Oggi mi ritorna in mente un luogo che evoca ricordi di tempi passati ma anche di piaceri semplici, sto parlando di Carrù un paese del Cuneese dove da moltissimi anni si celebra la fiera del “bue grasso”. Negli anni 70 del secolo scorso con i colleghi di lavoro era diventata tradizione in un giorno libero nel periodo invernale recarsi a gustare il piatto tipico: il “Bollito”, un monumento della tradizione gastronomica piemontese.
Si partiva con una o due macchine con destinazione Carrù ad un ristorante in centro paese, il piatto del giorno inutile ricordarlo perchè eravamo li per quello era il “gran bollito alla piemontese”. Iniziavamo con due antipasti che consistevano negli affettati e il vitello tonnato, poi saltavamo i primi per prepararci al grande piatto della tradizione culinaria Piemontese: il bollito. Un piatto molto amato sia dal re Vittorio Emanuele II che da Camillo Benso Conte di Cavour.
La sua preparazione semplice, ma lunga e paziente, in tempi di frettolosità culinaria lo ha reso sempre meno frequente sulle tavole famigliari, ma è molto amato da chi di cucina se ne intende.
Il Gran bollito misto piemontese ha una storia molto antica con una preparazione meticolosa, fatta di segreti e accorgimenti che portano alla buona riuscita del piatto. Innanzitutto, la scelta della carne è fondamentale: deve essere di bue adulto, il quale doveva essere ben frollato e meglio se grasso.
Ed eccolo, il carrello del bollito, spinto dal cuoco col cappello bianco, con il fumo che sale e i grandi coperchi che sgocciolano, una immagine che non si può dimenticare.
Il gran bollito misto Piemontese si compone di sette tagli: tenerone, scaramella, muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello del prete. Questi tagli devono essere steccati con chiodi di garofano e poi immersi in acqua bollente appena salata, con cipolla, sedano, carota, rosmarino e uno spicchio d’aglio. In pentole diverse si cuociono invece i sette ornamenti: la testina di vitello completa di musetto, la lingua, lo zampino, la coda, la gallina, il cotechino e la rolata.
Il piatto è accompagnato da vari tipi di verdure e salse differenti. Le verdure utilizzate solitamente sono: le cipolline saltate al burro, le carote lesse, finocchi ripassati al burro, foglie di verza lessate, rape lesse, zucchine passate al burro e le patate lesse.
A completamento almeno quattro sui sette bagnetti che la tradizione ci propone. I più classici sono quello verde (bagnet vert), una salsa ottenuta da prezzemolo, acciughe, aglio e mollica di pane raffermo; quello rosso (bagnet ross), con pomodori, aglio, senape e aceto rosso, la salsa al cren, a base di una radice commestibile chiamata rafano, dal sapore molto fresco, aspro e pungente, la cognàpiemontèisa una salsa dolce a metà tra una mostarda e una conserva di frutta o una salsa al miele.
Sul tavolo c’era pane grosso, grissini, pane con noci, una buona barbera, ampolle di olio extra vergine per condire le patate e per allungare i bagnetti e le salse. Due piatti, uno per le sole carni e uno per i bagnetti e contorni di verdure. Ancora pepe e ciotole di sale grosso da spargere sulla carne togliendolo poi col coltello al momento di fare il boccone, piattino di burro da schiacciare con le patate bollenti.
Alla conclusione del nostro pranzo ci portavano una piccola tazza di brodo ristretto. Per il dolce non c’era più posto, solo un caffè e un buon amaro.
Quel giorno noi dovevamo presentarsi ben vuoti, riposati e ben disposti, non fare calcoli di tempo e men che meno di calorie.
La montagna Condovese è ricchissima in tradizioni e leggende, ed a volte basta poco per far tornare alla memoria ricordi che conducono alle antiche credenze sparse fra i montanari intorno a un misterioso nome “Toumba ‘d Matolda”.
Tra il Collombardo e il Colle degli Astesiani troviamo la “Toumba ‘d Matolda”. Secondo una leggenda il nome sarebbe legato a una principessa longobarda, che qui avrebbe trovato sepoltura durante la fuga dei Longobardi dai Franchi. In verità il nome “toumba” indica una zona elevata tondeggiante e “Matolda” probabilmente è il soprannome di una famiglia Lemiese che anticamente sfruttava i pascoli. Infatti numerose sono le toumbe nelle zone circostanti: la toumba veja, la toumba dou preive, la toumba dou coumùn, la sagna toumba, ecc.
Nelle veglie invernali si raccontava che una donna Matolda di nobile famiglia e giovane sposa da poco tempo, seguì il marito sulla via faticosa della montagna, per salvarsi da nemici spietati, ma non è possibile sapere in quale epoca e per qual motivo avvenne quella fuga. Forse i giovani sposi cercavano uno scampo a causa delle lotte fra Longobardi e Franchi, o fuggivano dai Saraceni che devastavano la Valle di Susa e dovettero cercare la salvezza nella fuga? Non credo si troverà mai una risposta a queste domande, perchè la sola memoria pur tanto incerta che ne resti di Matolda, dice solo ch’essa ed il marito fuggivano, e che smarrirono la via vicino al Collombardo.
Lassù, sia per la fatica del viaggio, sia perché Matolda cadde fra le rocce e si ferì a morte, non le fu possibile di continuare il faticoso viaggio, e soffrì una lunga agonia fra la solitudine delle montagne, che doveva in quei tempi essere spaventosa a causa degli estesi boschi. Forse Matolda nelle ore estreme capì che la morte stava arrivando, e per non rendere più acuto ancora il dolore dello sposo, non mosse lamento, ma pallida, ansimante, con la febbre negli occhi, non ebbe il coraggio di dargli un estremo addio, gli strinse invece forte la mano e si baciarono per l’ultima volta.
Di certo dovette essere triste l’ultima scena di quel dramma, che si svolse ad alta quota sulla montagna, mentre innanzi a quegl’infelici svaniva ogni bene e la felicità terrena fuggiva lontano. Ma forse ancora nell’ultimo delirio Matolda più non vide le cime delle montagne, i boschi dalle ombre misteriose, e pensò ad un lontano castello ove era stata amata e felice, ne rivide le torri merlate, le strette scale e le finestre gotiche spalancate verso i cortili.
Mentre il freddo l’assiderava e la notte cominciava a mettere nuovo terrore fra le ombre dei boschi ed i fianchi delle montagne, ella rivide pure vasti saloni illuminati dalla luce tremolante delle torce e dalle fiamme dei ceppi accesi nei camini, o le passarono innanzi in un vertiginoso turbinio paggi e cavalieri, damigelle e trovatori, nobili alani e falchi dagli occhi accesi; poi anche il delirio fini per Matolda, e mentre dormiva dell’ultimo sonno fu sepolta sulla montagna. Rimase lassù lontano da ogni essere umano, da quanto aveva amato sulla terra, ed ella che non era stata distesa in mezzo ai ceri, sotto un soffitto di legno scolpito, ebbe d’inverno sulla terra che la coprì, una coltre candida come era stata la sua veste di sposa, e riposò sotto le stelle ed il cielo.
Forse lo spirito di Matolda si uni alle fate che vanno di notte sulle montagne, e passa ancora sui rododendri e stelle alpine del Collombardo e del Civrari, fra la Valle di Susa e quella di Viù, e la segue l’ombra dello sposo morto in altra terra, memore sempre del suo dolce affetto.
Col passar del tempo la storia di Matolda è dimenticata dai montanari, ma il suo nome è rimasto alla regione dove ella fu sepolta, e lo ricordino gli escursionisti che raggiungono il Collombardo, per cercare le vecchie memorie di guerre e l’incanto di un paesaggio sublime; se andranno verso l’alpe che porta il suo nome, raccolgano sui pascoli i fiori di montagna, questi sapranno narrare alle fervide fantasie, la leggenda della giovane sposa morta sulla montagna.
Ormai forse pochi se ne ricordano, e molto probabilmente i più giovani nemmeno ne hanno mai sentito parlare, ma c’era una volta la colonia estiva Fiat, nata in un periodo in cui le vacanze estive erano ancora precluse alla maggior parte degli italiani. All’interno del sistema di welfare aziendale di Fiat le colonie costituivano un supporto ai lavoratori e anche un modo per far crescere la solidarietà aziendale e per ridurre la conflittualità nelle fabbriche.
Anche mio padre operaio Fiat mi iscrisse alla colonia estiva dal 1956 al 1959 (dai 7 agli 11 anni), destinazione Marina di Massa. Erano settimane di vacanza nelle quali certo non mancava la disciplina, allora molto in voga, e non vi era nulla nell’organizzazione delle giornate che fosse lasciato all’imprevisto. Non esistevano giornate inattive, vuote, c’era sempre un sacco di cose da fare, con orari precisi: giochi di squadra e sport, camminate, attività di gruppo e lavoretti. I regolamenti erano severi, oggi forse impensabili, le vigilatrici comandavano con modi autoritari: bagno, dormire, passeggiata, gabinetto, merenda. Ma chi ci è stato racconta ancora del piacere delle giornate trascorse al mare o in pineta, con amicizie nuove.
Il ritrovo per la partenza era in una palestra di Via Magenta a Torino, li venivamo vestiti con berretto bianco alla marinara, maglia blu e calzoncini bianchi, uguale per tutti i piccoli ospiti e distribuito gratuitamente, taglio capelli se troppo lunghi, quindi visita medica e dopo qualche iniezione di non so cosa, si raggiungeva la stazione di Porta Nuova e partenza in treno. Eravamo divisi in squadre tutte di maschietti, le femmine andavano in altro turno.
Negli anni Cinquanta, dopo la partenza in treno dei bambini, non c’era modo di sapere se il viaggio e l’arrivo in colonia erano andati bene. La Fiat il giorno successivo pubblicava sul quotidiano “La Stampa” un’inserzione molto breve in cui diceva che il viaggio si era svolto senza inconvenienti e che i bambini erano arrivati in colonia.
Arrivati a destinazione vediamo la colonia per i figli dei dipendenti Fiat, una grande torre bianca: si trova a Marina di Massa nella pineta apuana ed è stata realizzata negli anni trenta del secolo scorso, su progetto dell’architetto Vittorio Bonadè Bottino (lo stesso di Mirafiori e delle torri gemelle di Sestriere e Sauze d’Oulx), seguendo i canoni architettonici dell’epoca fascista. L’edificio è composto da una torre, di 17 piani e 52 metri di altezza, e due ali a pianta rettangolare lunghe 30 metri. I piani sono a sviluppo elicoidale e ogni camerata è progettata per ospitare una squadra di circa trenta bambini e una vigilatrice. Il particolare profilo elicoidale delle camerate, conferisce al pavimento un andamento costantemente inclinato per cui ogni lettino varia la lunghezza dei piedi per correggere l’andamento pendente.
Prima doccia e salita lungo la rampa elicoidale in fila per tre a ritmo di marcette militari a raggiungere la camerata, due file di lettini senza privacy, chiunque saliva per la rampa poteva guardare, solo i bagni e la camera della vigilatrice erano chiusi, i vestiti sono meno belli di quelli dati per la partenza da Torino, maglietta bianca, pantaloncini, sandali e il solito berretto alla marinara.
La vita della colonia era rigidamente scandita: dopo la sveglia alle 8 i bambini rifacevano il letto, poi seguiva la pulizia e lavaggio personali (anche le necessita fisiologiche erano a comando), la colazione, il rito dell’alzabandiera, infine ci si recava in spiaggia a squadre sempre in fila per tre. Poco tempo al sole e molto di più all’ombra.
Nelle belle giornate è previsto il bagno. Unanime è il giudizio negativo su questo momento che si svolge per pochi minuti, sotto il vigile sguardo degli assistenti e rigorosamente all’interno delle corde, guai a chi usciva fuori. Bagni di pochi minuti solo la mattina indossando un bruttissimo costume blu di lana, in un metro quadrato di mare. Il senso di libertà che provoca il gioco fra le onde è frustrato non solo dallo scarso tempo passato in acqua, ma anche dalla rigida disciplina che lo regola. Un fischio, e partiva allora, all’unisono, un urlo liberatorio di tutti i bambini e la nostra corsa forsennata, infine liberi, verso le onde che ci attiravano irresistibilmente. Mi ricordo che guardavamo con invidia i bambini che erano andati al mare con le loro mamme perché, contrariamente a noi, potevano fare tutto quello che volevano, specialmente in acqua. In caso di mare mosso ci portavano a fare il bagno in piscina ancora più ristretta.
Dopo il bagno, l’esposizione al sole: di pancia, di schiena o sui fianchi, a seconda del comando delle vigilatrici. Cambio indumenti sulla spiaggia in cerchio davanti a tutti. Poi seduti a braccia conserte come sempre.
Poi arriva l’ora di pranzo nel grande refettorio tutti seduti senza gomiti sul tavolo eri obbligato a mangiare tutto con un solo bicchiere d’acqua, mi ricordo di aver patito molto la sete. Poi il riposo in camerata, le attività pomeridiane riprendono con la distribuzione della merenda.Il pomeriggio prosegue con marce in pineta, giochi di squadra e ginnastica.
Una volta o due al mese ci veniva data una cartolina postale per rassicurare le famiglie e per manifestare ai genitori l’idea di un soggiorno all’insegna della salute fisica e mentale e che “stiamo tutti bene”. Tuttavia, la realtà era assai diversa. Le vigilatrici infatti erano molto attente a non far trasparire dalle cartoline stati d’ansia e nostalgia. I regolamenti penso prevedessero la censura nella posta in arrivo e in partenza. Se un bambino scrive la parola “nostalgia”, viene immediatamente censurata. Ci venivano suggerite frasi del tipo: sono felice, tutto è bello, si mangia bene, ecc. Rari e sempre sotto il controllo delle vigilatrici erano i contatti dei bambini con il mondo esterno.
In colonia era vietato portare denaro, solo qualche moneta consegnata alle vigilatrici per comperare a fine turno un souvenir in conchiglia da portare a casa in ricordo del soggiorno.
A partire dalla fine degli anni Sessanta l’idea delle colonie Fiat inizia ad andare in crisi. Il declino incomincia quando il modello culturale che le ha ispirate entra in conflitto con la sensibilità collettiva. Più precisamente la fine è iniziata con il boom economico, le famiglie in Seicento che pendolavano verso il mare senza più il bisogno di spedire i figli lontano “a respirare iodio” o “a stimolare la fame” di ragazzini rachitici che sarebbero tornati sani e forti. Le famiglie aspirano a organizzarsi le vacanze in modo autonomo. Arrivano poi gli anni di lotta e nell’aria si respira il rifiuto della “divisa” e di uniformarsi al volere aziendale. La vacanza offerta dalla fabbrica diviene così oggetto di contestazione durante gli anni dei conflitti sociali. Nel frattempo, anche l’azienda cambia le sue politiche di welfare e la Fiat smette di gestire direttamente le colonie.
La colonia estiva per me bambino era una scoperta ed era anche una sofferenza. La vacanza in colonia Fiat poteva essere evasione e poteva essere prigionia. Il primo lungo viaggio senza i genitori, un addio alla casa, alle care abitudini, ai compagni di gioco e senza possibilità di contatto, con coetanei ma sconosciuti, con una disciplina che definirei quasi da caserma, ma sempre un ricordo di altri tempi da conservare.
La valle di Susa è ricchissima in tradizioni e leggende, ed a volte basta poco per far tornare alla memoria ricordi che conducono alle antiche credenze sparse fra i montanari intorno al misterioso ed infernale potere delle streghe, come pure alle leggende strane che si raccontano ancora in ogni paese a prova del terrore che esse procuravano agli abitanti.
Chianocco è come Foresto molto affine di Mompantero, e stanno ai piedi delle ultime falde del Rocciamelone, minacciate sempre dai torrenti che gli precipitano quasi a picco sul capo sbucando dagli “orridi”. Forse dovrei cominciare dalla Ferrera per parlare di streghe; pare che in tutto il gruppo delle Alpi Graie per quegli orridi spaventosi le streghe abbiano buon vento e radice; tanto la Ferrera che Mompantero hanno i loro “pian delle streghe”, il “paradiso” e molti altri nomi in comune, oltre a molte credenze e storie di streghe.
Oggi narro solo due fatti molto raccontati e creduti a Chianocco. Due giovani partiti a tarda sera dalla loro borgata per andare in un’altra a trovare le loro belle nelle stalle, com’era d’uso in inverno, incontrarono lungo il sentiero una giovenca sola con un legaccio al collo; la credettero smarrita o fuggita dalla stalla, benché ne fossero meravigliati non essendo ciò cosa solita. Presero il capo del legaccio e la condussero con loro all’abitato per chiedere di chi fosse. La giovenca li seguì per un po’, passo passo, poi, prima di entrare fra le case, diede uno strappo e scomparve, ne fu mai più vista.
Entrando nella stalla furono stupiti di vedere una loro conoscente, entrata quasi insieme, tutta trafelata e avente al collo quello stesso legaccio della strana giovenca scomparsa. In quanto ai crini delle bestie intrecciate, e il trovare due vacche nella stessa catena è cosa comune a tutti i nostri paesi. In una veglia a un morto, un gattone nero si pigliava il gusto di spegnere il lumicino ponendovi su le zampe: cacciato si ritrovava sempre di nuovo allo stesso punto. Irritato di ciò, uno dei presenti si apposta, e con un falcetto dà un taglio alla zampa che si alzava per smorzare ancora il lume. Il gatto non gridò, e non corse, ma scomparve. Il giorno dopo una donna, già in fama di stregoneria, era a letto con un taglio alla mano identico a quello del gattone nero scomparso.
Ingenui racconti e credenze che sembrano assurde a chi non ha profonda conoscenza del passato, ma anche una preziosa eredità degli avi.
Ormai settantenne, raggiungo il mio paese Condove e imbocco la strada che porta alle borgate montane, parcheggio l’auto sulla provinciale per Laietto (“Ou Lieut”) nei pressi della Brera e percorro la mulattiera che porta al Coindo, borgata dove vivevano i miei genitori. Sapevo bene che i miei avevano coltivato la terra e sfruttato i pascoli di questa zona per sopravvivere. Avevo sentito parlare tante volte di fatica e miseria, ma a me erano sempre sembrate così lontane e irreali come nelle favole. Da bambino ero venuto molte volte quassù con mamma e papà, che non si stancavano mai d’insegnarmi i nomi dei luoghi, di raccontarmi gli aneddoti e le avventure delle persone della zona tramandati dalla gente, di farmi capire come si viveva una volta in montagna.
Solamente ora, però, guardando i ripidi prati del Coindo mi rendevo conto che tagliare il fieno nei “tsamp dl’anvers” verso Chiandone e trasportarlo a spalle, in grossi fasci, su nel fienile doveva essere una bella fatica. Una borgata che era popolosa, gente di montagna, gente d’altri tempi, dal carattere forte. Persone laboriose, avvezze al lavoro e alla fatica quotidiana, ma, al contempo capaci di sorridere, con quei modi di essere arguti e sornioni. Circa cento anni fa, una cinquantina di persone vivevano in questa borgata, che fu abbandonata perché arrivarono occasioni migliori e la gente riuscì a scappare da quella che considerava una schiavitù. Era stato mio padre nel 1936 a decidere di trasferirsi con la propria famiglia al piano, a Condove nella vecchia contrada dei Fiori, vendendo in seguito parte di tutto ciò che qui possedeva. Tornando in questi luoghi e vedendo l’abbandono delle case mi assale una tristezza infinita per cui ritorno all’automobile. Procedo verso Laietto e raggiungo Pratobotrile (Papoutrii in franco-provenzale, Pabotrì in piemontese) borgata dei miei nonni materni dove faccio uno spuntino alla locale trattoria. Nel pomeriggio opto per una passeggiata lungo la mulattiera che porta al ponte delle Turne.
Stavo ancora meditando sui fatti del mattino, quando mi si para davanti il “Rok lounck” (in franco-provenzale) o “Ròch longh” (in piemontese). Ad altri avrebbe detto poco o niente quel pietrone aguzzo; qualcuno avrebbe pensato alle difficoltà di arrampicata altri ne avrebbero calcolato a vista le misure; forse qualcuno non l’avrebbe neanche notato; probabilmente pochi avrebbero pensato che avesse anche un nome.
Nella mia mente scomparve invece ogni altra rimembranza per lasciar affiorare le parole che diceva mio nonno materno Battista Pautasso (Tita dou Ieun) ogni volta che passavamo insieme in quel luogo. “Questo è “lou rok lounck” portato dal diavolo quando voleva distruggere una baita per vendicarsi di torti subiti e, presa la cima di una rupe aguzza, la caricò sulla schiena volando con rapidità, verso la baita, per farla piombare su di essa; ma per una ragione incomprensibile, e prima che egli giungesse alla meta del suo viaggio perdette ogni forza lasciando cadere il masso qui”. E continuò: “Ecco se osservi bene quelle scanalature che lo attraversano, ti accorgi che sono state scavate da una grossa corda di ferro. Era la corda con cui il diavolo l’aveva legato per tenerlo ben saldo sulla schiena e trasportarlo fin qui. E se guardi in alto, vedi che è un po’ scavato, come se si fosse ammaccato in due punti, e precisamente dove poggiava sulla testa e sulla schiena ricurva del diavolo”.
Nonno fece una pausa per accendersi il sigaro ed aggiunse: “Devi sapere che questa roccia è magica e si apre lungo quella fenditura alla mezzanotte precisa del giorno di S. Giovanni per lasciar intravedere il tesoro che nasconde”.
Ed ecco affiorare anche il ricordo della mia solita domanda di bambino: “Nonno, ma non è possibile andare a prendere quel tesoro?” Risposta: “Si, si può, ma solo quando la pietra si apre, a mezzanotte in punto del giorno di S. Giovanni; però bisogna fare presto, perché si richiude subito”.
Ricordavo anche l’altra domanda di rito: “Nonno, ma non c’è mai stato nessuno che l’ha fatto?”. Ed ecco la consueta risposta: “Si, una volta Notoudou Tcheuk ha aspettato che si aprisse, si è infilato dentro, ha visto il tesoro, ma non ha fatto in tempo a raccogliere poche monete d’oro che la roccia si è richiusa. Notou è rimasto chiuso fino all’anno successivo, quando, nella notte di S. Giovanni, appena la roccia si è aperta, pieno di paura, è uscito in tutta fretta, senza preoccuparsi di portar via il tesoro. Si era talmente spaventato che i capelli gli erano venuti bianchi ed inoltre era diventato cosi magro che quando inaspettatamente arrivò a casa, i suoi non l’avevano riconosciuto”.
La mia mente di bambino continuava però a fantasticare; si rifiutava di credere che fosse una leggenda e quasi si convinceva fosse tutto vero, del resto, quel nome così specifico con tanto di paternità che il nonno pronunciava in modo convinto, non poteva essere inventato Notou sarà esistito veramente, era vera la sua esistenza, per cui poteva essere vera anche l’esistenza del tesoro.
Ma oggi non posso continuare a rivivere le esperienze di bambino; ora desidero scoprire i motivi per cui ci sono diverse leggende che parlano di tesori nascosti nella stessa zona come al Collombardo, Collombardino e alla Tomba di Matolda; perché l’apertura dou Roklounck avviene proprio nella notte di S. Giovanni il 24 giugno. E man mano che proseguo nella mia passeggiata tante domande e curiosità si affacciano nella mente, ma sento che manca qualcosa per poter dare a tutte una risposta esauriente, e che forse avrei potuto farlo con l’aiuto del nonno “Ah se ci fosse ancora, perché senza di lui mi è così difficile?” mi domando.
Nella mia lunga e solitaria meditazione mi sono reso conto che occorre possedere la cultura dei montanari per scoprire nel mondo della natura l’anima delle cose. E ora che questa cultura si sta perdendo, chi trasmetterà alle nuove generazioni i nomi, le sensazioni, le leggende che permetterebbero loro di scoprirla? In fin dei conti io mi sento ancora un privilegiato perché posso far tesoro di quel poco che di questa cultura mi ha trasmesso il nonno.
A volte basta un soffio di vento per far tornare alla memoria ricordi che conducono a luoghi e persone. Oggi voglio raccontare una leggenda che circola da tempo immemorabile nella valle di Susa, antica e meravigliosa, resa ancora più magica dallo scorrere del tempo. È una prerogativa della valle che sia durante l’estate che nel periodo invernale, il vento molesto soffi addosso a tutto e tutti per la maggior parte dell’anno. C’è poi un punto, il colle del Moncenisio, dove il vento non smette mai di soffiare, allargandosi poi per la valle sottostante fino a raggiungere i dintorni di Torino.
Due viandanti giunti al colle da Lanslebourg-Mont-Cenis, furono sorpresi da forti raffiche di vento. “Curioso!” disse uno, “è già la terza volta che passo di qui e sempre vi trovo questo noioso vento che mi porta via il cappello!”. “Si vede che sei forestiero”, rispose l’altro. “Devi sapere che da questa strada, prima ancora che passasse Annibale, Napoleone, e tanti altri, era già disceso, nei tempi antichi, un gran personaggio, il diavolo chiamato “Le grand seigneur“. Camminando, s’incontrò col “Principe del vento“, (colui che ha il potere di soffiare con violenza il terribile vento del diavolo, che passa sibilando nei boschi e nelle valli), col quale proseguì la via.
I due compagni, se così si può dire, camminarono e parlarono a lungo. Giunti a questo passo, il diavolo, picchiandosi in fronte disse: Stavo dimenticando una piccola faccenda che debbo sbrigare in un villaggio poco lontano, è un affare molto delicato, e devo andarci di persona; aspettami un momento che son subito di ritorno”.
Ma, dopo quella piccola faccenda, il diavolo ne trovò delle altre ben più importanti, poi altre e altre ancora in gran numero; trovò insomma cosi buon terreno per i suoi affari che non è più potuto disbrigarsi di là, mentre il vento, fedele alla consegna, si ritrovò a fare avanti e indietro, avanti e indietro, senza alcun risultato, fino ai giorni nostri.
Morale della favola: Il diavolo, considerato che nel villaggio si era trovato molto bene, che le sue proposte erano state accettate con entusiasmo, e gli affari che gli si prospettavano con gli umani compari sarebbero stati assai soddisfacenti, non si è più mosso da lì. Il vento, disperato, è rimasto ad aspettarlo, ed è ancora lì, ne sono certo, e la valle di Susa è diventata la valle del vento, a meno che questa maledizione non venga interrotta da qualche sortilegio. E poi c’è chi dice che non bisogna credere nelle favole…
Quand’ero ragazzino negli anni 50 del secolo scorso ed abitavo alla contrada dei Fiori di Condove, c’era un evento oltre a quello del 2 agosto, festa della Madonna degli Angeli patrona del Santuario del Collombardo, a cui i miei genitori non volevano assolutamente mancare ed era il 29 settembre festa di San Michele nella omonima Abbazia di San Michele della Chiusa monumento notissimo della Val di Susa.
Quel giorno tutta la famiglia si svegliava presto, e dopo una buona colazione e preparato lo zaino col pranzo al sacco, iniziava la camminata per raggiungere l’Abbazia. Scendevamo dai Fiori fino alla stazione ferroviaria per poi arrivare alla Chiesa di San Pietro Apostolo nel comune Chiusa San Michele (378 m), dove alla destra della stessa iniziava il sentiero che ci portava alla Sacra. La mulattiera era un lastricato di pietre e la salita si faceva subito sentire ma il percorso era ombreggiato nel bosco. Lungo il percorso, dopo circa 50 minuti incontravamo un bivio che a sinistra indicava la via per borgata San Pietro, noi mantenendo la destra, raggiungevamo più sopra un pianoro nel bosco con fontanella.
Breve sosta per bere un bicchiere di acqua fresca e poi proseguivamo arrivando all’ampio piazzale del Colle della Croce Nera (859 m) dove una stradina conduceva al Sepolcro dei Monaci e alla millenaria Abbazia (962 m). Mi sembra di ricordare che dai Fiori di Condove alla Sacra di San Michele impiegavamo quasi 2 ore e mezza.
La Sacra di San Michele è un edificio che contiene una serie di fasi architettoniche, anche molto tarde, che hanno contribuito a determinare l’aspetto attuale così romantico della basilica e del complesso monastico. La bellezza paesaggistica, le opere d’arte conservate al suo interno, la sua architettura, lo scalone dei morti, fungono da forte richiamo per le migliaia di turisti e per questo motivo, per la sua bellezza e imponenza e per il suo suo stato di conservazione, è stata riconosciuta come Monumento Simbolo del Piemonte.
Ma per mio padre la gioia più grande era veder apparire nel suo abito nero, luminoso nell’aspetto e nello spirito, sempre sorridente, quasi a far da tramite tra l’oscuro “scalone dei morti” e la chiesa sovrastante padre Andrea Alotto vecchia conoscenza di gioventù e quasi coetaneo.
Tutti i Condovesi conoscevano padre Alotto e sanno che era nato a Mocchie il 26 giugno 1902 nella piccola borgata dei Sinatti, frequenta i primi quattro anni di scuola elementare in montagna ed il quinto a Condove poi studi superiori in Seminario a Susa. Inizia il noviziato nel 1923 nella Congregazione religiosa fondata da Rosmini, consacrato sacerdote nel 1933, e dal 22 ottobre 1943 rettore della Sacra di San Michele. Affronta con energia e saggezza i venti mesi cruciali della guerra civile e della resistenza, svolgendo un ruolo determinante. La Sacra diventa luogo di rifugio per i perseguitati, mentre i partigiani la utilizzano talvolta come punto di osservazione. Nell’ambito del vasto rastrellamento del maggio 1944, i tedeschi perquisiscono la Sacra e minacciano di morte i padri, accusandoli, tra l’altro, di nascondere armi per i partigiani. Lascia la Sacra nel 1946 ma dopo un periodo trascorso tra Roma e Stresa torna definitivamente sul monte Pirchiriano nel 1951 dove rimane fino al maggio 1992 quando passa a Stresa. Si è spento il 7 gennaio 1993 e con lui è finito un importante capitolo della storia della Sacra di San Michele.
Era bello vedere i miei genitori parlare con padre Alotto, lui con il libro delle preghiere tra le mani sapeva donare serenità ed era felice di poter discorrere e raccontare episodi della vita e di sentire notizie del paese natio, sembravano immersi in un’altra dimensione in un momento unico ed irripetibile.
Dopo la chiacchierata con il padre e la visita alla Sacra si tornava al pianoro della fontanella per consumare il pranzo. C’era una maggiore disponibilità ad apprezzare le cose semplici, bastava sedersi sull’erba, davanti ad una ruvida tovaglia che offriva fette di pane scuro, un piatto di acciughe al verde, l’immancabile toma nostrana, salame, uova sode, qualche fetta di polenta e un fiasco di Avanà il vino rosso locale, per ritrovare poi l’allegria e un nuovo gusto per la vita.
Ma il tempo vola, si deve far ritorno a casa, il percorso in discesa era più facile e lo zaino era alleggerito dei cibi consumati; rimaneva il ricordo di un monumento bellissimo pur se visto più volte e la figura di padre Andrea Alotto là in piedi davanti al portale dello Zodiaco custode affabile, fedele e discreto dell’abbazia.
Le comunicazioni attraverso la Valle di Susa hanno sempre avuto grande importanza nelle relazioni fra l’Italia e la Francia e, in particolare, fra il Piemonte e la Savoia, regioni che facevano parte entrambe del Regno di Sardegna. La legge che autorizzava la costruzione della ferrovia Torino-Susa, quale prolungamento della Genova-Torino, venne approvata il 14 giugno 1852 dopo un dibattito parlamentare che si protrasse intenso e serrato per oltre cinque giorni. Fu fortemente voluta da Cavour che già immaginava una grande rete nel Regno collegata alle linee francesi e svizzere per favorire l’affluenza di navi al porto di Genova ed il trasporto passeggeri e merci.
Il Regno di Sardegna approvò una convenzione con la Società inglese Jakson, Brassey ed Henfrey per la costruzione della strada ferrata da Torino a Susa. Per il relativo finanziamento vennero emesse azioni al portatore; la convenzione riservava l’esercizio della linea al Governo che doveva pertanto provvedere al materiale rotabile e al personale, prelevando in compenso il 50 % del reddito lordo.
Non presentando l’esecuzione dei lavori particolari difficoltà tecniche, la linea venne ultimata nel corso di due soli anni e inaugurata il 22/5/1854 in Susa alla presenza del Re Vittorio Emanuele II e della Regina Maria Adelaide d’Austria, delle altezze reali Duca e Duchessa di Genova, il Principe di Carignano Eugenio Emanuele Giuseppe Maria Paolo Francesco Antonio di Savoia Villafranca.
Oltre alla Real casa parteciparono alla festa il Presidente dei Ministri Camillo Benso Conte di Cavour, Dabormida Ministro degli Affari Esteri, Rattazzi Ministro degli Affari Interni Guardasigilli, Cibrario Ministro Istruzione Pubblica, Lamarmora Ministro della Guerra, Paleocapa Ministro dei Lavori Pubblici, Cav. Des Ambrois Presidente del Consiglio di Stato, Agnes deputato del collegio elettorale di Susa, e alcuni membri delle Camere dei Senatori e Deputati. A seguire un banchetto per circa 500 persone. Colpi di cannone diretti da un drappello di artiglieria, falò sulle alture della Brunetta e fuochi artificiali resero bella ed allegra la sera del 22 maggio.
In tale circostanza vennero fregiati della Croce per Munificenza Sovrana quattro personaggi della città di Susa: il Capo dell’Amministrazione della Provincia di Susa Intendente Barone Cholosano di Valgrisance, Cler dott. Francesco sindaco di Susa, dott. prof. Ponsero Giuseppe Provveditore agli Studi della Provincia, Galassi dott. Benedetto Maggiore d’Armata e della Milizia Nazionale.
La strada ferrata, lunga chilometri 52,400 era attraversata da 80 passaggi a livello e fiancheggiata da 11 stazioni (Collegno, Alpignano, Rosta, Avigliana, Sant’Ambrogio, Condove – Chiusa San Michele, Sant’Antonino – Vaie, Borgone, Bruzolo, Bussoleno, Susa) e 21 case cantoniere.
La linea venne a stabilire un comodo e veloce collegamento con il servizio postale delle diligenze che da Susa, attraverso il Moncenisio, raggiungevano l’alta Maurienne. Su di essa si sviluppò un movimento, specie di viaggiatori, che inizialmente fu superiore alle aspettative. Nel 1854, in poco più di 7 mesi di esercizio, circolarono sulla linea 1.354 convogli che trasportarono circa 250.000 passeggeri. Per il movimento delle merci non ci fu, almeno all’inizio, servizio distinto da quello viaggiatori, i treni avevano una composizione mista che permetteva di trasportare tutto. Il servizio di trazione era svolto da locomotive a vapore Stephenson.
Negli anni immediatamente successivi, la ferrovia Torino-Susa, assieme alle altre linee del Piemonte, contribuì in maniera determinante alla vittoria del Regno Sardo e degli alleati francesi rendendo possibile il comodo trasporto dell’armata francese che nel 1859 raggiunse il Piemonte e il rapido spostamento delle truppe durante la guerra.
All’inizio del 1858 l’esercizio della linea venne assunto dalla Società delle strade ferrate Vittorio Emanuele, nata il 19 maggio 1853, ma già nel 1863 la Compagnia Vittorio Emanuele cedette al governo tutti i diritti e dal 1° ottobre l’esercizio della Torino-Susa ritornò allo Stato.
Nel 1865, con la legge del 14 maggio n. 2279, che stabilì il riordinamento generale e lo sviluppo della rete ferroviaria italiana, la linea passò alla Società governativa delle Strade Ferrate dell’Alta Italia.
Nello stesso periodo si discuteva del progetto del traforo del Frejus, i cui lavori iniziarono il 31 agosto 1857 e terminarono con l’inaugurazione nel settembre 1871; mentre nel frattempo veniva anche completato il tratto di ferrovia tra Bussoleno e Bardonecchia i cui lavori erano iniziati già nel 1867. La decisione degli ingegneri di far partire la tratta mancante da Bussoleno, per superare un forte dislivello in prossimità di Meana di Susa, fu assai criticata perché escluse la città di Susa dalla linea ora internazionale, (la Savoia e Nizza col trattato di Torino del 1860 erano state annesse alla Francia) isolandola su un breve troncone laterale.
Molti tra gli architetti e gli ingegneri che contribuirono alla realizzazione del traforo del Frejus sono ricordati tutt’oggi, perché a loro sono state dedicate vie e piazze in Piemonte e in Savoia. Tra questi, Joseph François Medail, Luigi Des Ambrois de Nevache, Pietro Paleocapa, nonché la triade degli ingegneri Grandis, Grattoni e Sommeiller, che curarono il progetto esecutivo e diressero i lavori.
Per ospitare maestranze e materiali furono impiantati due cantieri a Bardonecchia e Modane, che ospitarono quasi 4.000 tra operai e tecnici. Lo scavo della galleria venne iniziato con perforazione a mano e il 31 agosto 1857 il Re inaugurò solennemente l’inizio dei lavori facendo brillare la prima mina. La perforazione meccanica ebbe inizio il 12-1-1861 all’imbocco Sud e il 25-1-1863 all’imbocco Nord e procedette velocemente, nonostante le molteplici difficoltà naturali e la lunghezza del tunnel, grazie al sistema di compressori idraulici automatici per la somministrazione dell’aria compressa alle macchine perforatrici ideate dall’ing. Sommeiller.
A seguito dell’annessione della Savoia alla Francia, venne intanto stipulata a Parigi il 7 maggio 1862 una convenzione in virtù della quale la Francia assunse a suo carico la spesa per la costruzione di metà del tunnel in costruzione. Con legge 25 agosto 1870, prima che la perforazione fosse ultimata, si concesse alla Società delle strade ferrate dell’Alta Italia anche la costruzione e l’esercizio del tratto da Bussoleno a Bardonecchia e il diritto di esercitare la parte del traforo cadente in territorio italiano.
Il 25 dicembre 1870 la sonda perforò l’ultimo strato di roccia, che cadde il giorno successivo sotto lo scoppio delle mine, e il 17 settembre 1871 fu inaugurato il tunnel, avente la lunghezza di km. 12,233. Il 16 ottobre 1871 fu inaugurato l’esercizio ferroviario regolare nel tunnel e sulle linee di allacciamento a Bussoleno da una parte e a Modane dall’altra.
Con la stessa legge 15 agosto 1857, come si è detto, era stata stabilita la costruzione anche della linea Bussoleno-Bardonecchia, che, staccandosi dalla Torino-Susa subito dopo la stazione di Bussoleno e sviluppandosi lungo il corso della Dora Riparia prima e del torrente Bardonecchia dopo, doveva costituire il completamento dell’intero sistema ferroviario di collegamento al traforo del Frejus. Essa richiese la costruzione di 15 gallerie della lunghezza complessiva di m. 6.400, di costose ed importanti opere di difesa lungo la Dora e di 129 ponti e viadotti, di cui 30 aventi luce superiore ai 10 metri. La linea Bussoleno-Bardonecchia, avente la lunghezza di km. 41 di cui 24 a unico binario e 17 (da Salbertrand a Bardonecchia) ad un binario ma con la sede per il doppio, comprendente 7 stazioni e 44 case cantoniere, venne aperta all’esercizio il 16 ottobre 1871, a semplice binario.
La nuova linea, sin dall’apertura, si dimostrò utilissima agli scambi commerciali tra l’Italia e la Francia, tanto che fu poi deciso il raddoppio del binario su tutto il percorso francese e su una parte di quello italiano. Il 18 aprile 1872 venne completato il doppio binario in galleria.
Il 17 settembre 1871 vi fu il viaggio inaugurale da Torino a Modane, con la partecipazione del Re Vittorio Emanuele II. Al viaggio seguì un banchetto a Bardonecchia per 1300 invitati seguito da una fastosa cerimonia a Torino.
L’apertura del traforo ferroviario del Frejus diede definitiva soluzione al problema, impostato molti anni prima, del valico ferroviario del Moncenisio. Collegamento storico tra i due versanti delle Alpi, il Moncenisio aveva visto per decine di secoli transitare (per lo più a piedi) pellegrini, merci, commercianti, eserciti. La traversata del colle, soprattutto nel periodo invernale, era resa possibile dai portatori locali detti “marrons” che, grazie alla conoscenza dei luoghi, sapevano guidare gli intrepidi viaggiatori attraverso mille difficoltà. A dimostrare l’estremo interesse che aveva l’Italia a risolvere il problema dei valichi ferroviari delle Alpi per il commercio dei porti italiani e quello del Moncenisio in particolare, bisogna ricordare la ferrovia Fell, così chiamata dal suo inventore e costruttore.
Si trattava di una ferrovia lunga circa 71 km. a scartamento ridotto, che venne costruita lungo la strada del Moncenisio per collegare Susa a Saint Michel de Maurienne. A difesa dalle valanghe e dalle forti nevicate era protetta da gallerie artificiali per circa 10 km., con tetto di ferro a forma semicircolare e pareti in legno. I convogli ferroviari erano formati, oltre che dalla locomotiva a vapore Gouin, da un carro bagaglio e da 3 vagoni per viaggiatori , a due assi, con porte alle testate e sedili disposti parallelamente alla strada per 12 viaggiatori. I vagoni e la locomotiva erano dotati, oltre che dei soliti freni sulle ruote, anche di un apparato frenante agente, a mezzo di ruote di stringimento, su una terza rotaia centrale.
La ferrovia Fell fu collaudata il 29 aprile 1868 e, dopo molte prove, fu aperta definitivamente al servizio viaggiatori il 15 giugno dello stesso anno. Rimase in esercizio poco più di 3 anni, fino all’apertura del traforo.
I treni consentivano il trasporto di circa 36 viaggiatori e relativi bagagli da Susa a Saint Michel in circa 5 ore, rispetto alle dodici ore delle diligenze tirate da 3 coppie di cavalli, i viaggiatori e le merci compivano il tragitto, affrontando un viaggio non certo agevole, ma quasi privo di rischi. Il viaggio però non era facile per il calore che si sviluppava all’interno dei vagoni, specie nelle gallerie, molto basse, e per il fumo ed il vapore che entravano dalle porte. Inoltre, i prezzi di trasporto erano di poco inferiori a quelli delle diligenze e il tempo guadagnato si perdeva a Saint Michel e a Susa per attendere le diligenze, alla cui coincidenza erano legati gli orari dei treni di proseguimento.
L’ingegnere Fell si era prefisso lo scopo di smaltire, in attesa dell’apertura del traforo del Frejus, il traffico della strada del Moncenisio. In effetti, per i motivi suindicati, per le difficoltà tecniche, per la cattiva prova data dalla locomotiva, per il ritardo di circa 1 anno nella sua costruzione e per l’anticipo di circa 3 anni nell’apertura del traforo del Frejus, la ferrovia Fell, che era stata concepita con altri propositi e che era stata inizialmente accolta dal pubblico e dalla stampa, anche specializzata, quale brillante soluzione di un problema giudicato fino allora insolubile, si dimostrò in pratica solo un interessante tentativo di costruzione di ferrovia di montagna.
Il 1 luglio 1905 lo Stato assunse direttamente la gestione della rete ferroviaria italiana (e quindi anche delle linee piemontesi), con la costituzione dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato sotto il controllo del Ministero dei Lavori Pubblici. La gestione comportava l’esercizio di circa 10.500 chilometri di linee e l’assunzione di oltre 100.000 lavoratori delle ferrovie.
La linea della Val di Susa, originariamente per lo più a binario semplice (ad eccezione del traforo del Frejus, realizzato da subito a doppio binario), venne raddoppiata il 1º dicembre 1908 tra il Quadrivio Zappata e Collegno, nel 1909 tra Beaulard e Salbertrand, nel 1911 tra Collegno ed Alpignano, nel 1912 tra Alpignano ed Avigliana, nel 1915 tra Avigliana e Bussoleno, nel 1977 tra Salbertrand ed Exilles, nel 1983 tra Exilles e Chiomonte, nel 1984 tra Bussoleno ed Meana, e nel 1985 tra Meana e Chiomonte.
L’esercizio elettrico ad inizio novecento eliminò tutti gli inconvenienti della trazione a vapore nel tunnel del Frejus, che si svolgeva in condizioni molto difficili nonostante i complessi impianti di ventilazione artificiale.
Dopo la guerra 1915-1918 l’esercizio elettrico fu esteso all’intera linea. Si ritenne necessaria la costruzione di una grande centrale idroelettrica a Bardonecchia, utilizzando le riserve idrauliche dei torrenti Rochemolles e Melezet, per l’alimentazione della linea e dell’intero sistema trifase piemontese. Dopo la deviazione del Melezet, realizzata nell’ottobre 1920, venne attivata la trazione elettrica nel successivo mese di novembre da Bussoleno a Torino.
Gianni Cordola
Bibliografia:
Le ferrovie della valle di susa dalle origini a oggi – Segusium n. 9 anno 1972 – Stab. Edit. SASTE Cuneo
135 anni di strada ferrata – Raccontavalsusa 1989 – Tipolito Melli di Susa
Ël barachin o gavëtta o gamela sono termini piemontesi per indicare il portavivande, un contenitore di metallo originariamente di solo alluminio che diventa di acciaio nella seconda metà del Novecento. È composto generalmente da due pezzi che si incastrano tra di loro, un recipiente più grande che può fungere da pentolino adatto a contenere pasta o minestra, superiormente una pietanziera e un coperchio che una volta chiuso ha la funzione di tenere tutto assieme.
Veniva usato per trasportare e consumare il cibo in una borsa simile alle cartelle scolastiche, assieme a pane, a una bottiglia più o meno grande per il vino e alle posate avvolte in un tovagliolo. Il cibo è quello preparato dalle madri o dalle mogli. Il menù è vario, ma prevalgono le tradizioni regionali: i piemontesi portavano la minestra di verdura con pasta e riso, i veneti la polenta e i meridionali la pasta. Era bello vedere la diversità del cibo, c’era chi mangiava solo il primo, chi solo il secondo.
Parliamo di un oggetto che si associa anzitutto alla classe operaia quando nella prima metà del secolo scorso in Valle di Susa l’alternativa immediata alla campagna era rappresentata dall’industria, il termine barachin venne adottato per indicare gli operai stessi, poiché si portavano al lavoro il pranzo da casa in contenitori per poi riscaldarli. Un esempio su tutti furono gli operai della Moncenisio di Condove e della Fiat quando erano nel loro massimo splendore; essi erano soprannominati barachin.
Nelle aziende venne allestita una sorta di refettorio: in un angolo, con una specie di bacinella metallica o un pentolone riempito d’acqua fino a metà e con a fianco una bombola di gas e un fornello; prima della breve pausa pranzo, gli operai riponevano le gamelle e accendevano il fuoco per scaldarle a bagnomaria.
In seguito alle lotte operaie per il diritto alla refezione venne emanato il R. D. del 14 aprile 1927, n. 530 (Decreto ministeriale 20 marzo 1929) Regolamento Generale per l’Igiene del lavoro che prevedeva:
Art. 30. (Refettorio) Le aziende industriali e commerciali nelle quali più di 50 dipendenti rimangono nello stabilimento durante gli intervalli di lavoro, per la refezione, debbono avere uno o più ambienti destinati ad uso di refettorio e muniti di sedili e di tavoli. Omissis…
Art. 31. I refettori devono essere ben illuminati e ventilati ed inoltre riscaldati nella stagione fredda. Omissis…
Art. 32. Ai lavoratori dovrà essere dato il mezzo di conservare in adatti posti fissi le vivande che hanno portato con sé, di riscaldarle e di lavare i relativi recipienti. È vietato lo spaccio di vino, di birra e di altre bevande alcooliche nei refettori e in qualunque parte dello stabilimento.
Anche Condove si adegua alle nuove esigenze e nel 1941 la fabbrica locale Officine Moncenisio già Anonima Bauchiero nonostante le difficoltà derivanti dalla guerra in corso che rendevano difficile l’approvvigionamento delle materie prime inaugurava un grande edificio destinato a mensa per gli operai e deposito biciclette.
Col tempo del barachin non ne fanno uso soltanto gli operai ma tutti i lavoratori pendolari che non possono tornare a casa per pranzare o cenare, a causa della distanza o dell’orario continuato al lavoro. Anche gli impiegati andavano a lavorare con il barachin, ma le donne impiegate preferivano chiamarlo più elegantemente pietanziera. Il barachin connota il personaggio ed entra in espressioni di tutti i giorni, specialmente in Piemonte: “a travaja da barachin”, “a l’é un barachin dla Monce”, “a fa ‘l barachin da Gioanin Lamiera”.
La mensa con cucina fresca verrà conquistata solo più tardi nei primi anni 70, quando era difficile dire di no ad operai e sindacati.
Da Gino e Poldo, la storia della pizza al padellino a Torino
Com’era la Torino negli anni 30 del secolo scorso? Gli abitanti ad inizio decennio erano circa 590.000, l’aria echeggiava di “cerea”, in via Roma erano iniziati i lavori di realizzazione della nuova via con i portici, piazza San Carlo era ancora un salotto anche se occupata dai negozianti sfrattati da via Roma, i Murazzi ancora conservavano l’aria triste di una rimessa di barche sul lungo fiume e già si vedeva il grande sviluppo industriale. Così, appariva a prima vista Torino agli occhi di un giovane di belle speranze.
In quel decennio Torino vede aprire accanto alle autoctone “piole e le antiche birrerie” in cui si gustavano i piatti della tradizione regionale, delle botteghe dove si cuoce la farinata e il castagnaccio e successivamente la sempre più importante pizza al padellino o tegamino. Tonda, contenuta e composta, cotta in un piccolo tegame, da cui il nome, di un diametro che non supera mai i 20 centimetri.
L’origine di questa pizza non è torinese ma ha sicure origini liguri – toscane, anche se non si sa quanto antiche, ma per i torinesi la pizza al padellino ha il suo luogo elettivo in Altopascio (prov. Lucca), da cui provengono gran parte dei pizzaioli torinesi d’antan. Non si sa con precisione quando viene cotta la prima pizza al padellino a Torino, ma una certezza arriva nel 1935 quando arriva dalla Toscana Gino Orsucci che apre bottega prima in via Germanasca e poi nel fabbricato del vecchio cinema Eliseo in via Monginevro in vicinanza di piazza Peschiera (attuale piazza Sabotino), lì lavorava con la moglie ed il cognato Poldo (Leopoldo Ghilarducci).
La scelta della zona borgo San Paolo non è casuale, perché da rurale era diventata industriale con una considerevole espansione edilizia e un notevole incremento della popolazione.
Gino inizia a vendere farinata davanti le scuole con la bici triciclo e con il fuoco acceso, cuoce la farinata sul posto. Il fratello della moglie Poldo nel 1939 lascia il cognato e si trasferisce in Via Villafranca (attuale via Di Nanni) aprendo un nuovo locale tuttora esistente con la sorella Ines in un piccolo negozio dove già s’impastava qualcosa.
Poi la guerra: anni tremendi, anni di cui conservare in cuore, nel silenzio, il ricordo, il fabbricato dove esercita Gino viene distrutto parzialmente dai bombardamenti alleati del novembre 1942 nel conflitto mondiale interrompendo per due anni anche le proiezioni cinematografiche. A dicembre 1942 Gino torna in Toscana e vi resta sino al termine del conflitto mondiale, invece Poldo rimane in città nonostante i continui bombardamenti aerei.
Finite le ostilità Gino ritorna a Torino e apre il forno in Via Monginevro 46 dove resterà sino ai giorni nostri subentrando nella gestione il figlio Roberto. Possiamo affermare che gli storici della pizza al tegamino di Torino sono Gino, Poldo e Cecchi che lavorava in via Nicola Fabrizi.
Nel secondo dopoguerra Torino vede aprire diverse trattorie in particolare quelle toscane, per meglio dire di Altopascio, se ne contavano infatti tantissime. Era un mangiare alla buona, in un’atmosfera rilassata spesso festosa. In città, esisteva uno sparuto numero di pizzerie che si contavano sulle dita di una mano, gestite in genere da toscani, dove si mangiava la farinata e la pizza, però esclusivamente al padellino. La pizza al mattone, non esisteva, e i gusti generalmente disponibili per i clienti, erano due o tre: con o senza le acciughe e la “Margherita”. Aggiungo, che sulla pizza veniva messa una spolverata di origano fresco. Le pizzerie, erano ambienti diversi da quelli di oggi: tutte le stanze erano rivestite di piastrelle bianche, come se si trattasse di un’immensa cucina ed al massimo avevano un paio di tavolini.
Nei decenni passati era d’uso a Torino, e in parte anche ora, di mangiare una porzione di farinata quel favoloso impasto di olio e farina di ceci prima della pizza al tegamino. Avendo le due preparazioni anche la stessa tipologia di cottura, in tegami di ferro, per molti storici dell’alimentazione è più che plausibile, quindi, che siano strettamente apparentate, se non addirittura una l’antenata dell’altra. A nascere prima, comunque, fu la farinata, visto che la sua data di nascita è posizionata a diversi secoli prima e invece i locali di pizza al tegamino sotto la Mole sono arrivati solo negli anni ’30 del secolo scorso, per poi avere un dominio assoluto durato per decenni.
La pizza al padellino si contraddistingue per la doppia lievitazione dell’impasto e per la cottura al forno all’interno d’una piccola padella o d’un piccolo tegame (ossia una bassa teglia circolare in alluminio oppure in ferro e priva di manici) reso antiaderente mediante un velo d’olio d’oliva.
Nonostante alcuni dibattiti in merito al nome più corretto per designare questa pietanza, i qualificativi al tegamino o al padellino sono parimenti impiegati sia nelle insegne e nei menù delle pizzerie torinesi, sia nel linguaggio comune. La tradizionale pizza napoletana, cotta in forno senza l’uso del tegamino, viene invece localmente chiamata pizza al mattone, e vedrà la sua comparsa in città solo verso il 1960 l’anno prima dei festeggiamenti per il centenario dell’unità d’Italia. Per chi è nato recentemente, sembra incredibile la storia della pizza a Torino, visto il proliferare di pizzerie al giorno d’oggi.
Ma torniamo alla pizzeria di Poldo, nel 1970 dalla Puglia emigra a Torino la famiglia Stella, uno dei figli Pasquale giovane tredicenne inizia l’anno successivo a fare il lavapiatti nella pizzeria Alba in corso Racconigi. Quest’ultima era stata dipendente di Poldo fino al 1967 quando aprì in via Frejus un locale dove si cuoceva farinata e pizza al tegamino e solo più avanti si spostò in corso Racconigi. Pasquale dopo appena un mese come lavapiatti passa al forno e vi lavora fino a settembre 1972 quando viene assunto da Poldo. Nel 1977 viene chiamato al servizio di leva come carabiniere e vi resterà circa sei anni. Tornato alla vita civile lavora nuovamente da Poldo e subentrerà nella gestione della pizzeria sul finire degli anni 80. Il locale si ingrandisce e tante sere arriva Antonio con la fisarmonica ad allietare i commensali, il forno lavora tantissimo, può cuocere fino a 70 pizze al tegamino contemporaneamente.
Ad oggi la pizza al tegamino è prodotta quasi unicamente a Torino e, in misura minore, in altre località del Piemonte. Col passare degli anni la pizzeria Poldo ha coniugato la tradizione della pizza con le mutate esigenze del gusto e della salute, offrendo più di venti tipi di pizza al mattone e al tegamino, focacce e farinata, oggi declinate anche nella versione senza glutine per celiaci, in un’atmosfera allegra e familiare come quella di un tempo.
Novembre 2023 – In Cognomi Condovesi, sono pubblicate le ricerche sulle origini di 51cognomi Condovesi.
Aggiornato in La Storia – Il Francoprovenzale il piccolo vocabolario Italiano-Francoprovenzale-Piemontese in formato pdf.
In Cercando le nostre radici – Come si viveva una volta, percorriamo la strada alla scoperta della vita al Coindo e Laietto nel 1900÷1905, vita difficilissima irta di difficoltà e di miseria per i montanari, ma anche il mondo da cui deriviamo e che non dobbiamo dimenticare.
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