I Pautasso di Carignano (TO)

In Piemonte, quando si vuole indicare un cognome che indichi una sicura estrazione contadina e una famiglia di poca importanza, si utilizza talora il cognome Pautasso. Si tratta in realtà di un luogo comune, non sempre giustificato. A Carignano, la famiglia ebbe, tra quelle del popolo, una certa importanza.

La famiglia aveva numerosissimi esponenti in Carignano già nel XVI secolo; Francesco partecipò nel 1553 ad una riunione di capi di casa (si dicevano capi di casa coloro che possedevano beni e potevano amministrarli liberamente), Saluto era tra i capi di casa nel 1559 e nel 1562, Bartolomeo, Gianmichele, Matteo, Giuseppe e Giovanni erano tra i capi di casa nel 1559. I seguenti possedevano beni in Carignano nel 1585: Pietro, Saluto, Stefano, Antonio, Bartolomeo, Giovanni, Giovanni di Antonio, Manfredo, Tommaso, Vitto, altro Pietro, Giò Antonio, Antonio e Michele (cugini), Baldesardo, Luca, Giò Michele, Nicolò e Desiderio (fratelli) nonché altri non specificati eredi di Bartolomeo, di Battistina e di Tommaso. Antonio, Domenico, Luca, Michele, Giacomo e Tommaso (alcuni dei quali si possono probabilmente identificare con omonimi personaggi precitati) erano tra i capi di casa nel 1562.

Nel 1612 alla riunione dei capi di casa parteciparono Francesco di Giovanni, Francesco, altro Francesco, altro Francesco ancora (si può legittimamente pensare che essi siano nipoti di quel Francesco che fu capo di casa nel 1553, vale a dire figli di vari suoi figli, in quanto era in quei tempi in uso – abbastanza rispettato – di dare ai figli, in genere ai primogeniti, il nome del nonno), Tommaso, Bartolomeo, Giovanni Antonio, Stefano, Pietro, Battista, Giacomo, Antonio, altro Antonio, Desiderio ed altro Pietro.

Il 4 febbraio 1624 parteciparono ad una riunione dei particolari (termine equivalente a capi di casa) i seguenti rappresentanti della famiglia: Antonio, figlio di Michele (si tratta forse di quel Michele che partecipò alla riunione dei capi di casa del 1562), Cristoforo, Ludovico, Francesco, figli del fu Giovanni Antonio (si tratta probabilmente dell’omonimo che partecipò all’assemblea del 1612).

Nel 1635 un Nicolao partecipò ad un’assemblea di particolari. Michele era “Carabina” nella Milizia ordinaria di Carignano nel 1637. Sebastiano fu consigliere comunale nella seconda metà del XVII secolo. Carlo Francesco era nel 1707 Priore della Confraternità del Santissimo Rosario. Michele era nel 1760 cappellano della piccola chiesa della Chà, nei pressi di Carignano, di proprietà dei conti di Larisse. Simone Antonio era nel 1773 Rettore della Confraternità dello Spirito Santo, fu inoltre direttore dell’Ospizio di Carità di Carignano. Antonio era nel 1775 cappellano della chiesa di San Martino che officiava per conto del preposito Giovanni Battista Robesto. Bartolomeo fu uno dei promotori della cappella della Madonna della Speranza. Giuseppe fu consigliere comunale aggiunto dal 1797. È lui probabilmente quel Giuseppe, dottore, che, intorno al 1835, lasciò alla chiesa della Misericordia duemila lire. Francesco, fuciliere del 64° reggimento di linea dell’armata napoleonica, morì nel 1810 nell’ospedale di Bayonne (Bassi Pirenei). I seguenti furono consiglieri comunali nell’ottocento: Giuseppe Antonio, Michele e Cesare. Michele, medico, fu consigliere comunale e, nel secondo semestre del 1795, venne nominato sindaco. Un G….. Pautasso, medico, scrisse una storia del monastero di Santa Chiara di Carignano. Un caporale Pautasso, di cui non è noto il nome, tenne un diario di guerra riguardante le campagne del 1859 che è conservato nell’archivio comunale di Carignano.

Tratto dalla rubrica “Genealogia e storia” della rivista “ël caval ‘d brons” numero 1 del Gennaio 1984 curata da Gustavo Mola di Nomaglio

Pubblicato in Arte e cultura, c'era una volta, cognomi, Genealogia, Storia, storia Piemonte | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su I Pautasso di Carignano (TO)

Gianduja

La vera storia di Gianduja (Giandoja ‘n lenga piemontèisa)

Gianduja è nato burattino, ma presto è divenuto maschera per assumere in seguito la veste di simbolo di Torino, del Piemonte e nel Risorgimento del sentimento unitario del popolo italiano. Vediamo in breve la sua storia. Gianduja ha più di due secoli di vita e per ritrovare le sue radici bisogna tornare indietro fino agli ultimi anni del ‘700.

A Torino, lavorava in piazza Castello un burattinaio all’epoca famoso, si chiamava Umberto Biancamano, ma per tutti era Gioanin dij osej. La tradizione vuole che fosse originario di Callianetto. Il burattino protagonista dei suoi lazzi comici era Gerolamo, “Gironi” in piemontese. In quegli stessi anni era a servizio a Torino il giovane Giovan Battista Sales, che imparata l’arte burattinaia proprio da Gioanin dij osej, parte da Torino in cerca di fortuna, essendo la “piazza” torinese già occupata dal maestro. Lo ritroviamo a Genova in società con un burattinaio di Racconigi tal Bellone. La città in quel periodo era sotto l’influenza francese. Infatti Napoleone, che aveva ristabilito la repubblica, aveva eletto il doge: Gerolamo Durazzo. Per Sales e Bellone che muovono un burattino che si chiama proprio Gerolamo, doveva essere stato un invito a nozze: dentro le baracche dei burattinai è sempre entrata la satira politica. Espulsi da Genova, Sales e Bellone per evitare di avere noie con la giustizia, furono costretti a cambiare il nome al protagonista dei loro spettacoli che da Gerolamo diventò Gioann con tricorno, codino e dotato di parlantina beffeggiante; la caratteristica di avere sempre con se la doja, un boccale di terracotta per bere il vino lo fece soprannominare “Gioann dla doja”, pur conservando le caratteristiche di Gerolamo, e così continuarono le recite nei centri minori.

Sales e Bellone sono ormai talmente padroni del mestiere da ideare spettacoli per essere rappresentati non nelle piazze, ma in teatri chiusi. Ritornano a Torino senza il timore di concorrenza. Siamo nel 1807, la maschera che muovono i due burattinai è di nuovo Gerolamo: è una scelta conveniente, perché Gironi è fortemente attestato in città grazie alla memoria di Gioanin dij osej. Ma proprio in quello stesso anno, il fratello minore di Napoleone, Gerolamo, viene incoronato re di Westfalia: pronunciare in teatro il nome di Gerolamo diventa nuovamente rischioso, troppo facilmente si può incappare nell’allusione caricaturale. E infatti in occasione di una rappresentazione l’intervento della polizia non si fa attendere e le conseguenze si annunciano pesanti. Sales chiede protezione alla potente famiglia in cui aveva servito da ragazzo, i conti Amico, e questi indirizzano i due burattinai a dei nobili di Castell’Alfero, i cui possedimenti comprendono proprio Callianetto, all’epoca ricca di boschi e quindi luogo ideale per rifugiarvisi.

In quell’ambiente verranno definite meglio le caratteristiche di Gioann dla doja (appellativo che presto fu condensato in Gianduja) e dal loro rifugio di Callianetto, in quello che da allora in poi sarà indicato come il Ciabòt ‘d Gianduja, Sales e Bellone decideranno di sostituire con la nuova maschera il troppo rischioso Gerolamo. Nasce cosi Gianduja, che nel suo nome ha la doja, il boccale, ma la sua nascita lambisce quella della coccarda tricolore che orgogliosamente farà, in seguito, sfoggio sul suo tricorno, dato che di lì a poco, Gianduja, sarà destinato a diventare una dei principali simboli del Risorgimento. Sales e Bellone tornano quindi a Torino nel 1808, e in un locale di via Dora grossa (l’odierna via Garibaldi) con la commedia “Le 99 disgrazie di Gianduja” presentano ufficialmente la nuova maschera al pubblico della capitale sabauda. I trionfi si susseguono e Gianduja giunge ad incarnare il più autentico spirito del popolo piemontese.

Dopo l’unità d’Italia, con la conseguente perdita della capitale da parte di Torino, Gianduja diventa l’emblema dei risorti carnevali torinesi. La sua immagine, si lega allora a quella del vino e delle varie galuperie dolciarie, quali il torrone e soprattutto il cioccolato, in linea con il nuovo ruolo di Torino, non più capitale politica, ma capitale manifatturiera.

Gianduja è furbo, coraggioso, magari finto tonto all’occasione, ma con ben chiaro in testa che cosa vuole, ha la faccia rotonda e pacioccona, la capigliatura raccolta in un codino girato all’insù con fiocco rosso, un neo sotto un occhio e sulla fronte dalla parte sinistra e naso un po’ rosso,il cappello a tricorno, il vestito è composto da una giubba color marrone bordata di rosso, il panciotto è giallo, i pantaloni verdi e lunghi sino al ginocchio, le calze sono rosse e le scarpe hanno una fibbia in ottone. La sua compagna è Giacometta, vestita con un abito rosso ed un grembiule bianco, un foulard verde al collo, un cappello legato con un nastro rosso, calze nere e scarpe chiare.

Le maschere torinesi

In quegli anni Gianduja comincia ad impersonare per gli italiani il Piemonte: è una maschera libera e democratica, non ha bisogno né di sottintesi né di inchinarsi ai padroni. Parla francamente e schietto al suo re. E’ la rappresentazione di un popolo, mentre le altre maschere non ne sono che la caricatura; più di una maschera egli è dunque un carattere. L’anima e il cuore di Torino continuano a pulsare sotto la giubba di Gianduja ed anno dopo anno il suo viso sorridente ed ottimista illumina la festa del Carnevale torinese ed è presente a commentare con la sua pungente bonomia i fatti più importanti della storia e del costume italiano, almeno fino al 1893. Si ha poi un lungo periodo di eclissi in cui Gianduja è una presenza occasionale e sempre meno incisiva e significativa . Nel maggio del 1925 nasce la Famija Turinèisa e con essa la maschera di Gianduja riprende la fila della tradizione risorgimentale ed ottocentesca. Nel 1957 nasce l’Associassion Piemontèisa – Compagnia Città di Torino per le tradizioni popolari piemontesi per iniziativa di Andrea Flamini che tuttora la dirige. Ha portato in Italia e all’estero sempre vestito come Gianduja, il folklore piemontese, facendone conoscere gli aspetti e le espressioni più autentiche.

Carnevale di Torino 2013 – Gianduja rappresentato da Andrea Flamini dell’Associassion Piemontèisa

Gian dij Cordòla (marzo 2013)

Pubblicato in Folclore e tradizioni, storia Piemonte, Torino | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su Gianduja

Il carnevale di Laietto

LOU CARLEVÉ DOU LIEUT in francoprovenzale

ËL CARLEVÉ DËL LAJET in piemontese

Il carnevale di Laietto è una delle più rappresentative e particolari manifestazioni del folclore alpino francoprovenzale. Si svolge a Laietto una frazione montana del Comune di Condove in Valle di Susa. Questo carnevale aveva nel passato due momenti distinti: le “Dëspresie” o le “Busaje” e le “Barbuire”. Si cominciava il giorno dell’Epifania, alternativamente si eseguiva una delle prime due, ovvero un anno si facevano “Le Dëspresie” (i dispetti) e l’anno successivo “Le Busaje”.

“Le Dëspresie” erano una serie di piccoli furti, che venivano praticati nella notte antecedente la festività da parte dei giovani del paese. Venivano asportati fuori dalle case, balle di paglia, scale di legno, pantaloni o altri indumenti stesi ad asciugare, falci, zappe o rastrelli, tutto andava bene. Ma la cosa non finiva male perché l’indomani mattina tutto quanto era stato “preso in prestito” sarebbe stato restituito ai legittimi proprietari depositandolo sul piazzale antistante la chiesa e le vittime di questi scherzi dovevano andare a cercarsi il loro maltolto senza poter scatenare le loro ire contro gli ignoti colpevoli e sottostare all’ironia comunitaria.

“Le Busaje” erano invece una pubblica presa in giro che si svolgeva, sempre sul piazzale della chiesa di Laietto alla fine della messa grande dell’Epifania, un corteo chiassoso costituito da giovani mascherati sommariamente con mantelli e cappellacci, al suono di strumenti improvvisati, attendeva i giovani uomini e le donne nubili all’uscita della funzione religiosa per unirli a caso in matrimonio, deridendoli e apostrofandoli con canti, lazzi, filastrocche e battute anche licenziose. I giovani, che si burlavano pure fra di loro, declamavano i loro versi sotto ad un grande ombrello mentre un’altro teneva in mano un grosso cero acceso. Al termine delle letture tutti i biglietti con le satire venivano bruciati pubblicamente al fine di non lasciare traccia di quanto detto e far scomparire ogni malizia con una risata nel nome del carnevale.

Il vero carnevale aveva luogo alla domenica grassa, ossia quella precedente le Ceneri, con protagoniste le “Barbuire”, ambigui personaggi mascherati che si dividono nel gruppo dei belli – il Monsù e la Tòta (il Signore e la Signora), i due Arlecchini con le maschere bianche e il cappello delle fate, il Dottore e il Soldato – e dei brutti – il Pajasso, che indossa corna di mucca e porta appeso ad una gamba un campanaccio che risuona ad ogni passo, e le coppie di Vecchi e Vecchie. Il rito si basa proprio sul Pajasso, che porta con sé un bastone alla cui sommità è legato un gallo: questo personaggio e le coppie di Vecchi si divertono a spaventare i borghigiani e a far scherzi, soprattutto alle ragazze, vere destinatarie della festa. Il corteo delle Barbuire, accompagnato dalla banda musicale, si snoda per le viuzze di Laietto e raggiunge un prato dove si vedono gli Arlecchini, Monsù e Tòta ballare al ritmo della musica della banda, mentre Pajasso e Vecchi continuano le loro scorribande. Entrano poi in scena Dottore e Soldato, che corrono in soccorso delle Barbuire stremate, per somministrare loro una potente medicina: cicchetti di vino e grappa fatti in casa. La rievocazione si chiude con il Pajasso che taglia la testa del gallo – che nel frattempo è stato appeso ad un pero in mezzo al prato – decretando la morte del Carnevale, la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, in un rituale di fecondità e prosperità per l’anno nuovo.

Il pajasso

Gianni Cordola

Pubblicato in Arte e cultura, condove, Folclore e tradizioni, Lingua piemontese | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su Il carnevale di Laietto

Dov’è finito il piemontese

(Anté a l’é finì ‘l piemontèis)

Il Piemontese (“Piemontèis”) è riconosciuto fra le lingue minoritarie europee fin dal 1981, anche l’UNESCO lo annovera tra le lingue meritevoli di tutela. È una lingua neolatina appartenente al sistema dei dialetti gallo-italici. Il Piemontese fa parte della branca occidentale delle lingue neolatine; l’Italiano, invece, appartiene alla branca orientale. I primi manoscritti in tale lingua possono essere considerati I Sermoni Subalpini, conservati alla Biblioteca Nazionale di Torino, risalenti al XII secolo.

Il Piemontese si parla quasi ovunque nella regione Piemonte. Nelle vallate occidentali la lingua è parlata a fianco dell’occitano e del franco-provenzale. Per lingua Piemontese si intende il linguaggio emerso verso la metà del Seicento, e che affonda le sue radici, per quanto concerne la morfologia, negli idiomi del Piemonte occidentale; questo tipo linguistico si è diffuso velocemente, innanzitutto come idioma di scambio commerciale, e poi come lingua dell’esercito anche in Val d’Aosta, arrivando addirittura a penetrare in Savoia e a Nizza Marittima.

Fino al secolo XVII la pur abbondante letteratura Piemontese si presentava alquanto slegata, poiché era espressa nei vari idiomi locali; con la nascita della lingua comune assistiamo allo sviluppo di una letteratura unitaria: nel Settecento il piemontese è la prima lingua ufficiale del regno dei Savoia: a corte si parla piemontese, nelle chiese i preti predicano in piemontese e il piemontese viene insegnato prima del latino, dell’italiano e del francese in alcune scuole e a tutti i cortigiani e diviene il mezzo di espressione di una splendida produzione con le opere di Isler, Ventura e Calvo.

Nel 1783 si stampa la prima grammatica Piemontese, grazie a M. Pipino; le norme grafiche descritte in quell’opera e perfezionate nel 1784 da G. Gaschi sono ancora in uso oggi, con poche variazioni. L’Ottocento vede una crescita del numero degli autori che la adoperano; fra i più celebri possono essere ricordati A. Brofferio e N. Rosa. Quel secolo segna inoltre la nascita del romanzo in Piemontese; infine ricordiamo che nel 1834 i Valdesi stampano a Londra il Nuovo Testamento e i Salmi di Davide in lingua Piemontese.

Perduto il rango di capitale dello Stato nel 1865 Torino vede allontanarsi la Corte, il Parlamento, l’apparato di governo, e trova nuovo slancio di vita nel fervore di una crescente attività industriale che la fa meta di un processo accelerato di inurbamento, che muove prevalentemente dalle campagne e dalle montagne circostanti. Questo fa si che per i patois delle vallate alpine “Occitano e Francoprovenzale” inizi l’adeguamento linguistico al Piemontese, già largamente diffuso e preminente nella regione per il prestigio che gli derivava dall’essere la parlata della capitale sabauda. Come lingua degli atti ufficiali, delle manifestazioni culturali e delle comunicazioni sociali domina incontrastato l’italiano che è imposto a tutta la nuova generazione attraverso l’istruzione elementare, divenuta obbligatoria e gratuita per la legge Coppino del 1877.

Per comprendere la decadenza del Piemontese dopo l’unità d’Italia è sufficiente vedere il Regolamento per le scuole municipali di Torino del 1879 all’art. 33 dove proibiva ai maestri “di parlare in scuola il dialetto o permettere che gli alunni ne facessero uso”: una immagine ideale auspicata ma molto lontana dalla realtà che vedeva i ragazzi parlare esclusivamente in dialetto sia nell’ambito famigliare che fuori. L’uso dell’italiano in famiglia non giovava se non accompagnato dalla cura continua del parlar bene ed anzi riusciva più dannoso che utile e regnava una scapigliata anarchia con uso di italianismi derivati da nomi dialettali.

Edmondo De Amicis in un’opera del 1905 parlando delle bambinaie reclutate nelle valli piemontesi scriveva: “Il bambino saprà da lei che non va bene a raviolarsi nel paciocco e che nel domorarsi si corre rischio di sghigliare sulle ploglie di portogallo e quindi cascare e farsi il nisso sul fronte”. I giornali più noti, la “Gazzetta del Popolo” e la “Gazzetta Piemontese” (diventata poi La Stampa) sono scritti in lingua italiana. È redatto invece in Piemontese ‘L Birichin “giornal piemontèis ch’a seurt al saba, a un sòld la còpia” foglio settimanale illustrato, letterario e umoristico nato nel 1887 e vivrà fino al 1928. Una “Biblioteca Popolar Piemontèisa” viene pubblicata come “Edission dël Birichin”: sono fascicoletti da “doi sòld” che diffondono romanzi, racconti, testi drammatici in piemontese.

Negli anni 20 del secolo scorso la letteratura Piemontese rinasce; pietra miliare di questa risurrezione è la fondazione della “Famija Turinèisa” (1925) e la “Companìa dij Brandé” (1927).

La “Famija Turinèisa” con la rivista settimanale “Ël caval ëd brons” si propone di mantenere vive le antiche gloriose tradizioni di Torino e del Piemonte, di ispirare e coltivare le memorie del passato ed impedire che si perda la lingua piemontese (il settimanale nato nel 1923 in lingua piemontese venne negli anni successivi redatto in italiano con ritorni nostalgici alla parlata dei vecchi).

La “Companìa dij Brandé” è un movimento letterario animato da Pinin Pacòt (1899-1964) che realizza l’unità grafica della lingua sulla base della tradizione secentesca e che avvia una fioritura assai efficace di poesia e di prosa.

Nel 1957 nasce l’“Associassion Piemontèisa” – Compagnia Città di Torino per le tradizioni popolari piemontesi per iniziativa di Andrea Flamini che tuttora la dirige. Ha portato in Italia e all’estero sempre vestito come Gianduja, il folklore piemontese, facendone conoscere gli aspetti e le espressioni più autentiche.

Negli anni 1950÷60 in connessione con una politica di sviluppo industriale si gonfia il flusso dell’immigrazione dalle regioni meridionali verso il Piemonte. L’entità massiccia e la celerità dell’apporto hanno reso impossibile una graduale assimilazione temperata e temperante dei nuovi arrivi. In Torino si formano quartieri interi, dal vecchio centro decaduto alla nuova periferia, popolati quasi esclusivamente o almeno in prevalenza di nuovi venuti, così si creano isole linguistiche alloglotte ed il tessuto linguistico dei rapporti cittadini è fortemente alterato e condizionato. Negli stessi anni la diffusione della televisione arriva a portare in ogni casa immagini e parole in lingua italiana diventando così il veicolo della comunicazione generale. Per alcuni anni si configura una situazione di bilinguismo (piemontese – italiano) corrispondente alla struttura cittadina non amalgamata, ma ben presto con le nuove generazioni diminuisce fortemente la parlata piemontese.

È però da tenere in conto una tendenza antagonista per mantenere viva la lingua piemontese con l’edizione nel 1976 del “Vocabolario italiano piemontese” di Camillo Brero e qualche anno dopo della “Gramàtica piemontèisa” sempre dello stesso autore.

Una letteratura in Piemontese si afferma anche in Argentina, dove i figli e i nipoti degli immigrati piemontesi parlano e scrivono, seguendo la stessa grafia generalizzatasi in Piemonte.

Carta linguistica del Piemontese

Gli studiosi più importanti, non hanno alcuna difficoltà a riconoscere che il Piemontese è una lingua totalmente indipendente dall’italiano e dai suoi dialetti, e che in virtù della sua originalità e vitalità certamente merita di sopravvivere. Va citata la lodevole iniziativa di alcuni ingegnosi piemontesisti che hanno costruito il sito “Wikipedia an piemontèis”, con l’uso del piemontese come lingua di comunicazione e di informazione. Un riferimento va pure fatto alla rivista “La Slòira”, alla più che quarantennale rivista “Piemontèis Ancheuj” e a diversi editori come Viglongo, il Centro Studi Piemontesi, Piemonte in Bancarella, Il Punto, Gioventura Piemontèisa, Piazza, Dell’Orso, Priuli-Verlucca, ecc., che contribuiscono a mantenere viva la lingua Piemontese.

Gian dij Cordòla (gennaio 2013)

Pubblicato in Folclore e tradizioni, Lingua piemontese, Storia, storia Piemonte, Torino | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su Dov’è finito il piemontese

C’era una volta un gioco

 

di Monica Cordola

La mostra “così giocavano i nostri nonni” tenutasi nelle splendide sale arredate del Castello di Pralormo (TO) nei mesi di settembre ed ottobre 2012, offre una panoramica interessante dei giocattoli che hanno divertito ben quattro generazioni della famiglia Beraudo di Pralormo, dalla metà dell’’Ottocento al 1950 circa, quando ancora era il periodo d’’oro del giocattolo europeo e dell’’editoria per ragazzi del vecchio Continente.

I GIOCHI ALL’ARIA APERTA

Di seguito, alcune foto dell’’esposizione esterna di giochi nell’’antica serra francese del Castello: passatempi semplici basati sulla destrezza, sull’’agilità e sulla coordinazione dei movimenti.

Alcuni sono i giochi di oggi ma realizzati con materiali diversi.

Ecco un esempio di bicicletta che in un’’ottica di “riuso” si poteva trasformare in triciclo e viceversa.

Un tempo le ruote erano ricoperte di corda e il telaio era in legno.
Inoltre i bambini si cimentavano anche con il monopattino, introdotto all’’inizio del Novecento dagli Stati Uniti ed anch’esso realizzato in legno.

Altri giochi fatti in legno erano la trottola, provvista di un lungo cordino spesso e di cui oggi esistono molte versioni in plastica con annesso lanciatore, e gli aerei di tutte le dimensioni ovviamente privi di telecomando.

I piccoli del castello si dilettavano anche a croquet di cui tutti rammentiamo la partita giocata da Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll.

Questo sport fece parte dei Giochi olimpici nel 1900. Dal Croquet derivano il biliardo ed il golf. Il Croquet viene giocato con quattro palle, su un campo contenente sei archetti ed un picchetto centrale, detto peg. Nella foto il set completo con le palline e le mazze.

Scopo del gioco è quello di segnare dei punti facendo passare una palla colpita da una mazza sotto delle porte per due volte (prima nel giro di andata, poi in quello di ritorno) seguendo un ben determinato percorso, al termine del quale si deve colpire il peg.

La partita viene vinta da chi per primo conclude il percorso con entrambe le palle a disposizione, oppure da chi segna il maggior numero di punti in un tempo concordato. Può essere giocato in maniera individuale o a squadre.

Nelle famiglie benestanti si praticavano anche sport come il tennis, il ping pong ed il volano.

Ecco un esempio di volano con racchetta di legno e palla realizzata non di plastica come i volani odierni ma con tappo di sughero e piumaggi di uccelli.

Sull’origine dello stesso volano esiste un’ipotesi ragionevole: l’abbondanza di penne provenienti dai volatili usati come cibo avrebbe portato all’elaborazione di metodi di stoccaggio (infilzare le penne in sugheri o in gomitoli di lana) e di lì alla scoperta del nuovo gioco.

(fonte http://www.treccani.it/enciclopedia/badminton_(Enciclopedia-dello-Sport)/)

Introdotto recentemente alle Olimpiadi, il volàno o badminton è uno degli sport più diffusi al mondo (terzo sport più praticato) ed è uno tra i più veloci sport di racchetta.

Anche Shakespeare vi fa riferimento nelle sue opere teatrali e l’artista parigino Jean Chardin lo ha raffigurato nel dipinto La jeune fille au volant.

Praticato in Europa già dal Medioevo, fu presumibilmente portato in Inghilterra nel XIX secolo da alcuni ufficiali inglesi dall’’India e successivamente ribattezzato col nome di Badminton dall’’omonima località del Gloucestershire in cui era solito praticarlo il duca di Beufort nel suo castello, nel quale furono codificate le prime regole di questo gioco (shuttlecock and battledore). Si ritiene che abbia però radici molto antiche, asiatiche, dal gioco cinese “ti jian zi”.

Nella serra del Castello si può ammirare anche un Tennis Partner del 1930 per allenarsi al gioco da soli.

Ȓ di manifattura inglese con la scatola che riporta la frase “utilizzato dal principe di Galles”!

Passatempi molto comuni al tempo erano il cerchio e le bocce. Il primo, già praticato dai Greci e dai Romani, consisteva nell’’agganciare un cerchio costituito da un tondino di ferro circolare o da un cerchione di bicicletta e nel farlo correre con l’’aiuto di una bacchetta, un un’asta di metallo appositamente modellata a forma di U. Il gioco delle bocce era simile a quello praticato attualmente con la peculiarità che come bocce si usavano dei sassi rotondi.

Ai bimbi della famiglia Beraudo non mancavano le macchinine a pedali ed addirittura la riproduzione “funzionante” di un vecchio tram di legno.

I GIOCHI AL CHIUSO

Sempre all’’interno del castello di Pralormo che vanta ben 700 anni di storia continua la rassegna dei giochi “al chiuso” della famiglia Beraudo di Pralormo.

Purtroppo, non essendo consentito fotografare le stanze e gli arredi antichi del castello in cui la mostra aveva sede, vi proponiamo una visita in una galleria immaginaria alla scoperta dei giocattoli che, dalla metà dell’’Ottocento e fino agli anni precedenti la II Guerra Mondiale, divertirono lo zio dell’’attuale proprietario e finanche i nostri nonni.

Come è oggi e come è stato per noi e per i nostri nonni, i giochi avevano diversi scopi:

Giochi ad imitazione dei mestieri dei grandi

Questi giochi avevano lo scopo di ispirare la vocazione del bambino o della bambina, per il suo futuro nella gestione della casa ed anche nel lavoro, nello sport, nelle arti. Erano la rappresentazione, in una scala adatta a loro, della realtà che li circondava.

Ogni sala del castello aveva i suoi giochi in formato ridotto:

  • la stireria aveva il piccolo ferro da stiro, l’’armadio delle bambole con tanto di corredo e la macchina da cucire e i cestini da lavoro delle bambine, cui veniva insegnata fin da piccolissime l’’arte del cucito;
  • lo studio conteneva una piccola scrivania da diplomatico affiancata allo scrittoio del Ministro;
  • infine, nella cucina del Castello accanto agli attrezzi dei cuochi di casa, campeggiavano una cucina in scala ridotta, piccoli potagé in rame, la miniatura in legno di uno dei primissimi frigoriferi ed un modellino di drogheria con cassettoni apribili et etichette indicanti i vari alimenti.

Nella sala da pranzo e nell’’office, dove la padrona di casa sceglieva le porcellane per i pranzi, l’’occhio era attratto da un’’incredibile collezione di minuscoli bicchieri di cristallo, piattini di porcellana e posate dal manico di avorio e servizi da caffè e da thè decorati a mano e con scene di ispirazione romantica e trionfi floreali.

Risalgono all’’inizio del Novecento quando ogni volta che veniva prodotta una nuova collezione di ceramiche ne veniva anche realizzata la miniatura per i più piccoli di casa.

La porcellana era stata portata in Europa dai primi intraprendenti mercanti europei al ritorno dalle terre lontane della Cina insieme a sete pregiate e spezie.

La fabbrica di Meissen in Sassonia entra in attività nel 1710 e poi dopo di essa le fabbriche europee, tra le quali quella Viennese, quella del veneziano Francesco Vezzi, quelle Toscane, la fabbrica borbonica di Capodimonte, nel 1743 la Real Fabbrica Ferdinandea in Spagna e la manifattura francese di Sèvres.

Da quel momento una grande produzione di zuppiere, vassoi, piatti di varie dimensioni, antipastiere, teiere, servizi da caffè, pannelli decorativi per pareti e da ultimo, ma non meno importante, la fabbricazione di miniature.

Oltre a ciò, case e mobili in miniatura: i bimbi del Castello vantavano le miniature di una locanda, di un negozio di fiori, di un’aula scolastica.

Al padre dell’’attuale proprietario fu donata anche una palestra in miniatura, di fattura viennese.

Ȓ davvero commuovente la lettera che accompagnava tale regalo in cui l’’adulto spiega al bambino che, come il cavallino di legno da lui ricevuto a suo tempo in dono fu d’ispirazione per una folgorante carriera sportiva culminata nelle Olimpiadi del 1924, così si augurava che la palestra potesse essere di vocazione per il piccolo destinatario per eccellere negli sport.

Giochi di stimolo alla fantasia

Giochi che ricreavano un mondo immaginario: il kit del piccolo prestigiatore, il teatrino delle marionette e la lanterna magica.

Giochi di società

Nel grande salone si potevano ammirare i giochi dell’’oca, il gioco del “15” di legno, il primo “Monopoli”, il domino e tanti altri giochi da tavolo come le tombole antiche con schede molto colorate e decorate.

Costruzioni

Incredibili e dettagliatissime costruzioni, sia di legno che in veri e propri mattoni, uno dei primi Meccano (del 1912), il N° 6 con i pezzi ancora nichelati. Solo nel 1926, infatti, venticinquesimo anniversario del brevetto, il suo inventore Hornby introdusse il Meccano a colori. Il Meccano è il nome di un set per la costruzione di modellini, costituito originariamente da barrette metalliche perforate, viti, dadi e bulloni che permette la
costruzione di modellini funzionanti e di apparecchi meccanici. Gli unici attrezzi necessari per montare e smontare i modellini erano chiavi e cacciavite. Nel corso degli anni successivi, il prodotto è stato più volte riprogettato. Attualmente è in commercio una versione di Meccano basata su componentistica di plastica, destinata a bambini in età prescolare.

Il Meccano nel corso del Novecento ebbe così tanto successo che tra il 1916 e il 1963 venne pure pubblicata la rivista Meccano Magazine (fonte Wikipedia).

Strumenti di apprendimento

Pallottolieri ed abbecedari ma anche un’’interessante sezione di libri per l’’infanzia, in francese, tedesco ed inglese, perché molte volte a scegliere i libri per i piccoli delle famiglie ricche erano le bambinaie di nazionalità straniera.

Le edizioni ottocentesche delle pubblicazioni per bambini erano di grande formato, illustrate da grandi artisti con un tratto delicatissimo, anche se privi di colore, mentre negli anni ’30 del Novecento, diventano in voga semplici strisce piegate che raccontavano storie con disegni semplici e poche righe di filastrocca.

Infatti, nel novecento nascono i giornalini e negli anni trenta vengono pubblicate le prime collane rivolte ai lettori più piccoli.

Bambole e trenini

Bambole di porcellana bisquit, una casa di bambole ed uno chalet di Biancaneve già siglato Disney.
Tra tutte spiccava la bambola “Elena” accompagnata da un corredo degno di una principessa, così chiamata in onore della Regina Elena che la donò nel 1911 alla figlia della marchesa Incisa della Rocchetta, sua dama di corte.

Nel grande salone una bella esposizione di trenini. I più antichi erano ad orologeria ed erano molto curati persino negli interni e nel dettaglio dei materiali trasportati dai vagoni.

In particolare per gli appassionati di modellismo era esposta una collezione di modelli di treni in scala HO della Hornby e della Marklin, tra cui il più antico a orologeria del 1897
e altri più moderni degli anni ’30.

Bagatelle e calcio balilla

Immancabile già allora un calcio-balilla.

Infine un bagatelle, precursore del moderno flipper, consistente in un piano di gioco in sul quale i giocatori spingevano delle biglie da mandare con una piccola stecca in delle buche evitando degli ostacoli, rappresentati da numerosi chiodi piantati sulla tavola stessa.

La versione esposta era già dotata di un pistone a molla, che faceva si che le biglie venissero lanciate sul piano di gioco non più manualmente, bensì meccanicamente.

Il Bagatelle fu un gioco di biglie popolare in Francia durante il regno di Luigi XIV. Il gioco prese il nome dallo Château de Bagatelle, che era la piccola residenza del Duca Filippo, fratello minore del Re e grande appassionato di giochi e scommesse.

Intorno al 1830 giochi di Bagatelle di dimensione paragonabile a quella di un moderno tavolo da biliardo, si diffusero in tutta Europa e negli Stati Uniti come mezzo di
intrattenimento in alberghi, taverne, e stazioni di rifornimento per diligenze.

Fu proprio in questo periodo che i fabbricanti iniziarono a produrre anche versioni del Bagatelle in miniatura, commercializzate come gioco da tavolo per bambini.

La manifattura dei giochi dei nonni

Di questi giocattoli colpisce l’’origine artigianale, l’’attenzione al dettaglio, l’’uso di materiali che oggi sarebbero definiti “green”, come il legno, la fantasia dei progettisti, le soluzioni semplici ma meccanicamente molto avanzate, i colori raffinati e la robustezza.

Pubblicato in Arte e cultura, c'era una volta, curiosità, Folclore e tradizioni, Gioco e spettacolo, storia Piemonte, Torino | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su C’era una volta un gioco

Benvenuti in Planet Cordola

fondo 5e

Benvenuti nel sito dei CORDOLA del Coindo (Couindou in Francoprovenzale) di Condove (Torino), creato non per ricercare chissà quale avo di origine nobiliare, bensì con l’intento di dare a tutti i componenti di questa grande famiglia ed amici la possibilità di conoscere l’origine e il significato del cognome, la vita e i luoghi delle varie generazioni che ci hanno preceduto e consultare la discendenza da cui proveniamo. Dobbiamo ricordare che ogni famiglia, anche la più modesta, ha alle sue spalle una lunga storia di fatti, località e personaggi, che la rendono unica, indipendentemente dalle sue condizioni economiche e sociali. Nella società moderna, dominata da tutto ciò che è “effimero”, la conoscenza delle origini può consentire a ciascuno di noi di recuperare la propria identità e di uscire dall’anonimato, ritrovando qualcosa che è veramente “certo” ed esclusivamente “nostro”. Una migliore conoscenza del nostro passato ci permette, inoltre, di comprendere meglio il presente in cui viviamo e di prefigurare il nostro futuro. Naturalmente le informazioni presenti in queste pagine non riguardano solo la nostra famiglia ma tutti i Cordola di Condove e del mondo ed anche altre famiglie Condovesi (Pautasso, Pettigiani e tante altre) e non hanno la pretesa di essere esaustive ma suscettibili di approfondimenti e variazioni sulla base di segnalazioni e documenti che i visitatori vorranno farci pervenire (info@cordola.it).

PS – Alcune pagine sono scritte interamente od in parte nella lingua piemontese, nel caso si abbia qualche difficoltà a leggere, consultate prima le regole di pronuncia nel file PDF sottostante:

Ommi, ma mi sai pa lese ël piemontèis

PIEMONTÈIS

Bin-ëvnù ant ël sit dij Cordòla dël Coindo ‘d Condòve (Turin) fàit nen për arsërché chissà qual antich përsonagi d’orìgin nobijar, ma contut con l’idèja ‘d dé a tuti ij component ëd costa granda famija e a j’amis la possibilità ‘d conòsse l’orìgin e ‘l significà dël cognòm, la vita dle generassion ch’a l’han precedùne e consulté la dissendensa dont i vnisoma ant l’arbre ‘d famija. I dovoma arcordé che ògni famija, fin-a la pì modesta e cita a l’ha a le spale na longa stòria ‘d fàit, pais, borgà e përsonagi ch’a la fan ùnica. Ant la società dël di d’ancheuj, dominà da tut lòn ch’a dura pòch, la conossensa dle orìgin a peul giuté ognidun ëd noi a dëscheurve la pròpia identità e a seurte da l’anonimà artrovand quaicòs ch’a l’é ‘n efet “ver”, “sicur” e “nòst”. Na pì bon-a conossensa dël nòst passà ‘n fà capì mej ‘l present che i vivoma e vëdde pì ciàir ant ël nòst avnì. Naturalment le notissie che i trovereve ‘n coste pàgine anteresso nen mach la nòsta famija ma tuti ij Cordòla ‘d Condòve e dël mond anter ëdcò àutre famije Condovèise e a peulo esse cambià sla base ‘d segnalassion e document che ij visitator i voran mandene (info@cordola.it).

PS – Quàiche pàgina, come costa-si, a l’é scrita an piemontèis la nòsta bela lenga, se i l’eve dificoltà a lese vardé prima le régole ‘d pronunsia ant ël file PDF:

Ommi, ma mi sai pa lese ël piemontèis

LOU PATOIS A MODA ‘D NOS (FRANCOPROUVENSAL)

Benvounù ddìns à la pàdjina prinsipàl “cordola.it”; ihe oy trouvèt ancou na treudissioùn viva, prèssioussa, è toute el blassès d’in moundou rustic ma pa pardou, vou menoun aou Couindou, na tchita bourdzà dzeuri Coundove boutaa à la dréita dou Sieisi an Valadda d Suza, à la meizoun di Courdola. Ma ou parlèn co dle bourdzà dou Lieut, Papoutrii e Motse. Tanti ancourd, ancourd d’àouti ten qu’ou fant rivìvri lou nòstou passà. Vairi vir nou seun seuntù dìri que a vait fàri ténsioùn à li coustùm, seurquén aloùra an toute el manére d tinì da couìnt han que li viéyi ou n’ont dounà, la fiereusi d’ési difereunt e la djòi d vìvri, parlà e scrìri à mòda d nos e d moustàlou à fàri co à li nosti meinà.

(Benvenuti nella homepage cordola.it; qui si trova ancora una tradizione viva, preziosa e tutte le bellezze di un mondo rustico ma non perduto. Vi porto al Coindo, una piccola borgata sopra Condove situata alla destra del Torrente Sessi in Valle di Susa, alla casa dei Cordola. Ma si parla anche delle borgate di Laietto, Pratobotrile e Mocchie.Tanti ricordi, ricordi di altri tempi che fan rivivere il nostro passato. Quante volte ci siamo sentiti dire che bisogna rispettare gli usi e tradizioni, cerchiamo allora con ogni mezzo di conservare ciò che i nostri vecchi ci hanno lasciato, la fierezza di essere differenti e la voglia di vivere, parlare e scrivere a nostro modo e di insegnarlo ai nostri figli.)

FRANÇAIS

Bienvenus dans le site des CORDOLA du Coindo de Condove (TO), n’est pas créé pour rechercher quelques ancêtres d’origine nobiliaire, mais pour donner à tous les composants de cette grande famille et amis la possibilité de connaître l’origine et le sens du nom de famille, la vie des différentes générations qu’ils nous ont précédés et consulter l’origine d’où nous venons. Nous devons rappeler que chaque famille, aussi la plus modeste, a à ses épaules une longue histoire de faits, localité et personnages, que la rende unique, indépendamment de ses conditions économiques et sociales. Dans la société moderne, dominée par tout ce qu’il est “éphémère”, la connaissance des origines peut consentir à chacun de récupérer la propre identité et de sortir de l’anonymat, en retrouvant quelque chose qui est vraiment “sûre” et exclusivement “notre.” Une meilleure connaissance de notre passé nous permet, en outre, de comprendre mieux le présent dans lequel nous vivons et de préfigurer notre avenir. Naturellement les renseignements présents dans cettes pages ne pas concernent seulement notre famille mais tous les Cordola de Condove et du monde et aussi autres familles Condovesi et ne a pas la prétention d’être exhaustives mais susceptibles d’approfondissements et variations sur la base de communications et documents que les visiteurs voudront nous faire parvenir, info@cordola.it.

PS – Quelques pages sont écrites entièrement ou en partie dans la langue piémontaise, dans le cas on ait quelques difficultés à lire, vous consultez premier les règles de prononciation dans le file PDF sous-jacent:

Ommi, ma mi sai pa lese ël piemontèis

ENGLISH

Welcome into the site of the CORDOLAs of the Coindo of Condove (Torino Italy), created not to seek some ancestors of noble origin, but on the contrary with the intent to give to all the components of this great family and friends the possibility to know the origin and the meaning of the last name CORDOLA, the life of the various generations that have preceded us and the possibility to consult the progeny and the family tree. We must remember that every family, also the most modest, has behind her a long history of facts, places and characters, that makes her unique, independently from her economic and social conditions. In the modern society, dominated by what is “ephemeral”, the knowledge of the origins is the way to to recover our own identity and to go out of the anonymity, finding again something that is really “certain” and exclusively “our.” A better knowledge of our past allows us, besides, to understand better the present in which we live and to prefigure our future. Of course, the information in these pages don’t concern only our family but they are about all the Cordolas of Condove and of the world and also other families Condovesi and they don’t claim to be exhaustive, instead they are susceptible of examinations and changes on the basis of comments and documents that the visitors will want to provide us (info@cordola.it).

PS – Some pages are entirely or partly written in Piedmontese language, if it’s to difficult to read, you can consult the pronunciation rules of the underlying PDF file:

Ommi, ma mi sai pa lese ël piemontèis

 ESPANOL

Bienvenidos al sitio de los CORDOLA del Coindo de Condove (TO), creado no para buscar antepasados de origen nobiliario, sino con la intención de ofrecer a todos los miembros y amigos de esta gran familia la posibilidad de conocer el origen y el significado del apellido, la vida de las muchas generaciones que nos han precedido y consultar la descendencia de la cual provenimos. Tenemos que recordar que cada familia, hasta la más modesta, tiene sobre sus hombros una larga historia de hechos, localidades y personajes, que la hacen única, independientemente de sus condiciones económicas y sociales. En la sociedad moderna, dominada por todo lo que es “efímero”, el conocimiento de los orígenes puede permitir a cada uno de nosotros de  recobrar la propia identidad y de salir del anonimato, hallando algo que es realmente “cierto” y exclusivamente “nuestro”. Mayores conocimientos de nuestro pasado nos permiten también comprender mejor el presente en que vivimos e imaginar nuestro futuro. Naturalmente las informaciones presentes en estas páginas no conciernen sólo nuestra familia sino todos los Cordola de Condove y del mundo, y también otras familias condovesas (Pautasso, Pettigiani, etc.). No pretenden ser exhaustivas sino susceptibles de ser corregidas y aumentadas gracias a indicaciones y documentos que los visitantes pudieran hacer llegar, (info@cordola.it).

PD – Algunas páginas están escritas completa o parcialmente en lengua piamontesa. En caso de tener dificultades para leerlas, pueden consultar primero las reglas de pronunciación en el archivo PDF indicado más abajo:

Ommi, ma mi sai pa lese ël piemontèis

Pubblicato in Arte e cultura, c'era una volta, cognomi, condove, curiosità, Enogastronomia, Folclore e tradizioni, Frassinere, Genealogia, Gioco e spettacolo, Laietto, leggende, Lingua piemontese, mestieri, mocchie, Montagna Valle Susa, Storia, storia di famiglia, storia Piemonte, Torino | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Benvenuti in Planet Cordola