Il Trittico del Rocciamelone

Tutti i Piemontesi conoscono il Rocciamelone, una montagna delle Alpi Graie il cui nome ha origine antiche e misteriose, situato al confine con la Val di Susa e la Valle di Viù, questa montagna svetta con un’altezza di 3.538 metri. Si dice che il suo nome sia celtico: “Roc Maol” in questa lingua leggendaria “Maol” significa sommità (perché appare come la più alta montagna della zona).

La vetta del Rocciamelone

Nel medioevo vi furono diversi tentativi di salita alla vetta, compreso uno da parte dei monaci dell’abbazia di Novalesa che, si legge negli annali dell’Abbazia, vengono respinti da vento e grandine. Il 1° settembre 1358 Bonifacio Rotario (Roero) da Asti compì la prima scalata documentata di una vetta alpina, collocando un prezioso ex voto, il famoso Trittico in bronzo dorato (definito “altarolo portatile”), sulla cima del Rocciamelone, dentro un piccolo antro scavato nella roccia, oggi inglobato nel Rifugio Cappella, sotto la statua della Madonna. Un’impresa tentata una prima volta arrivando solo a 2854 metri. Qui stabilì un accampamento che gli consentì poi di salire in vetta. La località, in onore dell’origine di Rotario, venne chiamata Ca’ d’Asti e vi sorgeranno una Cappella e un Rifugio.

La vetta in una immagine del secolo scorso

Questa storica impresa ebbe fin da subito un’importante eco, soprattutto a livello devozionale, non solo presso gli strati più bassi della popolazione, ma anche ai livelli più alti. Nel 1418, infatti, a sessant’anni di distanza dalla salita di Bonifacio, il duca di Savoia Amedeo VIII “il pacifico” volle salire sulla vetta del Rocciamelone. La prima menzione dell’altarolo compare in una anonima silloge epigrafica scritta poco dopo il 1585, intitolata “Inscritioni dell’antiche pietre marmoree, che si trovano in diversi luoghi di Susa”. Il Trittico rimase sul Rocciamelone, nell’antro fatto scavare dallo stesso Bonifacio e mal riparato da una precaria costruzione in legno, fino al 1673 quando si verificò un curioso episodio.

Il 6 agosto 1673 un certo Giacomo Gagnor di Novaretto nella Valle di Susa, detto “Giacomo il matto” per la sua semplicità, vedendo che molte persone si portavano nel giorno della festa per devozione sulla vetta del Rocciamelone, prelevò il Trittico dalla vetta e si recò a Rivoli alla Corte del Duca Carlo Emanuele II che lì si trovava in villeggiatura. Ammesso alla presenza del Duca e interrogato dal sovrano sul motivo della sua richiesta, disse che sapeva del desiderio di S.A.R. di vedere la Madonna del Rocciamelone, e per non fargli fare la faticosa salita, gliela aveva portata perché potesse venerarla. Da un sacco prese il Trittico e lo consegnò al Duca, il quale con tutta la Corte restò meravigliato, la fece subito collocare sull’Altare Maggiore della Chiesa dei Padri Cappuccini.

Successivamente convocò l’arcivescovo di Torino, mons. Beggiamo, perché verificasse le motivazioni che avevano spinto Giacomo Gagnor a tale gesto e questi stabilì che le intenzioni dell’uomo di Novaretto non erano state malevoli; inoltre, alcuni testimoni furono chiamati a verificare che l’oggetto portato dal Gagnor fosse effettivamente il Trittico posto sulla vetta del Rocciamelone. Di queste attestazioni è rimasta memoria in un verbale, citato da don Felice Bertolo nella sua opera “La Madonna del Rocciamelone”. Non appena si era sparsa la notizia dell’arrivo del Trittico a Rivoli, molti pellegrini si erano recati a venerare l’icona, grazie anche all’indizione di una novena di preghiera da parte della sovrana.

Alcuni giorni dopo il furto, il 15 agosto 1673, il Duca Carlo Emanuele incaricò il suo cappellano privato con il cappellano di Madama Reale di riportare il Trittico a Susa e consegnarlo al governatore della Città, il quale a sua volta lo avrebbe restituito al curato di San Paolo, don Stefano Vayr. La restituzione avvenne effettivamente il giorno dopo, 16 agosto, alla presenza del governatore e di numerosi altri testimoni e fu sancita da un atto notarile.

Il Trittico prima del 1673 era regolarmente conservato sulla vetta del Rocciamelone e solo in qualche rara occasione era riportato a valle. A conferma dei fatti vengono anche le memorie inerenti le visite pastorali condotte presso la Chiesa parrocchiale di San Paolo di Susa, al cui parroco era affidata al cura del Trittico. Sia quella del 1612 che quella del 1643, infatti, non registrano all’interno della chiesa la presenza di quest’ultimo. La situazione appare diversa nel 1702. In quell’anno si stava provvedendo a riedificare la chiesa e all’interno del nuovo edificio era prevista la presenza di due altari laterali; di essi uno doveva essere dedicato alla Madonna del Rocciamelone e doveva contenere il Trittico che in quel periodo era custodito temporaneamente presso la chiesa abbaziale di San Giusto.

Il 10 maggio 1728 l’Abate Vittorio Amedeo Biandrate di San Giorgio visitando la chiesa vide nella sacrestia, il Trittico del Rocciamelone, e seppe che era tradizione che venisse portato dal 5 al 24 agosto presso la cappella sulla cima del monte e lasciato alla pubblica venerazione con grande afflusso di fedeli.

Proprio in considerazione della grande devozione attirata dalla sacra immagine, l’abate diede ordine di non portare più il Trittico sulla vetta nei giorni della festa, ma di collocarlo in una nicchia che il curato di San Paolo avrebbe dovuto far costruire nella cappella dedicata alla Madonna del Rocciamelone. Tale disposizione fu però disattesa poiché ancora nel 1751, in occasione della propria visita pastorale alla chiesa abbaziale di San Giusto, dove l’icona era stata trasferita a causa della soppressione di quella di San Paolo, l’Abate Pietro Caissotti di Chiusano registrava che il Trittico, posto sopra l’altare delle reliquie, veniva portato sulla vetta del Rocciamelone il cinque agosto di ogni anno e lì veniva lasciato esposto alla pubblica venerazione per quindici giorni consecutivi. Segno, questo, di una devozione fortemente radicata verso l’antica icona e del forte legame della popolazione, non solo locale, con una pratica di fede che affondava le proprie radici lontano nei secoli e che ancora oggi si tramanda.

Il Trittico

Il Trittico rimase nella Cattedrale di San Giusto a Susa (Altare delle Reliquie) fino all’anno 2000 quando venne collocato nel Museo Diocesano di Arte Sacra della città situato nella chiesa della Madonna del Ponte. Esso si compone di tre parti, le due lastre laterali, incernierate, possono chiudersi come sportelli, proteggere l’interno decorato e rendere più comodo il trasporto. La tavola centrale raffigura la Vergine Madre seduta su ampio trono a cassapanca, col capo cinto da un’alta corona regale e in atto di sostenere con le braccia il Bambino Gesù; questi guarda verso la Madre, cui accarezza il mento con la manina destra, mentre con la sinistra regge una piccola sfera che simboleggia il mondo. Madre e Figlio hanno il capo circondato dall’aureola. Nell’anta collocata a sinistra di chi guarda si vede S. Giorgio a cavallo avvolto in un’armatura a maglie metalliche, la visiera dell’elmo calata sugli occhi, che con una lunga lancia trafigge nella gola il drago infernale che, riverso, è calpestato da uno zoccolo del cavallo. Sull’anta di destra sta ritto un santo barbuto, coi capelli scarmigliati e con aureola, probabilmente S. Giovanni Battista, Patrono dei Cavalieri detti anticamente di Gerusalemme, che presenta alla Madonna, ponendogli le mani sulle spalle, un guerriero inginocchiato, con le mani giunte in atto di supplica.

Gianni Cordola

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Le botteghe di una volta

Non sono di buona memoria ma mi piace pensare di essere un aiuto nel ricordo delle botteghe, che ai tempi furono per molti anni, un vero e proprio presidio del territorio, fiorente attività, nonché punto di riferimento per le famiglie di contadini e montanari di tutto il paese.

Negli anni cinquanta del secolo scorso, a Condove la vita si svolgeva principalmente all’interno del paese, dove ci si conosceva tutti, tanto che molte famiglie venivano identificate con soprannomi spesse volte stravaganti, legati a caratteristiche somatiche o comportamentali del capostipite. Attorno alla piazza e nelle vie adiacenti c’erano il Comune, le scuole, l’asilo, l’ufficio postale, la Cassa di Risparmio, la Chiesa, il cinema e tante botteghe: la ferramenta di Alpe, il tabacchino delle sorelle Della Valle, la cartoleria, l’alleanza cooperativa torinese, le macellerie di Chiariglione e Benetto, la panetteria di Votta, il calzolaio, il barbiere, la merceria, la farmacia e poi tante osterie e la Bocciofila.

Nelle botteghe alimentari i prodotti in vendita non erano confezionati bensì si vendevano sfusi. Si vendeva di tutto un po’, poco ma di tutto. Si poteva acquistare al dettaglio: due etti d’olio di semi (era contenuto in fusti e al momento della vendita veniva versato nella bottiglia di vetro portata dal cliente) , quattro acciughe, un cavolo, due etti di pastina per la minestra o un chilo di riso, una bottiglia di candeggina, un sapone di Marsiglia, un pacchetto di olandese (surrogato per scurire il caffè fatto in casseruola), mezzo chilo di zucchero avvolto nella carta blu; o prendere dal mastello le mele ruggine o le mele in composta. La pasta era contenuta in cassetti e quando un cliente la voleva comprare il bottegaio la pesava e la incartava in un foglio dal tipico colore giallo ocra. Il droghiere è un po’ farmacista, per questo si potevano anche acquistare dei fiori di tiglio, malva, camomilla, chiodi di garofano, pepe, miele e altre erbe e spezie. Anche le caramelle non mancavano: mentine o pasticche (liquirizia e fiori di acacia) erano sempre sul bancone, per la gioia dei bambini. C’era il bottegaio più economico, quello che vendeva a “bon pat” (a buon mercato) ed anche quello che faceva “bon pèis” (buon peso) e quello che “at ciolava al pèis” (ti fregava al peso).

Man mano che si aprivano le porte, si sentiva l’odore del cuoio modellato da maestri calzolai, l’odore di mortadella e di salumi vari, di tome e burro. Sentiamo l’odore del legno e delle vernici nella bottega del falegname. Sentiamo nel negozio di ferramenta l’odore di petrolio, che serviva ad alimentare quelle vere e proprie opere d’arte che erano i lumi a petrolio, ancora molto in uso nelle borgate di montagna e negli alpeggi per l’illuminazione delle case.

Le botteghe rappresentavano il momento di incontro quotidiano dove risuonava solo il dialetto, due chiacchiere, uno scambio di informazione o, meglio, un aggiornamento su quanto era accaduto nei dintorni, una o più tappe obbligate nel percorso della giornata. Erano dei veri e propri centri da cui si apprendevano, e diramavano, notizie su fatti e persone del paese e dove, se fossero passati stranieri o, meglio,“forestieri” (appellativo con cui i Condovesi definivano tutti gli sconosciuti provenienti da altri paesi) non sarebbero, di certo, passati inosservati.

Le botteghe erano, inoltre, luoghi di confidenze, che vanno ben oltre il semplice pettegolezzo, che spaziavano dai consigli su cosa cucinare a pranzo e cena fino a spingersi su terreni più ampie complessi come il suggerimento di ingredienti, qui siamo al confine con l’alchimia e la magia, con cui curare i malanni o ritrovare la felicità. Il bottegaio diventava, così,un vero e proprio confidente da cui ci si attendeva molto più che la vendita di prodotti.

E chi entrava in bottega, lo faceva anche per scambiare “quattro chiacchiere” con un amico oppure con un conoscente, c’era il cliente che comprava sempre lo stesso tipo di formaggio, la massaia che amava farsi consigliare sempre e solo dal negoziante dalla battuta sempre pronta. I titolari delle botteghe di una volta conoscevano a memoria le abitudini alimentari delle famiglie del paese che frequentavano quotidianamente il loro negozio da anni. Si viveva per davvero, a quei tempi, in una grande famiglia allargata.

Una quotidianità più semplice e, senza dubbio, meno pretenziosa di quella attuale, in cui le relazioni umane rivestivano ancora un ruolo importante, fondamentale. Perfino con i negozianti si tendeva ad instaurare un rapporto sincero, di fiducia reciproca, che sottendeva la certezza di un buon acquisto.

Poi, come dice l’antico proverbio, il pesce grande mangia quello più piccolo, e la magia è svanita in una nuvola di bolle, l’espandersi di super e ipermercati hanno quasi cancellato questo tipo di negozi così accoglienti e famigliari.

Gianni Cordola

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Valsusa: Comuni italianizzati nel nome o cancellati

Comuni che vanno, vengono, scompaiono, riappaiono o cambiano nome per italianizzarlo. La storia amministrativa comunale in Valle di Susa è assai complessa.

I nomi dei luoghi sono carichi di valori simbolici e la loro conoscenza condivisa all’interno della comunità può essere considerata come una delle manifestazioni della sua coesione. Tuttavia accade spesso che a livello ufficiale si impongano denominazioni di luoghi la cui forma, fissata nel tempo attraverso la scrittura, è molto lontana da quella che vive nell’oralità.

Durante il ventennio fascista, coerentemente con la politica di italianizzazione, un disegno del regime fascista che ha interessato tale periodo della storia d’Italia con l’intento di diffondere la lingua italiana, si cambiò la denominazione di alcuni comuni del Piemonte e della Valle d’Aosta. L’originale grafia francofona venne quindi italianizzata e trasformata, spesso con risultati comici. Fortunatamente i nomi originali furono in parte ripristinati dopo la seconda guerra mondiale.

Vediamo quali comuni in Valle di Susa sono stati oggetto di questa italianizzazione e quando è stato ripristinato il nome originale:

Nome originaleNome italianizzatoDataRipristino
ChianocChianocco1939no
ChiavrieCaprie1936no
ClavièresClaviere1939no
ExillesEsille19391953
OulxUlzio19391960
Sauze d’OulxSalice d’Ulzio19281947
SalbertrandSalabertano19391955
SestrièresSestriere1935no
VayesVaie1939no
VenausVenalzio19391967

I piccoli comuni della Valsusa furono cancellati in seguito ad una semplificazione avvenuta per una legge del 1927, che prevedeva la cancellazione delle piccole municipalità. Attuata l’anno successivo ebbe come vittime moltissimi comuni dell’alta valle di Susa. La causa principale fu lo spopolamento della montagna dovuto all’industrializzazione del fondo valle.

Sestriere e Champlas du Col nel 1934 si scambiarono i ruoli, un caso unico in Italia. Si arrivò poi al 1936 con la soppressione dei comuni sopra Condove per insolvenza economica dovuta alla costruzione della strada carrozzabile. Rollières, Fenils, Sauze di Cesana e Villar Dora passarono da un comune all’altro per poi trovare il posto che occupano tuttora. Oggi sopratutto a causa della crisi economica, c’è un ritorno verso i comuni piccoli, servirà a preservare le piccole municipalità? Vediamo le frazioni ieri comuni, e le municipalità che furono sciolte e poi ripristinate.

Gli ex Comuni della Valle di Susa

Desertes, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.

Bousson aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.

Mollières aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese

Rollières, aggregato nel 1870 al comune di Bousson e nel 1928 a Cesana Torinese.

Fenils, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.

Solomiac, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.

Beaulard, aggregato nel 1928 al comune di Oulx.

Savoulx, aggregato nel 1928 al comune di Oulx.

Rochemolles, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.

Les Arnauds, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.

Millaures, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.

Melezet, aggregato nel 1928 al comune di Bardonecchia.

Foresto, aggregato nel 1928 al comune di Bussoleno.

Sestriere, divenuto comune nel 1934 su terreni della frazione Sauze di Cesana.

Champlas du Col, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese, distaccato da quest’ultimo nel 1934 per andare a far parte del nuovo comune di Sestrières.

Thures, aggregato nel 1928 al comune di Cesana Torinese.

Sauze di Cesana, aggregato nel 1882 al comune di Cesana Torinese e nel 1934 a quello di Sestriere per tornare nel 1947 a far parte del ricostituito comune.

Frassinere, aggregato nel 1936 al comune di Condove.

Mocchie, aggregato nel 1936 al comune di Condove.

Villar Dora, riunificato nel 1928 con Almese e Rivera per tornare nel 1955 a far parte del ricostituito comune.

Rivera, aggregato nel 1928 al comune di Almese.

Gianni Cordola

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Tradizioni e riti del giorno dei morti al Coindo di Condove

Per i montanari l’anno iniziava l’11 di novembre, San Martino, un chiaro collegamento con la festa Celtica di Samhain che veniva festeggiata nella notte fra l’ultimo giorno di Ottobre e il primo di Novembre. Per i Celti questa festività segnava il Capodanno Celtico, importante momento di passaggio nel calendario agricolo e pastorale, legato al ciclo delle stagioni. In questo giorno si aprivano le porte fra il Regno dei vivi e l’aldilà territorio del divino e residenza dei defunti. Nella notte di Samhain secondo la tradizione celtica cadevano le barriere: vivi e morti potevano passare dall’uno all’altro dei due Regni. Oggi noi conosciamo Halloween e pensiamo sia una festa americana, ma in realtà è l’antica festa di Samhain, appunto, conosciuta e festeggiata da sempre nelle vallate piemontesi.

Con modalità diverse, ricorreva la volontà di avvicinarsi ai propri defunti nella notte tra la festa di Ognissanti e il giorno dei morti,

Al Coindo in onore dei defunti si usava recarsi al cimitero di Laietto a portare fiori sulle lapidi, lasciando a casa la tavola apparecchiata in modo che le anime dei defunti potessero rientrare nelle loro case e banchettare. Alcune famiglie per la cena del primo novembre apparecchiavano la tavola con un coperto in più dedicato ai defunti. Al rientro dalla visita al cimitero pasteggiavano con quanto trovato sulla tavola imbandita e si riscaldavano con del “vinbrulé”.

A Laietto la sera del 1 novembre, i campanari usavano fare una veglia notturna in ricordo dei defunti. Accendevano un fuoco nella base del campanile e preparavano delle castagne abbrustolite. Chiunque si presentasse in quella notte riceveva un po di caldarroste ed un bicchiere di vino e gli era permesso di suonare un tocco di campana in ricordo dei suoi defunti. Naturalmente il vino e le castagne erano stati raccolti nei giorni precedenti tra gli abitanti del Laietto e borgate limitrofe.

Si narra anche della processione dei morti che nelle notti senza luna uscivano incappucciati dalle tombe del cimitero di Laietto e s’incamminavano lentamente nei dintorni del cimitero stesso, rischiarandosi la strada col dito mignolo acceso, per poi recarsi nella cappella cimiteriale di San Bernardo dove a mezzanotte uno spettrale sacrestano suonava la campanella e accendeva le candele: allora un misterioso prete celebrava la messa dei morti nel silenzio raggelante della lugubre assemblea. Finita la messa, le candele si spegnevano ed i fantasmi sparivano e guai a chi si fosse arrischiato a curiosare. Si racconta di persone che incontrata la processione furono costrette a seguirla e poterono poi far ritorno a casa sane e salve riconoscendo gli errori che avevano commesso nella loro vita e chiedendo perdono a Dio.

La processione dei morti

Per la festa dei morti tradizionalmente si preparavano cibi appositi, soprattutto cavolo e castagne. Si mangiava lasupa dij mòrt”e si passava la serata mangiando castagne. In qualche casa si preparavano anche gli “òss dij mòrt”, biscotti duri e croccanti ai quali davano la tipica forma di osso. I cibi venivano lasciati per i morti sulle tavole oppure ai quattro angoli della casa oppure ancora sui davanzali delle finestre. Si lasciava un lumino acceso alla finestra perché i morti potessero trovare la strada.

Si lasciava per loro sul davanzale un piatto di castagne lesse “ij maron broà dij mòrt”, talora anche con un bicchiere di vino. Va da sé che normalmente i vecchi mangiavano le castagne e bevevano il vino per far credere ai nipoti che le anime dei morti fossero passate davvero ed avessero gradito l’offerta di cibo e bevande.

ZUPPA DEI MORTI (Supa ‘d còj ò supa dij mòrt a la mòda dël Coindo ‘d Condòve)

Ingredienti per 4 persone: un cavolo verza, 50g di burro, una cipolla, uno spicchio d’aglio, rosmarino, 100g di lardo, 1,5 litri brodo di gallina, 8 fette di pane di segala tostate; toma stagionata a pezzettini.

Pulite e lavate il cavolo, stracciate le foglie a pezzetti. Fate soffriggere nel burro un trito di cipolla, lardo, aglio e rosmarino quindi aggiungete le verze che farete insaporire molto bene nel condimento. Unite ora il brodo, pepate e all’occorrenza salate un poco. Lasciate cuocere a mezzo bollore finché il cavolo sarà pronto. Versate la zuppa nei piatti in cui avrete preparato fette di pane di segala tostate sulla stufa cosparse di abbondante toma stagionata a pezzettini.

La tradizione vuole che questa zuppa venga preparata la sera del 1 novembre e che al termine della cena, ne venga conservato un piatto in onore e ricordo dei defunti.

ZUPPA DEI MORTI (Supa dij mort a la mòda ‘d Susa)

Ingredienti per 4 persone: 1 cipolla grandezza media; 100 gr. di burro; 2 cucchiai d’olio; una cucchiaiata di erbe dell’orto tritate (rosmarino, timo, salvia, basilico); 2-3 cucchiai di salsa di pomodoro fatta in casa; 500 gr. di grissini o pane raffermo; brodo di gallina quanto basta, sale; una manciata di toma stagionata a pezzettini.

Far soffriggere la cipolla tritata con l’olio e il burro, aggiungere i gusti dell’orto, il pomodoro, i grissini spezzati grossolanamente o il pane raffermo e aggiungere il brodo. Cuocere per circa 30 minuti, cospargere di toma a pezzettini e dorare in forno.

La zucca di Halloween

Persino la tradizione di intagliare la zucca per la festa di Halloween non è del tutto Irlandese; nel Veneto, tradizionale zona di produzione di questo ortaggio, un tempo i contadini fabbricavano la “lumassa”, che in dialetto veneto significa lumicino, ovvero una zucca che conteneva una candela e a cui venivano praticati dei fori. Questa veniva collocata in luoghi oscuri per simulare delle scherzose apparizioni di anime defunte e per esorcizzare la paura della morte. Spesso infatti le “lumasse” facevano la loro macabra comparsa vicino ai cimiteri per spaventare i viandanti di notte.

Per intagliare la zucca di Halloween, ecco cosa occorre:

  • una zucca grande
  • un coltello sottile e ben affilato
  • un cucchiaio o uno scavino
  • un pennarello
  • una candela o un lumino
  1. Eliminate la calotta superiore. Attraverso questa apertura dovrete svuotare la zucca dall’interno, quindi fate in modo che sia abbastanza grande da poter facilmente inserire una mano.
  2. Non buttate via la calotta! Una volta svuotata, la zucca andrà richiusa con la sua calotta. Rimuovetela e pulitela dalla polpa e dai semi. Con l’aiuto dello scavino o del cucchiaio svuotate la zucca da tutto il suo contenuto (polpa, filamenti, semi).
  3. Una volta che la zucca è vuota, disegnate con il pennarello una larga bocca, un naso dalla forma triangolare e due occhi grandi.
  4. Intagliate la zucca con il coltello seguendo il disegno appena fatto. Inserite una candela piccola, o meglio un lumino dentro la zucca, accendetela e.. voilà! La zucca di Halloween è pronta!
La zucca di Halloween

Gianni Cordola

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La raccolta delle castagne ieri

Am mangio crua, sëcca, brusatà, broà e bujìa, chërso ‘n montagna e am ciamo castagna (Mi mangiano cruda, secca, arrostita, lessata e bollita, cresco in montagna e mi chiamo castagna).

Arriva l’autunno: le giornate grigie e questa breve filastrocca ripetuta spesso dalla mamma mi riporta agli anni cinquanta del secolo scorso, quando la raccolta delle castagne era un lavoro molto importante. Avevamo un piccolo castagneto al di sotto della borgata Coindo in prossimità delle case già disabitate di Chiandone. Partivamo al mattino presto da Condove papà mamma e figli su per la mulattiera. Già nei giorni precedenti il castagneto era stato ripulito da erbacce e falciato con cura. Gli alberi si trovavano su terreno in pendenza e per favorire la raccolta delle castagne si preparavano, in fondo al terreno, delle siepi con fascine di legna per permettere alle castagne cadute di raccogliersi e non rotolare troppo in basso, disperdendosi lungo i pendii o rotolando in proprietà altrui. La raccolta veniva fatta esclusivamente nel proprio terreno; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate.

Arrivati sul posto tutti si mettevano al lavoro, l’aria era pungente, ma piena di profumi del bosco. Per me bambino era veramente bello raccogliere le castagne e vedere il cesto riempirsi di questi frutti. Il problema più difficile erano i ricci, che pungevano le mani e gli scivoloni nel ripido castagneto. Mamma per lavorare meglio indossava un grembiale con una grande tasca e man mano che era piena la svuotava nei sacchi di iuta, si stava curvi sulla schiena per ore.

Le castagne si raccoglievano verso i primi giorni di ottobre. Poi dopo i Santi, cioè dopo il primo novembre si raccoglieva con cura tutto. Per far cadere i ricci ancora attaccati ai rami si utilizzava una lunga e pesante pertica di legno con la quale mio padre batteva i rami. La raccolta dei ricci a terra era compito della mamma e noi bambini, si raccoglievano con delle pinze in legno di castagno per non doversi chinare ed evitare di pungersi. Per separare le castagne dai ricci si usava un martelletto in legno oppure un semplice bastone. Dopo la raccolta delle castagne, bisognava anche occuparsi della pulizia del sottobosco perché il castagneto era un tappeto di foglie e di ricci.

I ricci venivano ammucchiati e bruciati sul posto; qualcuno li portava negli orti e nei campi come concime. Poi rastrellavano le foglie con il rastrello e riempivano una coperta di canapa o di tela che caricata a spalle o sulla testa veniva portata nel fienile. Molti anni fa, nelle stalle, si faceva la lettiera di foglie, oppure con le foglie si facevano i materassi. Per conservarle a lungo le castagne venivano messe a seccare nel solaio oppure essiccate all’interno delle abitazioni, utilizzando lo stesso focolare che serviva per cucinare i cibi e scaldare la casa. Chi aveva un grande raccolto usufruiva del metato o seccatoio, un casotto in pietra nel castagneto, destinato all’essiccazione delle castagne che, accumulate su graticci, venivano sottoposte a moderato calore. Poi si mettevano in un sacco di iuta che veniva sbattuto contro uno scalino o un ceppo per aprire la buccia della castagna. Quando la buccia era rotta le castagne si mettevano in una specie di cesta che si scuoteva finché il frutto non si liberava completamente della sua pelle, che veniva fatta cadere a terra. Si stava assieme in quei giorni mangiando nei boschi un pezzo di pane e formaggio e un bicchiere di vino per gli adulti e se la stagione era buona si portava a casa qualche fungo raccolto lungo la strada del ritorno a casa.

Se il raccolto era abbondante le castagne più grandi venivano vendute, mentre le medie e le piccole si tenevano per utilizzarle nelle ricette dei mesi invernali a costituire una componente importate della alimentazione. Per riconoscere e scartare le castagne non buone basta metterle a bagno in acqua fredda per circa un’ora: quelle che verranno a galla saranno da scartare perché sicuramente non buone.

Niente veniva buttato: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo diventando pane, polenta, castagnaccio, caldarroste, ecc. quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano per alimentare il fuoco, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle; i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi. Il suo legname serviva a riscaldare i casolari e materia prima per costruire attrezzi di uso quotidiano.

Alcune ricette popolari tramandate dai nostri nonni

CALDARROSTE

Per avere delle castagne arrostite facili da sbucciare incidere la buccia con un piccolo taglio in orizzontale sulla parte bombata del frutto, per evitare che le castagne scoppino durante la cottura e lasciarle in ammollo in acqua a temperatura ambiente per un’oretta prima di metterle nell’apposita padella coi buchi. Appena pronte mettetele in un sacchetto di carta o avvolte in un panno: il caldo renderà più facile il distacco della pellicina.

CASTAGNE BOLLITE

Castagne cotte al forno o bollite, aiutano a combattere la stanchezza tipica d’inizio autunno perché ricche di magnesio e manganese.

FARINA DI CASTAGNE

Questa può essere utilizzata per la preparazione di torte, ciambelle, frittelle e pane. Il pane fatto con farina di castagne può essere un gradevole sostituto del pane integrale. Si lega bene con verdure e ortaggi. E’ invece sconsigliata l’associazione con frutta acida, proteine animali, zucchero e vino perché può scatenare fenomeni fermentativi.

CASTAGNE CRUDE

Durante il giorno qualche castagna cruda addensa la saliva e forma anticorpi per proteggere dai malanni stagionali, tonifica i muscoli, i nervi e le vene.

DECOTTO DI CASTAGNE
I decotti preparati con le foglie di castagna sono ottimi per effettuare i gargarismi in caso di infiammazione della bocca e della gola e rappresentano un ottimo rimedio per combattere la tosse. Per la preparazione del decotto di castagne si fanno bollire due cucchiai di foglie essiccate sminuzzate in mezzo litro di acqua per 5-6 minuti.
Si lascia raffreddare e si filtra. Il liquido così ottenuto va bevuto a piccoli sorsi.

RIMEDIO PER MACCHIE DELLA PELLE

Per schiarire le macchie della pelle far bollire le castagne e schiacciarle riducendole ad una purea alla quale si dovrà aggiungere del succo di limone; il composto così ottenuto va applicato sulle macchie e lasciato agire per una ventina di minuti.

Gianni Cordola

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Attorno al camino

Chi non è stato almeno una volta intorno ad un fuoco dalle fiamme vive e guizzanti? In campeggio o nella casa di campagna? Il fuoco è un luogo evocativo che ispira la gioia e il piacere del ritrovarsi insieme. Più di centomila anni fa gli uomini già avevano acquisito la capacità di controllare il fuoco, mantenendolo acceso e impedendo che si propaghi. Fu un punto di svolta nell’evoluzione culturale dei primi uomini, e consentì loro il controllo di una fonte di luce e calore. In particolare, tale scoperta permise la cottura dei cibi, l’espansione in climi freddi, lo sviluppo dell’attività umana nelle ore notturne, la protezione dai predatori e la costruzione di migliori utensili per la caccia e le altre attività.

Ma oltre a questo aspetto utilitaristico, il fuoco aveva poi un aspetto sociale. Sedersi attorno al falò significava per i nostri antenati, socializzare elaborando contenuti etico-spirituali. La sera davanti al fuoco si svolgevano cerimonie, si raccontavano storie, si cantava, si danzava. Una volta nei conventi c’era il cosi detto “fuoco comune”, quando di sera i frati si radunavano davanti al camino per un momento di svago e di fraternità. Il “fuoco comune” rimane nell’immaginario collettivo il luogo domestico per eccellenza che richiama l’intimità e l’affetto della famiglia. Ieri come oggi davanti al fuoco di un caminetto si lasciano fluire i pensieri e l’immaginazione, ci si rilassa e ci si riscalda alla viva fiamma della comunione e della condivisione. Intorno al camino c’era tutta la vita familiare: ci si scaldava, si cucinava, si recitava il rosario, si parlava, si ascoltavano le storie dei nonni, si raccontavano le fiabe ai bambini, c’era il passato, il presente e la speranza del futuro.

Bisognava alimentare quel fuoco, era un’incombenza importante. In alcuni paesi quando un figlio si sposava, prendeva un tizzone acceso dal focolare della propria famiglia e con esso accendeva il camino della sua nuova casa: un passaggio di testimone importante e denso di significato.

Se consultiamo un dizionario della lingua italiana, alla parola “fuoco” troviamo, tra le varie definizioni, anche quella di “nucleo familiare”. Mio nonno per capire quante persone abitavano in una borgata non conosciuta contava i comignoli: il camino era necessario per il riscaldamento e per cucinare, non mancava mai nelle abitazioni e nel contare calcolava che ad ogni camino ci fosse una comunità di 4 o 5 persone.

Per chi lo abbia sperimentato almeno una volta nella sua vita il fascino del camino è ineguagliabile, tanto più quando esso diventa sede e strumento di iniziative famigliari o sociali. In realtà esso è il risultato di un’evoluzione notevole rispetto all’antico focolare situato al centro della stanza in cui si viveva durante il giorno.

Il camino moderno, come lo conosciamo, nacque nel 1200, con la finalità di prevenire gli innumerevoli incendi, in più parti vennero promulgate leggi che imponevano la costruzione delle abitazioni in pietra. Da questo momento in poi ci si poteva permettere il lusso di non avere più l’ingombro del fuoco al centro dell’ambiente e di posizionarlo a parete con la possibilità anche di creare una canna fumaria vera e propria. È nato il camino moderno, così come lo conosciamo noi. Ci sono camini piccoli, altri grandi e profondi, camini monumentali nelle case patrizie e nelle grandi abbazie, intorno ad essi sono state costruite le civiltà.

È un’arte l’accensione del fuoco: legnetti piccoli, un ceppo più grande, la carta sotto a tutto, le pigne che danno profumo. La scelta della legna è importante, quella umida riempirebbe la stanza di fumo.

Oggi è raro avere il camino e anche chi ce l’ha difficilmente lo accende. Eppure le nostre famiglie possono ancora essere fuochi, riunendo intorno alla tavola parenti e amici. Il camino può essere accora acceso, metaforicamente, col nostro amore, la nostra amicizia, la nostra fratellanza. La nostra società è più che mai bisognosa di famiglie che tornino ad essere fuochi.

Gianni Cordola

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Vera Rol, un’artista Condovese dimenticata

Pochi sanno o ricordano che Condove ha dato i natali ad una donna diventata famosa negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso nel mondo dello spettacolo teatrale più precisamente nella rivista. Stiamo parlando di Vera Rol, nata a Condove 8 maggio 1920 e deceduta a Roma 5 dicembre 1973.
Dotata di straordinaria bellezza Vera, inizia giovanissima la propria carriera teatrale e negli ‘40 diventa famosa come soubrette nel Teatro di Rivista. Attrice della compagnia dialettale di Mario Casaleggio, scoperta dall’attore Nuto Navarrini diventa soubrette nella sua compagnia di riviste, esordendo in “Il mondo in camicia” nel 1940. Bruna, formosa, appariscente, bella, la Rol incarna perfettamente il ruolo della soubrette-vamp in molte riviste degli anni quaranta del secolo scorso.
Sposò Nuto Navarrini con il quale diede vita ad un sodalizio sentimentale e professionale di grande successo in quegli anni. Protagonista in tante riviste da “Vicino alle stelle” (1941) a “Cortometraggio d’amore” (1942), da “Il diavolo nella giarrettiera” (1943) a “Gli allegri cadetti di Riva Fiorita” (1944) a “La gazzetta del sorriso” (1945).
Entrambi simpatizzanti del regime misero in scena vari spettacoli di propaganda e per allietare i militi della RSI a Milano per questo Nuto fu nominato Capitano ad honorem della Brigata “Ettore Muti”. Uno degli spettacoli di propaganda, con protagonista Vera, fu “Il diavolo in giarrettiera” operetta di Giovanni D’Anzi, famoso autore di canzoni, quello che scrisse “O mia bela Madonina”. Lo spettacolo ebbe un grande successo di critica e pubblico e fu rappresentato anche al Teatro Reinach di Parma nel febbraio del 1944.
L’ultimo spettacolo in chiave propagandistica della Compagnia Navarrini – Rol fu la “Gazzetta del Sorriso”, nel quale Vera simboleggiava l’Italia molestata dagli Stati Uniti rappresentati da un uomo di colore violento e prevaricatore. Navarrini, inoltre, inserì nello spettacolo un motivetto intitolato “Tre lettere”, scritto sempre da Giovanni D’Anzi, dal contenuto apertamente anti-partigiano.

La locandina della rivista

Dopo il 25 aprile Nuto Navarrini e Vera Rol hanno seri guai per l’accusa di collaborazionismo con i tedeschi e subiscono gravi atti di vendetta partigiana oltre ad ogni tipo di vessazione. La loro colpa agli occhi dei partigiani fu quella di aver messo in scena uno spettacolo in chiave anti-partigiana , appunto “la gazzetta del sorriso”, in cui l’attrice ironizzava sui personaggi che facevano parte delle formazioni partigiane. Basta poco, dopo il 25 aprile 1945 per essere presi e giustiziati sommariamente, oppure nel caso di donne, picchiate e rapate. Molti furono i giornali che uscirono con titoli come “Nuto alla meta”, parafrasando con scherno il famoso slogan dell’epoca.
Vera Rol ebbe in sorte una vendetta terribile: l’umiliazione pubblica. Fu prelevata e fotografata seduta in mezzo a Piazza Duomo a Milano mentre un manipolo di uomini armati le rasava i capelli a zero a sfregio della sua enorme bellezza. Tra lo scherno e le risate degli astanti, Vera Rol fu esibita per la città di Milano subendo ogni umiliazione possibile accompagnata dal cartello, visibile in foto, “VERA ROLL NELLA GAZZETTA DEL SORRISO” (il cognome è stato volutamente erroneamente riportato) come chiaro segno di censura e denigrazione della Rivista messa in scena dalla Compagnia Teatrale. Stessa sorte di essere rasate toccò a tutte le ballerine dell’ultima rivista della Compagnia: “La Gazzetta del Sorriso”.

Vera Rol in piazza Duomo a Milano


Arrestati con l’accusa di collaborazionismo furono processati ma prosciolti dalle accuse e liberati. Chiarita ogni cosa riprendono nella stagione 1946-47 la via del palcoscenico con “Cercasi felicità”, cui seguono “L’imperatore si diverte” (1949) e “Scandalo al Mediolanum” (1951).

L’avventura nel cinema è per la Rol solo un pretesto per mostrare le sue grazie e la sua avvenenza, Un’esperienza di breve durata. Tra i suoi film come interprete, ricordiamo: Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1954), Nennella (1948), Malaspina (1947), Vera Rol e Nuto Navarrini si separarono nel 1971, forse perché quella drammatica esperienza vissuta insieme era un peso troppo gravoso da sopportare e guardandosi si leggevano quel dolore negli occhi. Nonostante le loro vite si fossero divise, però, morirono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. Nuto Navarrini se ne andò il 27 febbraio del 1973 e Vera Rol lo raggiunse il 5 dicembre dello stesso anno.

Le ballerine della rivista

Gianni Cordola

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C’era una volta: Il cesso

Il cesso o gabinetto è il luogo deputato all’espletamento dei bisogni fisiologici. Ai giorni nostri cesso è una parola considerata sinonimo di un qualcosa di sgradevole e volgare, è usato anche come insulto per indicare qualcosa o qualcuno di decisamente brutto. Il termine cesso, per indicare il gabinetto, in realtà ha un’origine neutra: deriva dal latino “secessus”, che significa appartato, perché originariamente era sempre lontano dall’abitazione.

Un cesso lontano dall’abitazione

Quando ero bambino ancora molte case, sia in paese che nelle borgate di montagna, non avevano il bagno (allora era considerata una cosa da ricchi) ma solo il cesso, stava all’esterno della casa nel cortile e tante volte era unico per tutte le famiglie che ci abitavano. Era un localino quadrato chiuso alla meglio, con uno scalino col buco dove si stava accucciati, non era propriamente igienico, soprattutto d’estate quando giravano mosche, mosconi e vermetti. Chi doveva andare in bagno durante una notte fredda e piovosa, oltre che munirsi di ombrello doveva anche vestirsi per non prendere una polmonite.
La carta igienica è notoriamente un’invenzione piuttosto recente, quando io ero piccolo si usavano fogli di giornale tagliati nel giusto formato e appesi a un chiodo o raccolti in apposite cassette di legno. Mi avevano insegnato, in caso di bisogno, a stropicciare il pezzo di carta prima di usarlo per renderlo più morbido e meno scivoloso. Apparentemente tutto funzionava abbastanza bene, a parte il fatto che l’inchiostro della stampa di allora non era indelebile per cui era talvolta causa di una presumibile tinteggiatura delle parti interessate, spiacevole da pensare anche se non visibile. Poi venne la consuetudine della carta velina e infine della carta in rotoli. È chiaro che anche le cose più banali hanno una loro storia ed un’evoluzione tecnologica. Il cesso poi lo si risciacquava ogni tanto con un secchio d’acqua.
Prima ancora la gente andava nelle stalle e si puliva con le foglie, meglio se quelle larghe. Tutto faceva da concime per la campagna. Del resto una volta non c’erano i giornali e la carta si utilizzava per altre cose e aveva il suo costo. I cessi scaricavano nei pozzi neri fatti in maniera da poter togliere ogni tanto il grosso con un secchio e concimare l’orto. Quando poi si riempiva, si svuotava a mano o con l’intervento di un trattore con pompa aspirante che poi andava a disperdere il liquame nei campi come concime.
In campagna, dove poteva capitare di avere l’impellente necessità di abbassare i pantaloni il problema non si poneva proprio, in quanto la prassi prevedeva l’uso detergente di foglie larghe, morbide se sapientemente usate dalla parte giusta, ed ovunque disponibili.
Per quanto riguarda il letame, c’è da dire che allora era una cosa preziosa e nessuno si schifava, c’era addirittura chi aspettava che la mucca facesse i suoi bisogni per raccoglierli immediatamente. È vero che i paesi profumavano di stalla ma era una cosa naturale e la gente non aveva la puzza sotto il naso del giorno d’oggi e nessuno faceva caso alla fragranza.
Nelle città, siccome c’erano condomini di quattro o cinque piani e scendere ogni volta che si aveva bisogno era una bella stancata, col rischio poi di non arrivare in tempo, si costruivano gabinetti di ringhiera; uno o due, in base al numero di famiglie, in fondo al balcone. Un’usanza che poi si è diffusa anche nei paesi dove in un cortile si potevano vedere balconi con due cessi alle estremità, altri appesi ai muri, scavati nelle pareti, che a volte erano bugigattoli da starci a fatica. I tubi di scarico erano in bella vista e scendevano fino a terra in un pozzo di raccolta da svuotare periodicamente.

Cessi sui ballatoi nelle case di ringhiera

Di notte si usavano i pitali, che si tenevano sotto il letto o nei comodini. Ce n’erano di vari tipi e misure: di ferro o di latta, per norma smaltati di bianco magari con un bordino colorato; i signori avevano quelli in ceramica, più costosi da usare con attenzione per non romperli. Di seguito sono arrivati anche quelli di plastica, ma intanto avevano cominciato a fare i gabinetti in casa. I primi a usarli hanno ricevuto molte critiche; non era un lavoro da fare perché si pensava che la puzza rimanesse in casa.
La carta igienica l’hanno inventata gli americani e da noi è arrivata solo intorno agli anni sessanta quando hanno cominciato a mettere le fosse biologiche e coi giornali si rischiava di intasarle. Si usava con parsimonia perché aveva un costo.

Altro esempio di cesso

Gianni Cordola

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L’alpeggio nella valle del Sessi ieri

Nei primi anni del 900 a Laietto, ma anche in tutte le altre borgate della Valle del Sessi ogni nucleo famigliare aveva una piccola stalla, ed ognuna ricoverava pochi capi di bestiame (generalmente due o tre mucche, qualche pecora o capra e i più benestanti una bestia da soma). La vita era molto dura: d’estate le famiglie che avevano più animali salivano all’alpeggio, accompagnati da un fedele cane pastore.

La pratica dell’allevamento del bestiame era fondamentale per la sopravvivenza della comunità alpina. I bovini e i caprini erano prevalentemente utilizzati per la produzione di latte mentre gli ovini oltre che per il latte anche per la carne e la lana. Non mancavano gli avicoli: galline ovaiole e qualche volta anche palmipedi. Ogni famiglia possedeva un piccolo alpeggio costruito dai propri avi, situato solitario in un angolo sperduto della valle o raggruppato a due o tre formando una piccola comunità come ad esempio gli alpeggi Anselmetti (Sërmët), Barmanera (Barmaneiri) e Combadoro (Coumbadòr).

Alpeggio Anselmetti (Sërmët) abbandonato

L’alpeggio è una pratica molto antica che risponde a necessità economiche e tecniche a un tempo, sia perché permette di sfruttare la produzione foraggera di alta montagna, inutilizzabile in altro modo, sia perché irrobustisce gli animali e li rende più resistenti alle infezioni, particolarmente alla tubercolosi, portando ad una migliore qualità dei prodotti zootecnici. Essa consisteva nel trasferimento, per l’intero periodo estivo, del bestiame e della famiglia in baite a quote più elevate tra i 1400 e 1800 metri e coincideva solitamente con il periodo che va dai primi di giugno a metà settembre.

In primavera si aspettava con impazienza il giorno in cui si uscivano le mucche dalla stalla: quando si levava loro dal collo la catena che le aveva tenute legate nei lunghi mesi invernali, parevano impazzite, cercavano la porta d’uscita, si davano cornate, inciampavano come se le loro gambe fossero rattrappite. Giunte all’aperto avrebbero voluto liberarsi dalla corda che le teneva e ci voleva un buon bastone per trattenerle. II primo giorno d’uscita durava poco, si conducevano fino alla fontana che era poco distante. Nei giorni seguenti si andava oltre, tra i campi e, finalmente abituate a camminare, si facevano pascolare per tutta la giornata nei boschi attorno la borgata.

Dopo le prime uscite, al collo delle mucche erano stati appesi i campanacci con quei bei collari di cuoio, dalla borchia lucente, in ottone, con le iniziali del capo famiglia. Quel tintinnio sonoro e vario, all’orecchio di ogni montanaro sembrava il più bello: era motivo di orgoglio, ognuno avrebbe voluto primeggiare per ogni bel pendaglio appeso al collo delle proprie mucche. A parte l’esteriorità questi campanacci avevano prima di tutto un’utilità pratica: per tenere il gruppo più unito, per allontanare eventualmente qualche vipera e permettere al pastore di ritrovare rapidamente la mucca che cerca. Un buon pastore deve avere l’orecchio fine e sapere, all’occorrenza, riconoscere il suono di una campana nel concerto di una mandria scampanellante. E poi d’estate, all’alpeggio, quando le mucche rientrano dal pascolo la sera, è il suono del campanaccio che permette al pastore di ritrovare l’animale smarrito. E così anche quando la nebbia avvolge gli alti pascoli Il ritmo del tintinnio, rapido, irregolare o lento può segnalare una mucca in difficoltà.

Il campanaccio

DAL PAESE ALL’ALPEGGIO

Il trasferimento all’alpeggio era un avvenimento importante. I fabbricati d’alpeggio erano molto primitivi, realizzati con pietrame a secco e tetto in lose. La tipologia variava molto in funzione dell’estensione dei pascoli, il clima, la disponibilità idrica, i materiali da costruzione disponibili in loco. Le famiglie utilizzavano ciascuna una propria baita con una piccola stalla e altri pochi vani per la lavorazione del latte e le funzioni abitative. Con le pietre raccolte sui pascoli si realizzavano lunghi muri di confine per evitare sconfinamenti e controversie. Si costruivano i muri a protezione dei prati da sfalcio e degli orti e dai salti di roccia e burroni.

Le baite erano disabitate per parecchi mesi, perciò prima d’entrarvi con il bestiame per passarvi il periodo estivo, si accendeva un po’ di fuoco nella stalla. Se disponibile si adoperava legno di ginepro che era profumato, disinfettante e si pensava che potesse prevenire le malattie, creando molto fumo al fine di far uscire qualche vipera o altri animali indesiderabili che si fossero introdotti durante l’inverno o in primavera inoltrata. Questa precauzione si ripeteva ogni anno per evitare sgradite sorprese.

Le mucche entravano direttamente nella stalla, dove vi era la mangiatoia. In parte c’era la cucina con il pavimento in terra battuta, poco spaziosa, ma abbastanza da contenere un tavolo, un ripiano di legno per i secchi dell’acqua e una piccola piattaia per un minimo di piatti, scodelle, bicchieri e posate. Nel muro un armadietto per le provviste correnti: caffè, zucchero, sale, farina, pastina ecc. In un angolo il focolare da cui pendeva una catena di ferro per appendere i paioli. Dietro la cucina una piccola cantina, una vera grotta scavata nella terra con dei ripiani ricoperti di paglia per la stagionatura delle tome. Vi erano anche altri ripiani di legno per appoggiare i contenitori del latte, il recipiente della panna e in angolo la zangola per fare il burro e il torchio per i formaggi. La cantina era sempre fresca anche in piena estate. Per dormire poteva esserci un letto nella stalla separato dagli animali con una palizzata di legno oppure il fienile. A sera l’illuminazione si faceva con lumini a petrolio o con candele. Per avere sul posto un po’ di vettovaglie, tutti gli utensili della cucina e della cantina, coperte e lenzuola, dovevano essere trasportati con il mulo.

LA GIORNATA AL PASCOLO

Terminata la scuola per i bambini era una festa passare l’estate all’alpeggio e con la mamma o la nonna andare al pascolo, anche se sapevano che non si poteva dormire tanto. Si andava a letto tardi e al mattino occorreva alzarsi appena i primi raggi del sole indoravano le cime. Era piacevole passare un giorno lassù sulla montagna, nei pascoli fioriti, specialmente se splendeva un bel sole, ed il lavoro di governare il bestiame diventava un gioco. Si preparava un tascapane con le provviste per mangiare sull’erba vicino ad una sorgente d’acqua fresca. Si faceva colazione prima di partire, poi le mucche uscivano dalle stalle, si riunivano e salivano pian piano nel Gran Bosco brucando l’erba tenera e profumata, fino al luogo del pascolo. Nel frattempo gli uomini scendevano al mattino dall’alpeggio per effettuare i lavori nei campi giù in borgata e facevano ritorno la sera.

II pascolo era tutto un fiorir di viole, nigritelle, bottoni d’oro, ed alla sera si ritornava sempre a casa con un bel mazzetto. Si raccoglievano anche le larghe foglie di genziana gialla che, ben lavate, si mettevano intorno alla forma del burro per mantenerlo fresco. La giornata era lunga e si portava qualcosa da leggere, o la soletta per le calze da sferruzzare. Generalmente non si aveva l’orologio. Si sapeva che quando appariva un’ombra in un determinato posto su una roccia era quasi mezzogiorno. Si pensava allora al pranzo; l’appetito non mancava, si mangiavano fette di polenta, alle volte un pezzo di salame, pane e toma, un bicchiere di vino per i grandi ma non sempre, il più delle volte una sorsata d’acqua fresca.

Nigritelle e botton d’oro

Era l’ora in cui anche gli animali si riposavano. Non si sentiva più lo scampanio delle mucche, che sparse qua e la sui ripiani, stavano ruminando. Regnava il silenzio, interrotto soltanto dal ronzio degli insetti: tafani, mosconi ed api che, cariche di polline si affaccendavano da un fiore all’altro.

Bovino al pascolo

Quando calava il sole si pensava al ritorno: si controllava che non mancasse nessuna mucca o capra e si prendevano i sentieri della discesa. Era faticoso anche scendere, stancava i polpacci: le nonne ci facevano raccogliere e trascinare dei rami secchi di faggio che si trovavano per la strada, così si portava a casa un po’ di legna per cuocere la cena. Rincasati gli animali, seguiva un momento di silenzio, perché nella baita erano occupati a mungere e a preparare la cena.

Bovino al pascolo

Tutta l’estate trascorreva cosi, a Laietto e nelle altre borgate rimanevano poche persone per lo più anziani che non potevano più salire agli alpeggi. Unico diversivo era l’avvicinarsi della festa dedicata alla Madonna degli Angeli al Santuario del Collombardo, il parroco di Laietto don G. B. Margaria saliva al colle e vi rimaneva almeno una settimana. Qui celebrava la messa ogni giorno sempre con un buon numero di fedeli che raggiungevano la chiesa anche dagli alpeggi più lontani. A sua volta il parroco giorno per giorno portava la benedizione del Signore in tutte le baite. Il 2 agosto giorno della festa quasi tutti presenziavano alla messa ed alla processione, la devozione era tanta. Al termine della stagione prima di ritornare a valle negli ultimi giorni veniva sparso nei pascoli il letame accumulato nel periodo precedente. Nel mese di settembre l’ultima sera di permanenza all’alpe veniva festeggiata, la famiglia si riuniva per ringraziare Dio di un buon ricavato di latte, burro e formaggio.

Don Margaria al Collombardo

Gianni Cordola

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La luna nelle tradizioni contadine

Chi ha avuto la fortuna di crescere nelle mntagna Condovese o in campagna sa che in ogni casa i lunari indicavano i quarti di luna che ogni contadino rispettava per il suo lavoro nei campi. Le nonne sapevano quando tagliarsi i capelli e quando i bambini sarebbero nati. I nonni quando fare semine, raccolti, trapianti, innesti o irrigare i campi. Il lunario era calendario e anche almanacco popolare che registrava i mesi e i giorni dell’anno, unitamente a previsioni meteorologiche e precetti improntati a una presunta saggezza. Nei lunari si trovavano ogni tipo di notizie utili e di consigli, proverbi, ricette, modi di dire, lavori del mese, storia locale, curiosità, albe e tramonti e tante altre informazioni utili per lo scorrere della vita quotidiana.

Esso rappresentava per i contadini e il mondo agricolo, la testimonianza di un’epoca segnata dai ritmi delle stagioni che passavano accompagnati dal lavoro e da esperienze secolari. Era il calendario dei riti del contadino, segnava i movimenti della luna, misurava lo scorrere dei giorni e le sue feste. I lunari erano delle piccole enciclopedie della cultura popolare nata dalla trasmissione orale del sapere e che si nutriva delle esperienze vissute. Uno dei più popolari in Piemonte era ed è “Il Gran Pescatore di Chiaravalle” edito dal 1701.

Il Gran Pescatore di Chiaravalle del 1701

Le fasi lunari in campagna vengono definite così:

  • Luna nuova è la fase in cui il suo emisfero visibile risulta completamente in ombra.
  • Luna crescente, si verifica quando la superficie visibile della luna è in fase di crescita. Si riconosce dalla posizione della gobba della mezzaluna che è volta a ovest (gobba a ponente, luna crescente). La luna crescente vale fino alla fase di luna piena.
  • Luna piena o plenilunio è la fase durante la quale l’emisfero lunare illuminato dal Sole è interamente visibile dalla Terra.
  • Luna calante o luna vecchia, si verifica quando la superficie visibile della luna è in fase di calo. Si riconosce dalla gobba della mezzaluna che è volta a est (gobba a levante, luna calante). La luna calante va dalla fase di luna piena alla completa estinzione della parte visibile.
La Luna vista dalla Terra

Basandosi sulle fasi lunari, dunque, la tradizione contadina consiglia di attendere la luna crescente per seminare tutti gli ortaggi che crescono al di sopra del terreno; con la luna calante ci si può dedicare alla semina degli ortaggi che crescono sotto terra e delle verdure con crescita a cespo. In generale si suppone che la luna crescente favorisca lo sviluppo vegetale delle piante, poiché le linfe tendono a risalire verso la superficie; questo è il tempo del raccolto e della crescita. Al contrario, con la luna calante i succhi si ritirano verso le radici e la terra è feconda; questo è il tempo della semina di ortaggi da radice.

In particolare, con la luna crescente si può:

  • seminare i cereali
  • seminare e trapiantare fiori
  • mettere a dimora siepi e arbusti
  • seminare ortaggi da frutto e da foglia
  • potare gli alberi deboli
  • raccogliere erbe officinali
  • raccogliere ortaggi da frutto (fagioli, piselli, lenticchie, soia, mais, pomodori, peperoni, cetrioli, zucchine…)
  • raccogliere ortaggi da radice (barbabietola, rapa, carota, ravanello)
  • effettuare innesti a spacco

La fase in cui la Luna è calante, invece, corrisponde al momento migliore per:

  • seminare e trapiantare ortaggi da radice
  • taglio di legna da costruzione
  • potare alberi in pieno vigore, sfrondare
  • concimare il terreno sotto il frutteto
  • effettuare innesti a gemma
  • prelevare le marze
  • raccogliere frutta e verdura a bulbo (cipolla, aglio, scalogno…)
  • taglio del fieno fatto a luna calante, si essiccherà più lentamente ma si conserverà meglio
  • vendemmiare (in cantina, con la pigiatura dell’uva a luna crescente la fermentazione del mosto è più rapida, con luna calante la fermentazione è più lenta e più regolare)
  • travaso e imbottigliamento vino (se si vuole frizzante a luna crescente)
  • mietere
  • macellazione del maiale e produzione di insaccati, prosciutti, coppe, pancette arrotolate, ecc.

Molto importanti meteorologicamente erano due lune, quella di marzo e quella di settembre: la luna di marzo (ne controlla sette), ovvero il tempo che fa durante la luna di marzo lo farà per sette successive lune. Altro proverbio popolare recita: “A la luna settembrina, sette lune le si inchinano”.

Tradizione, credenza popolare o semplici consuetudini? Qualsiasi sia la ragione, l’abitudine dei contadini di seguire le fasi lunari per organizzare i raccolti, le semine e le diverse attività agricole in campagna si è consolidata nei secoli. Ma ci sono anche tante altre cose influenzate dalla luna. Vediamole.

Chi ha la faccia macchiata da una voglia di vino, caffelatte, o da lentiggini, basta che guardi fisso la luna per un’intera lunazione, facendo il gesto di pulire la voglia con la mano e al sorgere della luna nuova tutte le macchie saranno sparite.

I capelli e le unghie vanno tagliati a luna calante, se si vuole evitare che ricrescano in fretta e questo è anche il momento migliore per depilarsi.

Diffuse credenze popolari vogliono le donne nei loro cicli accompagnate dalle fasi lunari. Per questo si ritiene che il ciclo mestruale concluda un periodo di ovulazione in cui il picco massimo si verifica durante la luna piena. Anche il concepimento ed il parto sarebbero influenzati dalla luna. Secondo queste credenze la fase crescente coincide con la massima fertilità, e la calante corrisponderebbe ad un periodo bassa fertilità. Analogamente, si associa la luna che cresce ad un anticipo del parto e alla nascita di un maschio e quella calante ad un ritardo del parto e alla nascita di una femmina.

Vero o no, non lo sappiamo, le credenze qui descritte, di cui non conosciamo la validità, vogliono solo ricordare come le tradizioni popolari in tutte le occasioni riescono ad esprimere, con o senza ragione, la loro saggezza.

Gianni Cordola

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