montagne neppure dopo la morte? Oppure volevano dire che i morti non ci lasciano, si spostano e basta, si trasferiscono in altre terre, ci chiamano nei sogni? Non lo sappiamo, ma ci fa riflettere sull’interrogativo della morte ed a discernere su ciò che è essenziale alla vita.

La nostra leggenda fa passare per la Valle del Sessi e precisamente a Laietto (borgata di Condove in Valle di Susa) la cosiddetta processione dei morti. Alla mezzanotte del primo novembre ma sembra anche in alcune notti senza luna i morti escono incappucciati dalle tombe del cimitero di Laietto e s’incamminano lentamente nei dintorni del cimitero stesso e nei viottoli della borgata rischiarandosi la strada col dito mignolo acceso.

La processione dei morti

Fanno il giro delle case per poi recarsi nella cappella cimiteriale di San Bernardo dove nella notte uno spettrale sacrestano suona la campanella e accende le candele: allora un misterioso prete celebra la messa dei morti nel silenzio raggelante della lugubre assemblea. Finita la messa, le candele si spengono ed i fantasmi spariscono e guai a chi si fosse arrischiato a curiosare. Si racconta di persone che incontrata la processione furono costrette a seguirla e poterono poi far ritorno a casa sane e salve riconoscendo gli errori che avevano commesso nella loro vita e chiedendo perdono a Dio.

Si narra di una donna, Marianin, che nel buio della notte, imprudentemente, chiese ad uno dei fantasmi la fiammella che egli portava per accendere il suo lume che era stato spento dal vento, e si avvide con sommo sgomento che il braccio stecchito di un morto era attaccato al lume. Quando volle restituire all’ombra vagante, che tornava nella propria tomba, il lume ed il braccio, col cuore che batteva forte forte, prese dalla culla suo figlio piccolo e lo tenne in braccio, per evitare la vendetta del fantasma, il quale, nel riprendere quanto gli apparteneva, le disse di non più disturbare i morti nel loro triste viaggio.

Questa leggenda ha un chiaro collegamento con la festa Celtica di Samhain che veniva festeggiata nella notte fra l’ultimo giorno di Ottobre e il primo di Novembre. In questo giorno si aprivano le porte fra il Regno dei vivi e l’aldilà territorio del divino e residenza dei defunti. In questa notte secondo la tradizione celtica cadevano le barriere: vivi e morti potevano passare dall’uno all’altro dei due Regni.

Gianni Cordola

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La leggenda del basilisco

Masche, masconi, diavoli, fate, esseri ammantati di mistero e magia: più volte ho pubblicato articoli su queste creature o su leggende nate dal mistero dei boschi e dai luoghi più impervi della montagna.

Mentre i personaggi citati derivano molto probabilmente dalla  mitizzazione di personaggi reali, la fantasia degli abitanti delle aree alpine ha invece generato diverse figure di animali mitici. Il difficile accesso di aree impervie, l’isolamento delle popolazioni ed il timore di una natura in gran parte ignota ha dato così origine a molte creature di fantasia che si vanno ad aggiungere a diavoli, masche, gnomi, ecc.

Tra questi animali uno dei più misteriosi ed inquietanti è il basilisco. Il basilisco è il mitico animale con la testa, il corpo, le zampe e le ali del gallo e la coda di vipera. Avrebbe origine da un gallo nero dell’età di sette anni che, prima di morire, deponeva segretamente un uovo sferico fecondato da una vipera e successivamente covato da un rospo. Se l’uovo era covato in luogo umido e bagnato nasceva un drago che viveva per oltre 100 anni, ma, se covato in posto asciutto e caldo, sulla sabbia, nel letame o nella paglia, allora nasceva un basilisco.

Vive in una tana scavata nella terra e, nonostante cerchi di nasconderla, è piuttosto individuabile perché tutto intorno il terreno, l’erba e gli arbusti sono bruciacchiati dal suo terribile alito. il suo sguardo avvelena, dicevano i nostri vecchi, ma può venire paralizzato dalla superficie liscia di uno specchio, nel quale egli si guarderà e perderà l’incanto. Rimane nascosto nella sua tana durante il giorno, oppure sonnecchia al sole sdraiato su grossi massi e inizia le sue escursioni soltanto alla sera per andare a procurarsi il cibo, ma evita sempre di avvicinarsi ai luoghi abitati perché non deve incontrare il gallo, il cui canto potrebbe ucciderlo.

Alcune leggende narrano che nei paraggi della tana del basilisco siano sepolti tesori cui il mostro fa buona guardia. I bestiari medievali usavano le allegorie dei più demoniaci animali quali il serpente, il drago, il basilisco, il corvo per identificare lo stato d’infimo ordine da cui partire per il raggiungimento del tesoro.

Nei secoli molte leggende lo hanno visto come protagonista terribile e mortale. Narra uno storico, che quando Alessandro il Grande aveva posto l’assedio ad una città dell’Asia, un basilisco sposò le parti degli assediati e uccise con lo sguardo fino a duecento assedianti al giorno. Fra i montanari della Svizzera la superstizione del fascino del basilisco è diffusissima. Questo animale figura nello stemma della città di Basilea e decora uno dei suoi ponti sul Reno. Nel 1474 il Senato di Basilea condannò ad essere bruciato come stregone un vecchio gallo, accusato nientemeno d’aver fatto un uovo, dal quale sarebbe nato certamente un piccolo basilisco se non lo si avesse bruciato assieme al gallo genitore.

Anche in Valsusa ci sono stati avvistamenti del basilisco nella zona dei vigneti della Ramats a Chiomonte e nella Roceja di Frassinere nelle località Roc e Fiacetto. Come spesso accade ciò che è misterioso e diverso incuriosisce e allo stesso tempo spaventa. Alla fine del mese di giugno dell’anno 1947 un agricoltore M. Davì di Borgone di Susa rimase scioccato dopo aver visto nella sua vigna in località Fiacetto di Frassinere un rettile mostruoso. Il suo racconto: “un fischio lacerante, lo fece trasalire, si volse e vide, a pochi passi, uno strano animale, rettile colla testa di gatto e le zampe di ramarro e una gigantesca cresta di gallo, che per alcuni istanti lo affascinò coi suoi grandi occhi di bue”. La notizia in breve raggiunse tutti gli abitanti e fu ripresa dal giornale LA STAMPA di Torino. Furono organizzate battute di caccia ma il mostro non fu mai catturato. In seguito è stato identificato come una grossa vipera con una particolare cresta, definita dalla stampa come appartenente alla famiglia dei basilischi. Da quel giorno localmente quel misterioso animale fu chiamato “ lou drago dou fiatsët” in vicinanza della “barma dou drago”.

Il basilisco

Nei racconti tradizionali si dice che chi riesca ad ucciderlo e poi mangi una porzione del suo corpo acquisti la facoltà di poter scoprire i tesori che protegge. Il suo terribile potere, per il quale è molto temuto, è quello di uccidere o immobilizzare con lo sguardo, oppure provocare stanchezza, far cadere le persone in uno stato di deliquio. Non si conosce con certezza se ciò sia dovuto ad uno spruzzo di liquido velenoso dagli occhi oppure da folgori scagliate dai suoi stessi occhi. Nessuno ha mai saputo raccontare come avvenga.

Il basilisco con il suo respiro provoca piccoli incendi che producono la bruciatura dell’erba intorno e il suo corpo emana un gran fetore. Si nutre di piccoli animali, topi e piccole serpi ed è ghiotto delle foglie di nocciolo di cui mangia solo il cuore.

Nonostante la loro apparenza invincibile i basilischi hanno due nemici mortali: le donnole, che però muoiono sempre anche se riescono a ucciderlo, azzannandolo alla gola, e i galli, il cui canto gli è letale. Un basilisco può inoltre essere ucciso anche facendolo specchiare in modo che sia il suo stesso sguardo a ucciderlo. Con il passare del tempo, grazie al moltiplicarsi di storie, le sue capacità letali continuarono ad aumentare, comprendendo l’abilità di sputare fiamme e quella di uccidere solo con il suono della sua voce, oltre alle sue sempre crescenti dimensioni. Alcuni scrittori affermarono che la creatura poteva uccidere anche senza un tocco diretto, ma perfino toccando qualcosa che a sua volta toccava qualcuno, come una spada.

Falsi miti e credenze hanno influenzato e influenzano tuttora la vita umana, si sono diffusi in tutte le epoche e tornano a circolare, riadattati al momento storico in cui si raccontano, ma sempre leggende sono. Spesso presentano elementi reali, ma trasformati dalla fantasia, tramandati, come in questo caso, per spiegare qualche caratteristica dell’ambiente naturale e per dare risposta a dei perché.

Gianni Cordola

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Quando realizzavo un flauto in corteccia

Era l’estate del 1961 quando i miei genitori per rendere diverse le vacanze scolastiche estive affittarono per un mese una casa alla borgata Alotti di Condove. Certo non era una vera vacanza visto che già abitavamo ai Fiori di Condove, ma per me che le uniche vacanze erano state alla colonia Fiat di Marina di Massa fino agli undici anni e poi nelle giornate estive soleggiate al torrente Gravio del paese, sembrava un mondo nuovo di sensazioni e quando ripenso a ciò vedo cose semplici: natura, persone care, cibo, parole, sguardi, sorrisi.

In quel mese un ragazzo più grande mi insegnò a realizzare uno strumento musicale in corteccia somigliante ad un flauto o ad un fischietto. Si tratta di uno strumento appartenente tuttora al mondo agro-pastorale, pertanto veniva costruito e utilizzato dai pastori, di cui spesso diventava accompagnatore durante il pascolo. La loro durata è di una decina di giorni; infatti il rinsecchimento e il restringimento della corteccia ne modificano la sostanza e la forma compromettendone la funzionalità.

Per la costruzione di questi strumenti si utilizza la corteccia del castagno, del salice,
frassino, gelso, sorbo, e altre essenze elastiche, dritte e prive di nodi. Noi usavamo il castagno albero molto comune nella zona. La dimensione dei rami utilizzati per la costruzione variava da un diametro di 15 mm a 30 mm circa.


Il periodo migliore per costruire questi strumenti sarebbe quello primaverile, ma noi anche in estate lo realizzavamo, era solo più difficile trovare il ramo adatto. Primaverile perché vi è la ripresa del ciclo vegetativo e nei vasi legnosi inizia a risalire dalla radice fino alle foglie e agli apici dei rami la linfa, questa permette il distaccamento della corteccia dal resto del ramo. La presenza della linfa quindi rende possibile sfilare dal ramo la corteccia in modo che si mantenga integra, senza spaccature o fessure, condizione necessaria per la realizzazione dello strumento.


Una volta reperito un ramo o pollone viene praticata col coltello una incisione circolare sulla corteccia la quale determina la lunghezza dello strumento. Dall’estremità del ramo tagliato al punto della circoncisione non devono essere presenti nodi e il ramo deve essere diritto. Se vogliamo il flauto a becco viene realizzato il labium a forma di D, con l’asta rivolta verso il foro di insufflazione, ad una distanza di circa 20 mm dall’estremità. Poi si esegue il taglio longitudinale all’estremità del ramo per creare il becco. Indi si batte insistentemente la corteccia con il manico del coltello su tutta la lunghezza fino al taglio circoncisorio facendo ruotare il ramo affinché venga battuto su tutta la superficie. La battitura serve per far staccare la corteccia dal ramo.
In ultimo si afferra il ramo con una mano dalla parte appena battuta e con l’altra mano
dall’altra parte e tramite torsione si cerca di staccare la corteccia. L’operazione della battitura della corteccia può essere ripetuta qualora non si distacchi. A quel punto la corteccia viene sfilata delicatamente ottenendo un tubo.

Il flauto di corteccia viene suonato effettuando un’insufflazione, associata al movimento digitale col secondo dito della mano effettuato all’estremità terminale, che rappresenta l’unica apertura oltre all’imboccatura.

Realizzare questi flauti diventava un gioco ma anche una competizione tra chi riusciva
a realizzarli con un suono più forte. Molto ricca è la terminologia piemontese con cui vengono chiamati i flauti in corteccia a seconda della zona: subièt, pìfer, sifolèt, flàut.

Come vedete la felicità ai miei tempi era una cosa semplice, e si poteva trovare ogni giorno, in ogni cosa intorno a noi.

Gianni Cordola

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Quando andavamo a mangiare il Gran bollito Piemontese

Oggi mi ritorna in mente un luogo che evoca ricordi di tempi passati ma anche di piaceri semplici, sto parlando di Carrù un paese del Cuneese dove da moltissimi anni si celebra la fiera del “bue grasso”. Negli anni 70 del secolo scorso con i colleghi di lavoro era diventata tradizione in un giorno libero nel periodo invernale recarsi a gustare il piatto tipico: il “Bollito”, un monumento della tradizione gastronomica piemontese.

Si partiva con una o due macchine con destinazione Carrù ad un ristorante in centro paese, il piatto del giorno inutile ricordarlo perchè eravamo li per quello era il “gran bollito alla piemontese”. Iniziavamo con due antipasti che consistevano negli affettati e il vitello tonnato, poi saltavamo i primi per prepararci al grande piatto della tradizione culinaria Piemontese: il bollito. Un piatto molto amato sia dal re Vittorio Emanuele II che da Camillo Benso Conte di Cavour.

La sua preparazione semplice, ma lunga e paziente, in tempi di frettolosità culinaria lo ha reso sempre meno frequente sulle tavole famigliari, ma è molto amato da chi di cucina se ne intende.

Il Gran bollito misto piemontese ha una storia molto antica con una preparazione meticolosa, fatta di segreti e accorgimenti che portano alla buona riuscita del piatto. Innanzitutto, la scelta della carne è fondamentale: deve essere di bue adulto, il quale doveva essere ben frollato e meglio se grasso.

Ed eccolo, il carrello del bollito, spinto dal cuoco col cappello bianco, con il fumo che sale e i grandi coperchi che sgocciolano, una immagine che non si può dimenticare.

Il carrello dei bolliti

Il gran bollito misto Piemontese si compone di sette tagli: tenerone, scaramella, muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello del prete. Questi tagli devono essere steccati con chiodi di garofano e poi immersi in acqua bollente appena salata, con cipolla, sedano, carota, rosmarino e uno spicchio d’aglio. In pentole diverse si cuociono invece i sette ornamenti: la testina di vitello completa di musetto, la lingua, lo zampino, la coda, la gallina, il cotechino e la rolata.

Il piatto è accompagnato da vari tipi di verdure e salse differenti. Le verdure utilizzate solitamente sono: le cipolline saltate al burro, le carote lesse, finocchi ripassati al burro, foglie di verza lessate, rape lesse, zucchine passate al burro e le patate lesse.

A completamento almeno quattro sui sette bagnetti che la tradizione ci propone. I più classici sono quello verde (bagnet vert), una salsa ottenuta da prezzemolo, acciughe, aglio e mollica di pane raffermo; quello rosso (bagnet ross), con pomodori, aglio, senape e aceto rosso, la salsa al cren, a base di una radice commestibile chiamata rafano, dal sapore molto fresco, aspro e pungente, la cognà piemontèisa una salsa dolce a metà tra una mostarda e una conserva di frutta o una salsa al miele.

Sul tavolo c’era pane grosso, grissini, pane con noci, una buona barbera, ampolle di olio extra vergine per condire le patate e per allungare i bagnetti e le salse. Due piatti, uno per le sole carni e uno per i bagnetti e contorni di verdure. Ancora pepe e ciotole di sale grosso da spargere sulla carne togliendolo poi col coltello al momento di fare il boccone, piattino di burro da schiacciare con le patate bollenti.

Alla conclusione del nostro pranzo ci portavano una piccola tazza di brodo ristretto. Per il dolce non c’era più posto, solo un caffè e un buon amaro.

Quel giorno noi dovevamo presentarsi ben vuoti, riposati e ben disposti, non fare calcoli di tempo e men che meno di calorie.

Gianni Cordola

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La leggenda di Matolda

La montagna Condovese è ricchissima in tradizioni e leggende, ed a volte basta poco per far tornare alla memoria ricordi che conducono alle antiche credenze sparse fra i montanari intorno a un misterioso nome Toumba ‘d Matolda”.

Tra il Collombardo e il Colle degli Astesiani troviamo la “Toumba ‘d Matolda”. Secondo una leggenda il nome sarebbe legato a una principessa longobarda, che qui avrebbe trovato sepoltura durante la fuga dei Longobardi dai Franchi. In verità il nome “toumba” indica una zona elevata tondeggiante e “Matolda” probabilmente è il soprannome di una famiglia Lemiese che anticamente sfruttava i pascoli. Infatti numerose sono le toumbe nelle zone circostanti: la toumba veja, la toumba dou preive, la toumba dou coumùn, la sagna toumba, ecc.

Nelle veglie invernali si raccontava che una donna Matolda di nobile famiglia e giovane sposa da poco tempo, seguì il marito sulla via faticosa della montagna, per salvarsi da nemici spietati, ma non è possibile sapere in quale epoca e per qual motivo avvenne quella fuga. Forse i giovani sposi cercavano uno scampo a causa delle lotte fra Longobardi e Franchi, o fuggivano dai Saraceni che devastavano la Valle di Susa e dovettero cercare la salvezza nella fuga? Non credo si troverà mai una risposta a queste domande, perchè la sola memoria pur tanto incerta che ne resti di Matolda, dice solo ch’essa ed il marito fuggivano, e che smarrirono la via vicino al Collombardo.

Lassù, sia per la fatica del viaggio, sia perché Matolda cadde fra le rocce e si ferì a morte, non le fu possibile di continuare il faticoso viaggio, e soffrì una lunga agonia fra la solitudine delle montagne, che doveva in quei tempi essere spaventosa a causa degli estesi boschi. Forse Matolda nelle ore estreme capì che la morte stava arrivando, e per non rendere più acuto ancora il dolore dello sposo, non mosse lamento, ma pallida, ansimante, con la febbre negli occhi, non ebbe il coraggio di dargli un estremo addio, gli strinse invece forte la mano e si baciarono per l’ultima volta.

Di certo dovette essere triste l’ultima scena di quel dramma, che si svolse ad alta quota sulla montagna, mentre innanzi a quegl’infelici svaniva ogni bene e la felicità terrena fuggiva lontano. Ma forse ancora nell’ultimo delirio Matolda più non vide le cime delle montagne, i boschi dalle ombre misteriose, e pensò ad un lontano castello ove era stata amata e felice, ne rivide le torri merlate, le strette scale e le finestre gotiche spalancate verso i cortili.

Mentre il freddo l’assiderava e la notte cominciava a mettere nuovo terrore fra le ombre dei boschi ed i fianchi delle montagne, ella rivide pure vasti saloni illuminati dalla luce tremolante delle torce e dalle fiamme dei ceppi accesi nei camini, o le passarono innanzi in un vertiginoso turbinio paggi e cavalieri, damigelle e trovatori, nobili alani e falchi dagli occhi accesi; poi anche il delirio fini per Matolda, e mentre dormiva dell’ultimo sonno fu sepolta sulla montagna. Rimase lassù lontano da ogni essere umano, da quanto aveva amato sulla terra, ed ella che non era stata distesa in mezzo ai ceri, sotto un soffitto di legno scolpito, ebbe d’inverno sulla terra che la coprì, una coltre candida come era stata la sua veste di sposa, e riposò sotto le stelle ed il cielo.

Forse lo spirito di Matolda si uni alle fate che vanno di notte sulle montagne, e passa ancora sui rododendri e stelle alpine del Collombardo e del Civrari, fra la Valle di Susa e quella di Viù, e la segue l’ombra dello sposo morto in altra terra, memore sempre del suo dolce affetto.

Col passar del tempo la storia di Matolda è dimenticata dai montanari, ma il suo nome è rimasto alla regione dove ella fu sepolta, e lo ricordino gli escursionisti che raggiungono il Collombardo, per cercare le vecchie memorie di guerre e l’incanto di un paesaggio sublime; se andranno verso l’alpe che porta il suo nome, raccolgano sui pascoli i fiori di montagna, questi sapranno narrare alle fervide fantasie, la leggenda della giovane sposa morta sulla montagna.

Gianni Cordola

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Quando andavo alla colonia estiva Fiat

Ormai forse pochi se ne ricordano, e molto probabilmente i più giovani nemmeno ne hanno mai sentito parlare, ma c’era una volta la colonia estiva Fiat, nata in un periodo in cui le vacanze estive erano ancora precluse alla maggior parte degli italiani. All’interno del sistema di welfare aziendale di Fiat le colonie costituivano un supporto ai lavoratori e anche un modo per far crescere la solidarietà aziendale e per ridurre la conflittualità nelle fabbriche.

Anche mio padre operaio Fiat mi iscrisse alla colonia estiva dal 1956 al 1959 (dai 7 agli 11 anni), destinazione Marina di Massa. Erano settimane di vacanza nelle quali certo non mancava la disciplina, allora molto in voga, e non vi era nulla nell’organizzazione delle giornate che fosse lasciato all’imprevisto. Non esistevano giornate inattive, vuote, c’era sempre un sacco di cose da fare, con orari precisi: giochi di squadra e sport, camminate, attività di gruppo e lavoretti. I regolamenti erano severi, oggi forse impensabili, le vigilatrici comandavano con modi autoritari: bagno, dormire, passeggiata, gabinetto, merenda. Ma chi ci è stato racconta ancora del piacere delle giornate trascorse al mare o in pineta, con amicizie nuove.

Il ritrovo per la partenza era in una palestra di Via Magenta a Torino, li venivamo vestiti con berretto bianco alla marinara, maglia blu e calzoncini bianchi, uguale per tutti i piccoli ospiti e distribuito gratuitamente, taglio capelli se troppo lunghi, quindi visita medica e dopo qualche iniezione di non so cosa, si raggiungeva la stazione di Porta Nuova e partenza in treno. Eravamo divisi in squadre tutte di maschietti, le femmine andavano in altro turno.

Negli anni Cinquanta, dopo la partenza in treno dei bambini, non c’era modo di sapere se il viaggio e l’arrivo in colonia erano andati bene. La Fiat il giorno successivo pubblicava sul quotidiano “La Stampa” un’inserzione molto breve in cui diceva che il viaggio si era svolto senza inconvenienti e che i bambini erano arrivati in colonia.

Arrivati a destinazione vediamo la colonia per i figli dei dipendenti Fiat, una grande torre bianca: si trova a Marina di Massa nella pineta apuana ed è stata realizzata negli anni trenta del secolo scorso, su progetto dell’architetto Vittorio Bonadè Bottino (lo stesso di Mirafiori e delle torri gemelle di Sestriere e Sauze d’Oulx), seguendo i canoni architettonici dell’epoca fascista. L’edificio è composto da una torre, di 17 piani e 52 metri di altezza, e due ali a pianta rettangolare lunghe 30 metri. I piani sono a sviluppo elicoidale e ogni camerata è progettata per ospitare una squadra di circa trenta bambini e una vigilatrice. Il particolare profilo elicoidale delle camerate, conferisce al pavimento un andamento costantemente inclinato per cui ogni lettino varia la lunghezza dei piedi per correggere l’andamento pendente.

La colonia Fiat a Marina di Massa

Prima doccia e salita lungo la rampa elicoidale in fila per tre a ritmo di marcette militari a raggiungere la camerata, due file di lettini senza privacy, chiunque saliva per la rampa poteva guardare, solo i bagni e la camera della vigilatrice erano chiusi, i vestiti sono meno belli di quelli dati per la partenza da Torino, maglietta bianca, pantaloncini, sandali e il solito berretto alla marinara.

La rampa elicoidale

La vita della colonia era rigidamente scandita: dopo la sveglia alle 8 i bambini rifacevano il letto, poi seguiva la pulizia e lavaggio personali (anche le necessita fisiologiche erano a comando), la colazione, il rito dell’alzabandiera, infine ci si recava in spiaggia a squadre sempre in fila per tre. Poco tempo al sole e molto di più all’ombra.

L’alzabandiera

Nelle belle giornate è previsto il bagno. Unanime è il giudizio negativo su questo momento che si svolge per pochi minuti, sotto il vigile sguardo degli assistenti e rigorosamente all’interno delle corde, guai a chi usciva fuori. Bagni di pochi minuti solo la mattina indossando un bruttissimo costume blu di lana, in un metro quadrato di mare. Il senso di libertà che provoca il gioco fra le onde è frustrato non solo dallo scarso tempo passato in acqua, ma anche dalla rigida disciplina che lo regola. Un fischio, e partiva allora, all’unisono, un urlo liberatorio di tutti i bambini e la nostra corsa forsennata, infine liberi, verso le onde che ci attiravano irresistibilmente. Mi ricordo che guardavamo con invidia i bambini che erano andati al mare con le loro mamme perché, contrariamente a noi, potevano fare tutto quello che volevano, specialmente in acqua. In caso di mare mosso ci portavano a fare il bagno in piscina ancora più ristretta.

Anno 1957 la mia squadra

Dopo il bagno, l’esposizione al sole: di pancia, di schiena o sui fianchi, a seconda del comando delle vigilatrici. Cambio indumenti sulla spiaggia in cerchio davanti a tutti. Poi seduti a braccia conserte come sempre.

Poi arriva l’ora di pranzo nel grande refettorio tutti seduti senza gomiti sul tavolo eri obbligato a mangiare tutto con un solo bicchiere d’acqua, mi ricordo di aver patito molto la sete. Poi il riposo in camerata, le attività pomeridiane riprendono con la distribuzione della merenda.Il pomeriggio prosegue con marce in pineta, giochi di squadra e ginnastica.

Anno 1959 la mia squadra

Una volta o due al mese ci veniva data una cartolina postale per rassicurare le famiglie e per manifestare ai genitori l’idea di un soggiorno all’insegna della salute fisica e mentale e che “stiamo tutti bene”. Tuttavia, la realtà era assai diversa. Le vigilatrici infatti erano molto attente a non far trasparire dalle cartoline stati d’ansia e nostalgia. I regolamenti penso prevedessero la censura nella posta in arrivo e in partenza. Se un bambino scrive la parola “nostalgia”, viene immediatamente censurata. Ci venivano suggerite frasi del tipo: sono felice, tutto è bello, si mangia bene, ecc. Rari e sempre sotto il controllo delle vigilatrici erano i contatti dei bambini con il mondo esterno.

In colonia era vietato portare denaro, solo qualche moneta consegnata alle vigilatrici per comperare a fine turno un souvenir in conchiglia da portare a casa in ricordo del soggiorno.

A partire dalla fine degli anni Sessanta l’idea delle colonie Fiat inizia ad andare in crisi. Il declino incomincia quando il modello culturale che le ha ispirate entra in conflitto con la sensibilità collettiva. Più precisamente la fine è iniziata con il boom economico, le famiglie in Seicento che pendolavano verso il mare senza più il bisogno di spedire i figli lontano “a respirare iodio” o “a stimolare la fame” di ragazzini rachitici che sarebbero tornati sani e forti. Le famiglie aspirano a organizzarsi le vacanze in modo autonomo. Arrivano poi gli anni di lotta e nell’aria si respira il rifiuto della “divisa” e di uniformarsi al volere aziendale. La vacanza offerta dalla fabbrica diviene così oggetto di contestazione durante gli anni dei conflitti sociali. Nel frattempo, anche l’azienda cambia le sue politiche di welfare e la Fiat smette di gestire direttamente le colonie.

La colonia estiva per me bambino era una scoperta ed era anche una sofferenza. La vacanza in colonia Fiat poteva essere evasione e poteva essere prigionia. Il primo lungo viaggio senza i genitori, un addio alla casa, alle care abitudini, ai compagni di gioco e senza possibilità di contatto, con coetanei ma sconosciuti, con una disciplina che definirei quasi da caserma, ma sempre un ricordo di altri tempi da conservare.

Gianni Cordola

Gianni Cordola in colonia Fiat
Pubblicato in Arte e cultura, c'era una volta, condove, curiosità, Folclore e tradizioni, storia di famiglia, Torino | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Quando andavo alla colonia estiva Fiat

Le streghe di Chianocco

La valle di Susa è ricchissima in tradizioni e leggende, ed a volte basta poco per far tornare alla memoria ricordi che conducono alle antiche credenze sparse fra i montanari intorno al misterioso ed infernale potere delle streghe, come pure alle leggende strane che si raccontano ancora in ogni paese a prova del terrore che esse procuravano agli abitanti.

Chianocco è come Foresto molto affine di Mompantero, e stanno ai piedi delle ultime falde del Rocciamelone, minacciate sempre dai torrenti che gli precipitano quasi a picco sul capo sbucando dagli “orridi”. Forse dovrei cominciare dalla Ferrera per parlare di streghe; pare che in tutto il gruppo delle Alpi Graie per quegli orridi spaventosi le streghe abbiano buon vento e radice; tanto la Ferrera che Mompantero hanno i loro “pian delle streghe”, il “paradiso” e molti altri nomi in comune, oltre a molte credenze e storie di streghe.

Orrido di Chianocco

Oggi narro solo due fatti molto raccontati e creduti a Chianocco. Due giovani partiti a tarda sera dalla loro borgata per andare in un’altra a trovare le loro belle nelle stalle, com’era d’uso in inverno, incontrarono lungo il sentiero una giovenca sola con un legaccio al collo; la credettero smarrita o fuggita dalla stalla, benché ne fossero meravigliati non essendo ciò cosa solita. Presero il capo del legaccio e la condussero con loro all’abitato per chiedere di chi fosse. La giovenca li seguì per un po’, passo passo, poi, prima di entrare fra le case, diede uno strappo e scomparve, ne fu mai più vista.

Entrando nella stalla furono stupiti di vedere una loro conoscente, entrata quasi insieme, tutta trafelata e avente al collo quello stesso legaccio della strana giovenca scomparsa. In quanto ai crini delle bestie intrecciate, e il trovare due vacche nella stessa catena è cosa comune a tutti i nostri paesi. In una veglia a un morto, un gattone nero si pigliava il gusto di spegnere il lumicino ponendovi su le zampe: cacciato si ritrovava sempre di nuovo allo stesso punto. Irritato di ciò, uno dei presenti si apposta, e con un falcetto dà un taglio alla zampa che si alzava per smorzare ancora il lume. Il gatto non gridò, e non corse, ma scomparve. Il giorno dopo una donna, già in fama di stregoneria, era a letto con un taglio alla mano identico a quello del gattone nero scomparso.

Ingenui racconti e credenze che sembrano assurde a chi non ha profonda conoscenza del passato, ma anche una preziosa eredità degli avi.

Gianni Cordola

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Le nostre leggende

Ormai settantenne, raggiungo il mio paese Condove e imbocco la strada che porta alle borgate montane, parcheggio l’auto sulla provinciale per Laietto (“Ou Lieut”) nei pressi della Brera e percorro la mulattiera che porta al Coindo, borgata dove vivevano i miei genitori. Sapevo bene che i miei avevano coltivato la terra e sfruttato i pascoli di questa zona per sopravvivere. Avevo sentito parlare tante volte di fatica e miseria, ma a me erano sempre sembrate così lontane e irreali come nelle favole. Da bambino ero venuto molte volte quassù con mamma e papà, che non si stancavano mai d’insegnarmi i nomi dei luoghi, di raccontarmi gli aneddoti e le avventure delle persone della zona tramandati dalla gente, di farmi capire come si viveva una volta in montagna.

Solamente ora, però, guardando i ripidi prati del Coindo mi rendevo conto che tagliare il fieno nei “tsamp dl’anvers” verso Chiandone e trasportarlo a spalle, in grossi fasci, su nel fienile doveva essere una bella fatica. Una borgata che era popolosa, gente di montagna, gente d’altri tempi, dal carattere forte. Persone laboriose, avvezze al lavoro e alla fatica quotidiana, ma, al contempo capaci di sorridere, con quei modi di essere arguti e sornioni. Circa cento anni fa, una cinquantina di persone vivevano in questa borgata, che fu abbandonata perché arrivarono occasioni migliori e la gente riuscì a scappare da quella che considerava una schiavitù. Era stato mio padre nel 1936 a decidere di trasferirsi con la propria famiglia al piano, a Condove nella vecchia contrada dei Fiori, vendendo in seguito parte di tutto ciò che qui possedeva. Tornando in questi luoghi e vedendo l’abbandono delle case mi assale una tristezza infinita per cui ritorno all’automobile. Procedo verso Laietto e raggiungo Pratobotrile (Papoutrii in franco-provenzale, Pabotrì in piemontese) borgata dei miei nonni materni dove faccio uno spuntino alla locale trattoria. Nel pomeriggio opto per una passeggiata lungo la mulattiera che porta al ponte delle Turne.

Stavo ancora meditando sui fatti del mattino, quando mi si para davanti il “Rok lounck” (in franco-provenzale) o “Ròch longh” (in piemontese). Ad altri avrebbe detto poco o niente quel pietrone aguzzo; qualcuno avrebbe pensato alle difficoltà di arrampicata altri ne avrebbero calcolato a vista le misure; forse qualcuno non l’avrebbe neanche notato; probabilmente pochi avrebbero pensato che avesse anche un nome.

Nella mia mente scomparve invece ogni altra rimembranza per lasciar affiorare le parole che diceva mio nonno materno Battista Pautasso (Tita dou Ieun) ogni volta che passavamo insieme in quel luogo. “Questo è “lou rok lounck” portato dal diavolo quando voleva distruggere una baita per vendicarsi di torti subiti e, presa la cima di una rupe aguzza, la caricò sulla schiena volando con rapidità, verso la baita, per farla piombare su di essa; ma per una ragione incomprensibile, e prima che egli giungesse alla meta del suo viaggio perdette ogni forza lasciando cadere il masso qui”. E continuò: “Ecco se osservi bene quelle scanalature che lo attraversano, ti accorgi che sono state scavate da una grossa corda di ferro. Era la corda con cui il diavolo l’aveva legato per tenerlo ben saldo sulla schiena e trasportarlo fin qui. E se guardi in alto, vedi che è un po’ scavato, come se si fosse ammaccato in due punti, e precisamente dove poggiava sulla testa e sulla schiena ricurva del diavolo”.

Lou roc lounck

Nonno fece una pausa per accendersi il sigaro ed aggiunse: “Devi sapere che questa roccia è magica e si apre lungo quella fenditura alla mezzanotte precisa del giorno di S. Giovanni per lasciar intravedere il tesoro che nasconde”.

Ed ecco affiorare anche il ricordo della mia solita domanda di bambino: “Nonno, ma non è possibile andare a prendere quel tesoro?” Risposta: “Si, si può, ma solo quando la pietra si apre, a mezzanotte in punto del giorno di S. Giovanni; però bisogna fare presto, perché si richiude subito”.

Ricordavo anche l’altra domanda di rito: “Nonno, ma non c’è mai stato nessuno che l’ha fatto?”. Ed ecco la consueta risposta: “Si, una volta Notou dou Tcheuk ha aspettato che si aprisse, si è infilato dentro, ha visto il tesoro, ma non ha fatto in tempo a raccogliere poche monete d’oro che la roccia si è richiusa. Notou è rimasto chiuso fino all’anno successivo, quando, nella notte di S. Giovanni, appena la roccia si è aperta, pieno di paura, è uscito in tutta fretta, senza preoccuparsi di portar via il tesoro. Si era talmente spaventato che i capelli gli erano venuti bianchi ed inoltre era diventato cosi magro che quando inaspettatamente arrivò a casa, i suoi non l’avevano riconosciuto”.

La mia mente di bambino continuava però a fantasticare; si rifiutava di credere che fosse una leggenda e quasi si convinceva fosse tutto vero, del resto, quel nome così specifico con tanto di paternità che il nonno pronunciava in modo convinto, non poteva essere inventato Notou sarà esistito veramente, era vera la sua esistenza, per cui poteva essere vera anche l’esistenza del tesoro.

Ma oggi non posso continuare a rivivere le esperienze di bambino; ora desidero scoprire i motivi per cui ci sono diverse leggende che parlano di tesori nascosti nella stessa zona come al Collombardo, Collombardino e alla Tomba di Matolda; perché l’apertura dou Roklounck avviene proprio nella notte di S. Giovanni il 24 giugno. E man mano che proseguo nella mia passeggiata tante domande e curiosità si affacciano nella mente, ma sento che manca qualcosa per poter dare a tutte una risposta esauriente, e che forse avrei potuto farlo con l’aiuto del nonno “Ah se ci fosse ancora, perché senza di lui mi è così difficile?” mi domando.

Nella mia lunga e solitaria meditazione mi sono reso conto che occorre possedere la cultura dei montanari per scoprire nel mondo della natura l’anima delle cose. E ora che questa cultura si sta perdendo, chi trasmetterà alle nuove generazioni i nomi, le sensazioni, le leggende che permetterebbero loro di scoprirla? In fin dei conti io mi sento ancora un privilegiato perché posso far tesoro di quel poco che di questa cultura mi ha trasmesso il nonno.

Gianni Cordola (scritto nel 2017)

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Il diavolo e il vento della Valsusa

A volte basta un soffio di vento per far tornare alla memoria ricordi che conducono a luoghi e persone. Oggi voglio raccontare una leggenda che circola da tempo immemorabile nella valle di Susa, antica e meravigliosa, resa ancora più magica dallo scorrere del tempo.
È una prerogativa della valle che sia durante l’estate che nel periodo invernale, il vento molesto soffi addosso a tutto e tutti per la maggior parte dell’anno. C’è poi un punto, il colle del Moncenisio, dove il vento non smette mai di soffiare, allargandosi poi per la valle sottostante fino a raggiungere i dintorni di Torino.

Due viandanti giunti al colle da Lanslebourg-Mont-Cenis, furono sorpresi da forti raffiche di vento. “Curioso!” disse uno, “è già la terza volta che passo di qui e sempre vi trovo questo noioso vento che mi porta via il cappello!”. “Si vede che sei forestiero”, rispose l’altro. “Devi sapere che da questa strada, prima ancora che passasse Annibale, Napoleone, e tanti altri, era già disceso, nei tempi antichi, un gran personaggio, il diavolo chiamato “Le grand seigneur“. Camminando, s’incontrò col “Principe del vento“, (colui che ha il potere di soffiare con violenza il terribile vento del diavolo, che passa sibilando nei boschi e nelle valli), col quale proseguì la via.

I due compagni, se così si può dire, camminarono e parlarono a lungo. Giunti a questo passo, il diavolo, picchiandosi in fronte disse: Stavo dimenticando una piccola faccenda che debbo sbrigare in un villaggio poco lontano, è un affare molto delicato, e devo andarci di persona; aspettami un momento che son subito di ritorno”.

Ma, dopo quella piccola faccenda, il diavolo ne trovò delle altre ben più importanti, poi altre e altre ancora in gran numero; trovò insomma cosi buon terreno per i suoi affari che non è più potuto disbrigarsi di là, mentre il vento, fedele alla consegna, si ritrovò a fare avanti e indietro, avanti e indietro, senza alcun risultato, fino ai giorni nostri.

Il vento

Morale della favola: Il diavolo, considerato che nel villaggio si era trovato molto bene, che le sue proposte erano state accettate con entusiasmo, e gli affari che gli si prospettavano con gli umani compari sarebbero stati assai soddisfacenti, non si è più mosso da lì. Il vento, disperato, è rimasto ad aspettarlo, ed è ancora lì, ne sono certo, e la valle di Susa è diventata la valle del vento, a meno che questa maledizione non venga interrotta da qualche sortilegio. E poi c’è chi dice che non bisogna credere nelle favole…

Gianni Cordola

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