La corsa delle fate al Monte Civrari

Le leggende sono un prezioso ricordo nella coscienza popolare e conservano nella loro semplicità il segreto del passato. Oggi gli anziani montanari non si piegano facilmente a narrarle ai curiosi, però se sono certi di non essere derisi ripetono le novelle che i nonni raccontavano d’inverno ai ragazzi nelle stalle.

Ho visto qualche volta mia mamma Giuseppina Pautasso commuoversi nel ricordare le fiabe che era avvezza a sentire fin dall’infanzia. Forse in un baleno tornava col pensiero nei giorni lontani; rivedeva come in un sogno la stalla angusta e nera, ove stavano raccolti vicino alle mucche, quando il vento sibilava tra le case di Pratobotrile (borgata di Condove), ed i vecchi dalle facce serene, seduti accanto ai figli, parlavano delle leggende che si raccontano da secoli mentre i fanciulli guardavano con inquietudine nell’ombra, ove forse stavano nascosti i folletti. In una di quelle serate invernali del primo novecento il nonno Battista (1879/1958) narrò ai suoi figli Giuseppina, Gasperina ed Antonio con una efficacia insuperabile una delle leggende più popolari, ed era quella che ricorda la corsa delle fate sul Monte Civrari, fra la valle di Susa e quella di Viù.

In ogni leggenda la fata è la creatura magica che a fatica si riesce a intravedere con gli occhi di un essere umano. Possiamo immaginarla con le sue ali delicate, le sembianze di una dolce fanciulla e una bellezza particolare, donata dall’universo magico a cui appartiene. Secondo la credenza popolare, le fate vivono nascoste durante il giorno perché prive di poteri magici, che riacquistano invece di notte. La notte è infatti il momento della giornata in cui le fate escono più volentieri ed hanno predominio sul mondo (soprattutto con la luna piena). È per questo che molte di loro sono circondate da una luce: perché essa permette di illuminare il loro cammino nell’oscurità.

La fata nella credenza popolare

Con la voce espressiva e lo sguardo scintillante il nonno ripeté ciò che gli narrarono gli avi. Si dice che una volta, forse secoli o forse decenni prima, un vecchio pastore che passava tutta l’estate in un alpeggio del Collombardo, in una casetta scura dove la sera ritirava il bestiame, alla notte mentre la nebbia passava rapidamente nelle montagne spinta dal vento che flagellava le rocce, coprendo la voce monotona del vicino ruscello, fra il chiarore della luna, egli, spaventato da un rumore di ruote e di sonagli, era uscito dalla povera casa, ed aveva visto passare la splendida e meravigliosa corsa delle fate colle corone di stelle alpine, ritte sui carri di fuoco, in uno splendore di luce, seguite dai folletti nella corsa vertiginosa sulle creste, i colli e le altissime cime scomparendo infine nel monte Civrari.

La corsa delle fate sul monte Civrari

La scena rimase talmente impressa al pastore che decise di passare nei giorni successivi nel luogo dove scomparve il corteo non trovando traccia delle fate ma solo delle stelle alpine. Il paesaggio era tristissimo nella sua imponenza, solo pascoli e rocce nella solitudine dove non giungeva altro suono di voce umana, dove moriva ogni ricordo della vita di fondovalle ma il pastore tornato al paese a fine estate descrisse con la parola come ispirata il giro percorso dalle fate, seguendo con lo sguardo le creste, le cime delle montagne, le curve dei colli lontani, e forse colla fantasia accesa le vedeva passare in quell’istante, fra lo splendore del sole e lo scintillio dei nevai.

Ora noi possiamo sorridere pensando a questa credenza degli alpigiani, ma per intendere tutta la grandiosa poesia del racconto che venne fatto dal nonno, bisognava trovarsi fra i pericoli della montagna, verso i 2000 metri d’altezza; e mentre sentivo la mamma ripetere le parole del nonno, anche a me sembrava di veder passare le fate. Da allora per gli alpigiani della valle di Susa il Civrari è il monte fatato in contrapposizione al monte Musiné ad inizio valle, che è il monte delle entità malefiche, streghe e demoni.

Questa credenza della corsa notturna delle fate sulle nostre Alpi Graie, non si deve confondere col sabba delle masche o streghe, trova invece molta relazione con altre credenze che durano ancora su tutta la catena delle Alpi da ovest ad est, dove varia solo il periodo temporale in cui avviene: inizio anno, ultima notte di carnevale o la notte di San Giovanni.

Gianni Cordola

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Quando imparavo ad andare in bicicletta

La memoria mi permette di ricordare episodi dell’infanzia e adolescenza che compongono la trama della mia vita: oggi mi è tornato in mente come negli anni Cinquanta del secolo scorso avevo imparato ad andare in bicicletta.

Abitavo alla contrada dei Fiori di Condove luogo non proprio ideale per imparare a pedalare in bicicletta non essendo terreno pianeggiante inoltre un’unica bicicletta molto pesante, grande per la mia età e senza rotelle laterali era disponibile in casa. La stessa su cui avevano già imparato i miei fratelli maggiori Mario e Giorgio negli anni precedenti.

I miei fratelli Mario e Giorgio con la bici

Fin dall’età di 6 o 7 anni, desideravo fortemente imparare ad andare in bicicletta, ma avevo grosse difficoltà a tenermi in equilibrio, contavo sull’appoggio dei piedi e di muri per tenermi e chiedevo spesso a mio fratello Giorgio continue lezioni su come guidare la bicicletta, ma nonostante i suoi consigli non riuscivo lo stesso a stare in equilibrio. Portavo la bici a mano spingendomi con i piedi per terra fino al pilone del vicolo dei Fiori e mi lanciavo in quella leggera discesa verso le case del vicolo senza mettere i piedi sui pedali per poi svoltare a sinistra verso il nostro cortile.

Provavo a rallentare non con il freno posteriore, come mi avevano insegnato ma coi piedi, ma prendevo troppa velocità e non piegavo abbastanza il manubrio. Mio fratello corse così a ripescarmi contro il muro, dove ero volato scivolando in quella curva. Ne uscivo con le gambe che andavano a fuoco per le sbucciature. Fortunatamente a quei tempi non c’erano automobili dovevo solo stare attento alle persone che uscivano da casa.

Dopo giorni di continui tentativi e diverse cadute finalmente ero riuscito a stare in equilibrio sulla bici e il meccanismo dell’equilibrio era diventato qualcosa di mio, inoltre riuscivo a far girare i pedali come lo avevo visto fare dagli altri. Entusiasmante è stata la scoperta dei freni, un gran risparmio di suole, perché molto spesso non riuscivo a frenare ed andavo a sbattere contro gli ostacoli che trovavo lungo la strada.

Io con la bicicletta

Mio padre, sul finire degli anni Cinquanta quando già frequentavo la scuola di Avviamento Professionale, mi regalò una bicicletta gialla con tanto di cambio posteriore e campanello posizionato sul manubrio ed io mi divertivo a suonarlo, lo suonavo soltanto per ascoltare il suo suono. La fece comprare da mio fratello Lino di 12 anni più grande di me in un negozio di biciclette a Porta Palazzo di Torino e poi da lì fece il tragitto in bici sino a Condove.

Col passare del tempo imparai benissimo ad andare in bicicletta dopo aver superato le prime difficoltà infantili, mi lanciai in escursioni nei paesi vicini. Mi ricordo quando volevo imparare a andare senza mani, giù per una discesa, ricordo che cadevo e che l’asfalto era duro e che mi sembrava impossibile, andare senza mani. E quando mi buttavo giù dalla strada per Mocchie, mi sembrava che la piazza mi venisse incontro.

Altri ricordi di quand’ero un ragazzino, a Condove: vedevo passare le processioni dei funerali, e ogni uomo portava a mano la propria bicicletta, una persona e una bicicletta, una persona e una bicicletta. Poi il gelataio con il triciclo frigorifero che veniva a vendere i gelati nella piazza. Aveva un gelato alla banana che non avevo mai mangiato, e la sua bici frigorifero mi sembrava bellissima.

Gianni Cordola

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Il grembiule della nonna

Avevo 9 anni quando negli anni cinquanta del secolo scorso venne a mancare la nonna materna Angela Versino di Pratobotrile (Condove) ed oggi vedendo la loro vecchia casa, luogo sacro di ricordi e calore, compio un nuovo passo nel viaggio del tempo.

La casa è in vicinanza della Cappella della borgata ed è rimasta come allora. Rivedo come in un sogno la cucina della nonna ampia, luminosa, aerata. Sulla parete un grande camino rallegra, con la sua fiamma, le lunghe sere d’inverno. Intorno ad esso una batteria di pentole di rame è appesa al muro con chiodi e ganci. Al centro della stanza un grande tavolo di legno serve come piano di lavoro e come tavola da pranzo. Qualche sedia impagliata, sgabelli e una panca sono disposte tutte intorno. Una madia per il pane e altri cibi e una finestra per dare luce all’ambiente.

La casa della famiglia Pautasso Battista e Versino Angela dove sono nati Giuseppina nel 1905, Gasperina nel 1907 e Antonio nel 1910

La nonna era una donna semplice, buona, non giudicava mai nessuno e teneva unita tutta la famiglia. Indossava quasi sempre un grembiule con ampie tasche di colore scuro. Questo abito, era semplice, ma speciale: un pezzo di stoffa nera spesso macchiato di qualche condimento. Il ricordo del grembiule di nonna mi fa percepire lo stormire del vento tra i boschi della montagna, la voce della natura, il canto della vita. Le macchie, che coloravano questa sopravveste, facevano ricordare le fatiche ed i periodi di lavoro. C’erano, infatti, spennellati con toni scuri anche i terribili momenti di guerra e di povertà che hanno reso difficili gli inizi della loro lunga vita, ma che rappresentano le tappe più importanti dell’esistenza di ogni individuo.

La nonna Angela Versino

In tempi antichi, ma non troppo, il grembiule aveva diversi compiti, il principale scopo era di proteggere i vestiti sottostanti in maniera che non siano raggiunti dalle macchie tipiche della cucina, come ad esempio quelle di olio o sugo. In cucina, il grembiule aveva anche il compito di fungere da presina e proteggere le mani dalle scottature mentre si prendevano pentole e paioli roventi dal camino e di asciugarle quando erano bagnate. Altro compito era quello di avvisare il nonno che il pranzo era pronto, infatti in quel momento la nonna lo agitava e questo gesto bastava a far accomodare il nonno a tavola.

Accessorio fortemente attribuito alla vita di montagna e contadina, il grembiule era utile anche per trasportare le uova dal pollaio, le patate dal campo alla cucina, la legna, gli ortaggi e molto altro ancora. Oggi questa usanza si sta pian piano perdendo e il caro e vecchio grembiule, simbolo universale della dolce nonna ai fornelli, ha lasciato il posto a canovacci e presine varie.

Il grembiule è un oggetto che già dagli inizi del Novecento ha fatto la sua comparsa appeso al collo delle donne al lavoro nei campi o in casa. Ricopriva l’intero corpo arrivando fino a sotto le ginocchia, poi con il passare degli anni ha subito una progressiva evoluzione in cui lentamente si è accorciato, tanto che ora, alcune versioni cosiddette “da bar” hanno l’aspetto di una vera e propria minigonna, senza la parte superiore.

Il caro e vecchio grembiule della nonna rimane comunque un pezzo di storia insostituibile e tutti coloro che in vecchia data sono stati bambini, si emozioneranno sicuramente al ricordo di un accessorio molto amato dalle proprie mamme e nonne.

I materiali di realizzazione erano diversi e così anche le fantasia, in ogni caso era un prodotto molto resistente che rispondeva perfettamente alle necessità descritte nei paragrafi precedenti. La tradizione del nostro paese era molto legata a questo oggetto e tutte le donne lo utilizzavano, basta ammirare le foto in bianco e nero, di queste ultime che lavorano a maglia, magari mentre i loro bambini giocano davanti casa.

Gianni Cordola

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Condove: dal sindaco al podestà

L’ordinamento comunale fu profondamente trasformato durante i primi anni del regime fascista, con lo scopo di indebolire l’autonomia locale e rafforzare il ruolo centralizzato dello Stato, trasformando il Comune da organo di autogoverno a ente ausiliario dello Stato per la gestione dell’ordinaria amministrazione. Con la promulgazione della legge 4 febbraio 1926, n. 237 (Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti) gli organi elettivi dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni svolte in precedenza dal sindaco, dalla giunta comunale e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà, che era nominato dal governo tramite regio decreto. Il podestà rimaneva in carica cinque anni con possibilità di rimozione da parte del prefetto oppure di riconferma.
Fu istituita la consulta municipale, organo consultivo delle amministrazioni comunali. Aveva funzioni esclusivamente consultive, in quanto solo il podestà poteva deliberare. Il podestà doveva avere una solida situazione economica, quale poteva essere quella di professionisti, proprietari fondiari, industriali, in quanto non percepiva, di norma, un compenso.
Oltre al fattore economico, era richiesta possibilmente la giovane età, la mancanza di imperfezioni fisiche, avere contratto matrimonio con rito religioso, aver adempiuto agli obblighi militari (la partecipazione alla Grande Guerra era titolo di merito) e naturalmente l’iscrizione al PNF (Partito nazionale fascista).
La figura del podestà riflette la svolta voluta da Mussolini dopo gli anni dello squadrismo e dei proclami rivoluzionari, con l’obiettivo di fornire un’immagine sociale e politica fortemente rassicurante degli uomini che il Regime metteva a capo dei comuni: volontarietà, benessere fisico ed economico, famiglia, patria, fede nel Fascismo.

Il primo Podestà dell’epoca fascista a Condove fu Valentino Barbiera (già sindaco negli anni precedenti) seguito dal cav. Federico Ferraris dal 1939 al 1943.

Ultimo sindaco e poi Podestà di Mocchie fu Giuseppe Ala. Nel 1932 Podestà di Frassinere era Giacomo Rocci. I comuni di Mocchie e Frassinere vennero poi aggregati a Condove l’8 luglio 1936, con provvedimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 23 giugno 1936.

Durante il periodo del podestà i muri delle case posti in posizione strategica, all’ingresso del centro abitato o lungo le vie principali, venivano usati come lavagne per diffondere il verbo del Duce. Era una propaganda capillare, martellante e diffusa in ogni borgo abitato. Si trattava di scritte con una base d’intonaco, su cui venivano verniciati i caratteri con esecuzione manuale a pennello. Caratteri che rispondevano a una tipologia grafica sostanzialmente unica, rappresentata da un carattere tipografico privo di ornamenti, semplice e squadrato. La scelta dei detti fascisti spettava al podestà, previo accordo con il segretario politico.

Il fascio littorio venne affiancato allo stemma comunale e posto sul frontespizio del palazzo comunale di Condove con la scritta “Mussolini ha sempre ragione”. Nel palazzo del dopolavoro aveva sede il Fascio di Combattimento con un grande ritratto del Duce e dedica autografa. Le scritte furono quasi tutte cancellate alla fine del secondo conflitto mondiale, così come altre tracce che richiamavano al fascismo.

In seguito alla Liberazione e alla caduta del fascismo, il sistema elettivo fu restaurato con il Decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 “Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva”, il sindaco tornò ad essere eletto dal consiglio comunale: quest’ultimo venne infatti ripristinato dal medesimo provvedimento insieme alla giunta comunale

Alcune scritte dell’epoca fascista

Arrivando in paese dalla stazione appariva la prima

LA MIA AMBIZIONE: RENDERE FORTE, GRANDE,

LIBERO IL POPOLO ITALIANO Mussolini

In paese sul muro dell’albergo del Gallo si leggeva:

L’AZIONE FORZA I CANCELLI SUI QUALI STA SCRITTO VIETATO

I PUSILLANIMI SI FERMANO, GLI AUDACI ATTACCANO E ROVESCIANO L’OSTACOLO

Sul fronte del palazzo comunale la scritta

MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE

Sulla torre civica il fascio littorio

Sul muro perimetrale della Torretta visibile da tutto il paese

MOLTI NEMICI MOLTO ONORE

Gianni Cordola

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I pani della carità

Il 13 giugno il calendario religioso festeggia Sant’Antonio di Padova, e la mattina della domenica più vicina a quella data a Condove si celebra il Santo. Era consuetudine nei tempi antichi offrire il pane della carità, pane portato in chiesa e benedetto durante la festa e distribuito ai fedeli, un pezzetto per ognuno in famiglia. È il pane che veniva offerto ai poveri dai maggiorenti del paese in occasioni particolari, il pane speciale, quello bianco dei signori. Un pane dai molti significati, dove i culti precristiani, banditi dalla porta, sono rientrati dalla finestra in nome di un sincretismo che ha sovrapposto e riproposto le antiche tradizioni al Cristianesimo dominante.

Oggi la tradizione del pane della carità si ritrova nelle borgate della montagna Condovese in occasione della festa del Santo a cui è dedicata la Cappella ed a cura dei priori. I priori scelti di anno in anno sono i responsabili di una associazione di fedeli che di solito persegue finalità di culto. In questo caso è un laico ed ha il compito di presenziare e controllare che tutto vada bene durante la funzione religiosa nella cappella, curare l’addobbo floreale e la pulizia della stessa ed eventualmente fornire il pane della carità o un piccolo rinfresco.

La tradizione del pane della carità non è documentata, se ne ha memoria nelle persone più anziane di Mocchie e Laietto. Mio padre raccontava che la mattina della festa si andava alla casa dei priori che offrivano due grossi pani tondi o ovali decorati in vario modo, detti “la tsarità“ in francoprovenzale; una forma di pane più piccola della stessa forma e decorazione destinato alla famiglia che era stata scelta per fare i priori l’anno successivo e un’altra sempre piccola destinata al sacerdote che celebrava la messa. Si formava un piccolo corteo che giungeva alla chiesa dove aveva luogo la celebrazione liturgica. Terminata la messa si benediceva il pane che veniva tagliato a piccoli pezzi e messo in apposite ceste. I priori aspettavano accanto alla porta la gente che usciva dalla chiesa per offrire il pane benedetto e prima di portarlo alla bocca effettuavano il segno della croce.

Ma su quel pane ecco che i panificatori iniziarono a riproporre segni antichi e a ricollocare i talismani propiziatori della fertilità e di buoni raccolti. Nelle feste delle varie borgate si ritrovano spesso tali elementi, occasione per valorizzare e divulgare Il patrimonio della cultura locale. In alcune borgate il pane della carità era chiamato “ël cariton” (in piemontese) ed era una focaccia dolce farcita di uva fragola o mele spolverata di zucchero e veniva preparato solo in autunno e nelle prime settimane dell’inverno. Fatto con gli avanzi della pasta usata per fare il pane, senza aggiungere burro, con poco zucchero e utilizzando la frutta a disposizione. I pani della carità oggi sono veri e propri dolci preparati con farina dolcificata, burro e frutta (generalmente uva fragola fresca o essiccata o mele).

Vediamo come si fa oggi “IL PANE DELLA CARITÀ (Ël cariton)”

Ingredienti: ½ kg di farina, 1 hg di burro, 2 hg di zucchero, 1 uovo intero, 2 hg di uva fragola (oppure di mele tagliate a cubetti), mezzo bicchiere di latte, una bustina di lievito, un pizzico di sale.

Procedimento: Cuocere a fuoco basso latte, zucchero, burro e un pizzico di sale. Disporre la farina sul tavolo e aggiungere l’uovo e gradualmente la miscela di latte. Si impasta, incorporando per ultimo il lievito. Quando l’impasto è omogeneo, lasciarlo riposare per alcuni minuti davanti a una fonte di calore. Lavare l’uva fragola, lasciarla sgocciolare e farla asciugare. Dividere la pasta in due parti, di cui una leggermente più grande dell’altra, e stendere due sfoglie. Con la più larga foderare il fondo e le pareti di una teglia imburrata e infarinata. Quindi disporvi gli acini d’uva e coprire con l’altra sfoglia sigillando bene i bordi. Cospargere la superficie di zucchero e infornare. Durante la cottura, i chicchi di uva rilasciano il succo che si va a unire all’impasto. Lasciar raffreddare.

Origine della benedizione del pane.
Una volta, anni dopo la canonizzazione del Santo, una leggenda racconta che vicino Padova a una madre che stava lavorando nei campi cadde il figlio Tommasino in una vasca. Quando lo recuperò era morto annegato. La madre andò di corsa all’altare di Sant’Antonio, chiedendogli di restituire la vita al figlio e promettendo di dare ai poveri una quantità di grano pari al peso del bambino. Alla fine della supplica, il bambino si rianimò e tornò normale. La donna prese il grano, fece il pane e lo distribuì ai poveri. Per questo venne chiamato “Pane di Sant’Antonio” ed in seguito “Pane della carità”.

Gianni Cordola

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Quando si andava alla “maròda”

Fino agli anni cinquanta del secolo scorso, tra le bravate di noi ragazzini in età di scuola dell’avviamento industriale (11 ÷ 14 anni) abitanti a Condove c’era quella di avventurarsi al di là dei confini del paese per “andé a la maròda come si diceva allora.

Ci trovavamo in piazza tutti con la bicicletta ed andavamo verso il Castello del Conte Verde (Castrum Capriarum) per raggiungere i terreni tra il paese di Caprie e Novaretto ai lati della strada Statale detta la Militare, area a quei tempi ricca di frutteti. Lasciate le biciclette in un posto sicuro ci si avventurava a piedi in silenzio verso gli alberi da frutto e razziavamo di tutto: ciliege, pere, pesche, prugne, mele, persino fragole e uva a seconda della stagione.

Frutti sovente ancora acerbi, da nascondere sotto la maglia, salvo perderne buona parte lungo la strada, dopo averli catturati con imprese memorabili nei frutteti degli altri. Compiaciuti e orgogliosi. Anche quelli che avevano in casa la stessa frutta, magari più matura. Era un gioco di squadra e di iniziazione. Si saliva di grado e di considerazione mostrando coraggio e abilità. Perché c’erano i muretti da scalare, le piante su cui arrampicarsi, e le inevitabili fughe per prati, sentieri e rive a raggiungere le biciclette e defilarsi senza farsi riconoscere, col derubato che ci inseguiva cinghia alla mano lanciando dei piccoli sassi. Obbligatorio saper fischiare per avvisare del pericolo i compagni ancora intenti alla razzia.

Non c’era malizia tuttavia in noi ragazzini che ci avventavamo nei frutteti dei paesi vicini per rubare una pesca o una mela. Solo il piacere di commettere una birichinata originata dalla voglia irrefrenabile di un frutto appena raccolto. Quella della “maròda” era a quei tempi, una marachella assolutamente perdonabile, persino dai contadini più burberi e severi, purché ovviamente la frutta razziata rimanesse in quantità contenute e i razziatori non avessero arrecato gravi danni alle piante o ai raccolti.

Ma cosa significa “maròda”? Vuol dire appropriarsi di qualcosa in un modo non proprio corretto. Per comprendere il significato, partiamo dalla parola “maròda” e dal verbo “marodé”, termini piemontesi che significano rispettivamente piccola razzia e rubare la frutta dagli alberi e sempre in piemontese“marodeur” è il ladruncolo. Questi termini piemontesi richiamano due corrispondenti vocaboli, uno della parlata francoprovenzale (dove maroda significa ladrocinio), e l’altro dalla francese (dove marauder significa predare, saccheggiare; e dove il maraud è la canaglia o vagabondo. Possiamo quindi ipotizzare che il termine piemontese derivi dall’antico francese “maraud”.

Gianni Cordola

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Il cappello di carta

Mi è successo di vedere in rete una immagine di un imbianchino col cappello di carta in testa e di soffermarmi a guardarla. Come succede in questi casi, il passo che si fa a ritroso nel tempo è lungo, a quando ero bambino, riportandomi alla mente i momenti successivi all’arrivo in casa dell’imbianchino o meglio del decoratore come viene chiamato oggi.

L’imbianchino è sempre stata una delle figure tradizionali dei mestieri svolti nelle nostre case. I miei ricordi vanno agli anni 50 del secolo scorso e l’immagine più viva e indelebile di tutti questi artigiani è data dal cappello che tenevano in testa, preparato sul posto, prima di prendere in mano il pennello: fatto in carta di giornale, piegata sapientemente per renderla una barchetta perfetta. Oggi del tutto scomparso, ma per anni l’ho visto in testa ai muratori (fatto con la spessa carta del sacco di cemento), agli imbianchini ed anche ai panettieri mentre preparavano l’impasto del pane.

Erano ingegnosi i nostri nonni, si costruivano il loro copricapo a punta che se ripiegavano all’interno diventava bustina militare, ma se lo facevano a barchetta con una pacca al centro diventava a due punte che se si ripiegavano ai lati diventava arrotondato oppure poteva diventare da alpino e chissà cos’altro. Un origamo nostrano e ricordo la meraviglia di noi bambini vedendo la creazione del cappello fatto coi fogli di giornale: era magia pura!

Vediamo come creare un semplice cappello di carta utilizzando un foglio di giornale, meglio se di un quotidiano, leggero e facile da piegare più volte. 1 – Prendere il foglio e disporlo sul tavolo. 2 – Piegarlo in due parti lungo la linea centrale. 3 – Piegare uno degli angoli verso il centro della pagina, in diagonale, formando un triangolo. 4 – Ripetere l’operazione per l’altro angolo, facendo combaciare il lato verticale dei due triangoli. 5 – A questo punto sollevare il bordo che si trova nel lato inferiore del foglio. 6 – Ruotare quest’ultimo e piegare anche l’altro bordo ed eventualmente piegare verso l’interno i bordi laterali. 7 – Il cappello di carta è pronto da indossare, allargando con le mani la parte interna per infilarselo in testa.

Gianni Cordola

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Il fazzoletto di stoffa di una volta

Da un cassetto spunta un fazzoletto di stoffa e non posso non tornare indietro nel tempo quando, ancora bambino, il fazzoletto era un oggetto importante nella mia quotidianità: fazzoletti a righe. a quadretti o più comunemente bianchi. Un oggetto apparentemente insignificante, ma di grande utilità che ha accompagnato la vita di ogni persona, donne e uomini , ragazze e ragazzi, bambine e bambini.

Un tempo i fazzoletti trovavano un largo impiego. C’erano quelli per il naso usati sia dagli uomini che dalle donne, c’erano quelli da collo, da taschino e quelli per proteggere la testa. Il fazzoletto è stato nelle mie tasche anche in alcune fasi particolari della mia vita: durante l’adolescenza, quando serviva per asciugare le lacrime che cadevano per una delusione, per un insuccesso scolastico o per sentimenti più intimi.

Il fazzoletto da naso, una volta usato, veniva lavato, stirato e reimpiegato. Gli usi che se ne facevano erano diversi. Oltre a soffiarsi il naso, veniva impiegato per asciugare il sudore dalla fronte, pulirsi la bocca a tavola e anche per pulire gli occhiali.

In epoca più recente lo vediamo impiegato nel taschino della giacca da uomo per dare un tocco di classe al look, ed ha ancora la funzione simbolica, oltre che pratica, di poter offrire il suo fazzoletto pulito, in caso di bisogno, ad un’altra persona come da vero gentleman, sia da porgere alla sua donna se si commuove vedendo un film oppure se si sporca il vestito bevendo una bibita, è il gesto che conta.

I contadini ne indossavano una versione più grande e colorata, sotto la camicia, attorno al collo, o legato attorno alla fronte per raccogliere il sudore e trattenere la polvere. In caso di ferite durante il lavoro, il fazzoletto veniva usato anche come tampone di emergenza o legaccio emostatico per arrestare l’uscita del sangue.

Mia mamma riponeva il fazzoletto nella tasca del grembiule o più frequentemente in una manica del vestito. Oltre ad asciugare il sudore aveva il compito di asciugare le lacrime e pulire la bocca ai bambini, oppure detergere abrasioni della loro pelle. Erano usati anche come pro memoria o porta chiavi. Bastava fargli un nodo ad un angolo, per ricordare un’azione da compiere. Perdere il fazzoletto portava sfortuna.

Altra cosa era il fazzoletto da testa che le nonne hanno portato fino a tutti gli anni 50 del secolo scorso. Il colore era solitamente scuro che diveniva nero in periodi di lutto. Le più giovani portavano fazzoletti di colore chiaro e alla moda. A volte legato dietro alla nuca, per trattenere i capelli e lasciare più libero il viso. Aveva anche una funzione protettiva dai rigori invernali. Una versione più grande del fazzoletto da testa era sempre a disposizione delle contadine e veniva impiegato come sacca per raccogliere in modo spiccio cibarie, frutta, erba per i conigli, foglie, o pannocchie di frumento appena raccolte e da trasportate a casa. Contadini e muratori lo usavano annodato ai quattro angoli intorno alla testa come protezione del viso dai raggi del sole e/o dalla polvere durante la trebbiatura nell’aia e nello svolgimento dei lavori all’aperto.

Il fazzoletto, specialmente quello ricamato, faceva parte, nel passato, del corredo della sposa, una serie di sei fazzoletti veniva regalato per un compleanno o un onomastico alle giovani da marito , non prima però di essersi fatte consegnare una moneta; si credeva infatti che regalare fazzoletti portasse male a chi li riceveva perché costei avrebbe presto versato lacrime e allora la moneta serviva per “pagare” il regalo che così non era più un regalo.

Vecchie credenze e vecchie usanze che però avevano e avrebbero un certo fascino se ancora fossero di moda . Oggi non è più così, fazzoletti in tessuto, che hanno accompagnato anche i primi anni dei nostri figli, sono stati sostituiti dai fazzolettini di carta, sicuramente più pratici e igienici, ma oserei dire, meno “poetici” di quelli in tessuto, molti dei quali sono legati a momenti significativi della nostra vita.
I fazzoletti hanno accolto i nostri turbamenti, emozioni ed i moti del nostro animo e se essi potessero raccontare, tante e tante altre sarebbero le narrazioni che ognuno di noi ascolterebbe anche per farne tesoro.

Gianni Cordola

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Come chiamano le ore i Piemontesi

Una curiosità della lingua piemontese sta nel modo di indicare le ore: per l’una, le due e le tre sia mattutine che pomeridiane, si usa la parola bòt, maschile, per le altre dalle quattro alle undici,la parola ore, femminile. Il bòt orario non è altro che il rintocco, o colpo, della campana: l’unico orologio che per secoli ha scandito il tempo del popolo.

L’origine del termine bòt come già detto deriva dal rintocco della campana, ma perché solo le prime tre ore vengono così chiamate e le altre no? Difficile rispondere, ci sono ipotesi che farebbero derivare il modo di indicare le ore alle abitudini della vita contadina in cui, com’è noto, ci si alza all’alba per lavorare nei campi e si fa una pausa nelle ore più calde della giornata (tra mezzogiorno e le tre) per riprendere nel pomeriggio fino a sera. Non so se l’origine è questa, ma non ne conosco altre.

Vediamo alcuni esempi in lingua piemontese:

Che ore sono? = che ora ch’a l’é?

È la mezza = a l’é mes bòt

È l’una = a l’é un bòt

Sono le due = a l’é doi bòt

Sono le due e mezza = a l’é doi bòt e mes

Sono le tre = a l’é tre bòt

Sono le quattro = a l’é quatr ore

Sono le quattro e mezza = a l’é quatr e mesa

Sono le undici = a l’é ondes ore

È mezzogiorno o sono le dodici = a l’é mesdì

È mezzanotte o sono le ventiquattro = a l’é mesaneuit

Per far capire che si tratta di un’ora del mattino, del pomeriggio, della sera o della notte si aggiunge:
ëd matin / dla matin, dël dòp-mesdì, ëd sèira, ëd neuit

Le diciotto = ses ore ‘d sèira,

Le sedici = quatr ore dël dòp-mesdì,

Le ventuno = neuv ore ‘d sèira,

Le due = doi bòt ëd neuit

Alle quindici e un quarto = a tre bòt e un quart dël dòp-mesdì

Mentre in italiano si dice: le due meno dieci, le quattro meno venti, etc. in piemontese si preferisce dire: des minute a doi bòt, vint minute a quatr ore etc. In piemontese si dice a l’é quatr ore, ma non “a l’é quatr ore e vint”: bisogna dire a l’é quatr e vint. Ricordiamoci che in piemontese “due” può essere maschile (doi) o femminile (doe). Nel caso ci si riferisca ad un intervallo di tempo, allora si usa sempre ore e mai bòt. Per arrivare ci vuole un’ora e mezza = Për rivé a-i va n’ora e mesa.

Alla domanda “Che ora a l’é?” Ai miei tempi le risposte per canzonare l’interlocutore erano due:
1) a l’é ora ch’it cate na mostra – 2) l’ora d’jer a st’ora!

Una curiosa locuzione è: dé ‘l bròd d’ondes ore, che pronunciata in un tono leggermente ironico ha significato di “brutta lezione ricevuta”. L’origine della stessa risalirebbe a quando nel regno sabaudo ancora esisteva la pena di morte che veniva eseguita al sabato mattina. L’ultimo pasto del condannato era una magra scodella di brodo, consumato intorno alle 11.

Orologio si può dire in vari modi ma mostra è il termine più comune per indicarlo (da taschino o da polso), ma non è l’unico. Un tempo, vecchi e grandi orologi da tasca, a volte assicurati con una catenella, erano chiamati per la loro forma rava (rapa) o siola (cipolla). Addirittura c’è chi usava termini come galanta ò pitocarda. Ci sono poi le sveglie, conosciute con il nome di dësvijarin, da dësvijé = svegliare. Orologi per campanili, torri ecc. si chiamano arleuri ò arlògi.

Gianni Cordola

Pubblicato in Arte e cultura, condove, curiosità, Folclore e tradizioni, Lingua piemontese, Montagna Valle Susa, storia Piemonte | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Come chiamano le ore i Piemontesi

Condove, Frassinere e Mocchie nell’annuario d’Italia 1933

L’annuario generale d’Italia è una pubblicazione periodica, annuale, che dà una raccolta di informazioni statistiche sugli aspetti della vita sociale, amministrativa, commerciale e industriale del paese, compilata col concorso degli organi dello Stato. Vediamo la parte riguardante i Comuni n. 58 CONDOVE, n. 70 FRASSINERE e n. 95 MOCCHIE nell’edizione dell’anno 1933.

ANNUARIO GENERALE D’ITALIA – ANNO 1933

UNICA GUIDA PROFESSIONALE GENERALE AMMINISTRATIVA COMMERCIALE E INDUSTRIALE DEL REGNO E DELLE COLONIE

Informazioni Generali sui Comuni tutti delle Provincie appartenenti alle seguenti Regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia e Venezia Euganea

PROVINCIA DI TORINO

Circoscrizione Elettorale del Regno (Collegio Unico).

MANDAMENTI GIUDIZIARI N. 12 – SUPERFICIE KMQ. 5480,86 – COMUNI N. 179 – POPOLAZIONE 1.147.149 ABITANTI

Comune n. 58 CONDOVE

Diocesi di Susa. Abitanti 2387. Dista km 32 da Torino (Capol. Provincia) e km 22 da Susa (Capol. Mand. Giud.). Superficie ettari 540. Altit. m. 380. A levante di Susa, sulla sponda sinistra del torrente Gravio.

Frazioni: Fucine, Poisatto, Ceretto e Magnoletto.

Prodotti: cereali, frutta, uva, castagne, patate,legna, fieno e burro.

Corsi d’acqua: Dora Riparia e Torrente Gravio

Poste e telegrafo: locali

Ferrovia: locale a km 1 sulla linea Torino Susa.

Fiere: aprile, giugno, ottobre, marzo, settembre e novembre

Mercati: ogni mercoledì

Podestà: Barbiera cav. Valentino

Segretario: Bruno Enrico Mario

Conciliatore: Pagliarello Celestino

Esattore: Vassarotto Antonio

Opere di beneficenza: Asilo infantile

Acque gassose (fabbr.): Coppino A.

Aeroplani (fabbr.): Officine Moncenisio

Agenti d’assicurazione: Cordola Michele (Reale) – Fenoglio Luigi

Albergatori: Alterant Felice – Ricci Tommaso – Mina Bernardino

Apicultori: Bruno Enrico Mario – Bruno don G. B.

Armaiuoli: Vaira Gius.

Banche: Cassa di risparmio di Torino

Bestiame (negoz.): Pettigiani Felice

Caffettieri: Tosi Luigi – Ricci Tommaso

Calzaturifici: Arnaud Gius.

Capimastri: Boero Oreste

Carri ferroviari (costrutt.): Officine Moncenisio

Cartolai: Borello Felice

Cementi (fabbr.): Castagneri Castore

Chincaglieri: Manelli Luigi – Arnaud G. – Ogliero Clementa – Alpe Giuseppe

Cinemaografi (eserc.): Dopolavoro

Costruttori meccanici: Officine Moncenisio

Fabbri: Col Giuseppe – Benvenuti Alf.

Farmacisti: Vassallo Giovanni

Fornitori militari: Officine Moncenisio

Fotografi: Polo Carlo

Frigoriferi (eser.): Bellone Giuseppe – Chiariglione Pietro – Salino Paolo

Generi diversi (negoz.): Spirito G. – Manelli Luigi – Chiariglione Pietro – Danuse Mario

Geometri: Cordola Michele – Perodo Guido

Giornali (riven.): Delsanto

Illuminazione elettrica: Azienda Unione Elettr.

Lattonieri: Rocci Luigi – Rocci Paolo

Levatrici: Bronzino Benigna – Selvo Virginia – Illengo Silvia

Macchine da cucire (neg.): Chirio V.

Macellai: Chiariglione Pietro – Salino P. – Bellone Gius. – Gilardi Angelo

Medici chirurghi: Rosmini Giovanni – Brunicardi Oscar

Molini (eserc.): Rocci G. – Pautasso P.

Notai: Gatti Azzo – Vassarotti Ricciotti

Nastri (fabbr.): Faldella Angelo

Orologiai: Giverso B.

Panettieri: Montabone G. – Rocci G. B. – Olivero Oreste – Brando G.

Panierai e cestai: Ruffinatti Giov.

Parrucchieri: Serratrice Mich.

Pasticceri: Re Beniamino

Pizzicagnoli: Chiariglione Pietro – Bellone Gius.

Sarti: Chirio Vincenzo – Mustavo Gius.

Segherie (eserc.): Girardi Livio

Tabaccai: Boglione Giorgio – Pettigiani Delfina

Tipografi: Gagnor Ern.

Trebbiatrici (noleg.): Delsavio Egidio – Ditta Marra Camandona

Veterinari: Majotti Lorenzo

Vini (neg.): Soffietti Carlo – Zauli Andrea – Granero Giacomo

Zoccoli (fabbr.): Granetti Alberto – Suppo Mich.

Comune n. 70 FRASSINERE

Diocesi di Susa. Abitanti 1260. Dista km 38 da Torino (Capol. Provincia) e km 16 da Susa (Capol. Mand. Giud.). Superficie ettari 2300. Altit. m. 991. In territorio montano, bagnato dal torrente Gravio. La sede del Comune è in frazione Borla.

Frazioni: Borla, Grange, Maffiotto

Prodotti: pascoli, segale, avena, patate, uva, corteccia di rovere, legname e ottime trote del Gravio

Cave e miniere: vi si trovano miniere di amianto, cave di quarzo, di pirite aurifere e ramifere, talco, gneis, granito e ferro.

Poste e telegrafo: Borgone di Susa

Ferrovia: Borgone sulla linea Torino Susa.

Podestà: Rocci Giacomo

Segretario: Favre Camillo

Conciliatore: Ambrosia Giovanni

Esattore: Vassarotti Antonio

Albergatori: Borla Michele – Gagnor Giacinta -Vayr Angelo – Nurisso Ferdinando – Vasone Francesco – Richiero St.

Medici chirurghi: Oscar Brunicardi

Miniere d’amianto: Cornut Comm. C.

Miniere di quarzo (eserc.): Succo P.

Molini (eserc.): Alpe Lorenzo – Lavi Via.

Tabaccai: Nurisso Ferd. – Vayr Angelo

Comune n. 95 MOCCHIE

Diocesi di Susa. Abitanti 1969. Dista km 36 da Torino (Capol. Provincia) e km 15 da Susa (Capol. Mand. Giud.). Superficie ettari 4293. Altit. m. 791. In val di Susa a sinistra del torrente Gravio, sora una delle più fertili montagne della valle.

Frazioni: Alotti – Bigliasco – Laietto – Reni

Prodotti: burro, cacio, uova, legna, carbone, corteccia di rovere, frutta, cereali, bestiame e pollame.

Cave e miniere: rame solforato e piritico, schisto micaceo quarzoso, schisto talcoso, titano calcareo selcioso e tormalina nera; nella regione Barmonsello una miniera d’oro poco produttiva. Cave di talco non coltivate.

Poste, telegrafo e Ferrovia: a Condove dista 5 km sulla linea Torino Susa.

Podestà: Ala Giuseppe

Segretario: N. N.

Conciliatore: Martin Adolfo

Esattore: Vassarotto Antonio

Albergatori: Borgis Michele – Pettigiani Ermenegildo – Senor Fedele – Selvo Benigna – Pettigiani Stefano – Cordola Matilde – Rocci Armando.

Calzolai: Borgis Antonio – Garnero Alfonso – Rocci Felice

Fabbri: Croce Giacinto

Medici chirurghi: Brunicardi Oscar

Molini (eserc.): Cordola Vinc. – Croce Antonio – Selvo Battista

Parrucchieri: Senor Fedele

Pizzicagnoli: Alpe Teresa – Senor U.

Sarte: Rocci Cesarina

Tabaccai: Pettigiani S. – Senor Fedele

Veterinari: Maiotti Lorenzo

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