Significato di “Bòja fàuss”

Potremmo definire “bòja fàuss” come un’esclamazione di stretta origine piemontese, una specie di imprecazione, di stupore o di rabbia. Insomma dire “bòja fàuss” è come dire porca miseria, porco cane e altro di simile….non è da considerarsi una bestemmia o un imprecazione volgare, ma un modo carino e simpatico dei piemontesi per sottolineare un emozione o un episodio un po’ particolare. L’origine di tale esclamazione ha due diverse interpretazioni.

La prima sostiene che l’esclamazione sia nata come eufemismo, per evitare di bestemmiare il nome di Dio in tempi in cui era condannato il bestemmiare in pubblico, quindi si è sostituita una parola per convenienza o decenza e non incorrere nella trasgressione di leggi civili o notificazioni religiose. Con bòja fàuss” si evitava di bestemmiare il nome di Dio proclamandolo falso e si spostava l’oggetto della maledizione dal nome di Dio a quello di una persona, o meglio di un mestiere, considerato spregevole da tutto il popolo, quello del boia. Stesso discorso vale per l’esclamazione “porca miseria”, non certo nata in concomitanza con un periodo di carestia, ma un’esclamazione nata per eufemismo, per evitare di bestemmiare il nome della Madonna (sostituito da “miseria”).

notificazione 1750

La seconda è più cara al Piemontese che impreca dicendo “bòia fàuss”, o si lamenta perché costretto ad andare “an sla forca”. Il boia per il piemontese è falso (fàuss) e se deve indicare un luogo lontano dice che è “sulla forca” (an sla forca) e questi due modi di dire hanno origini dalla storia popolare del Piemonte.

Tutto iniziò ai tempi delle esecuzioni capitali a Torino. Il luogo dove iniziò questa storia fu “ël rondò dla forca” il nome del quale, come facilmente comprensibile, deriva dal fatto che sino al 1853 vi si tenevano le pubbliche impiccagioni. In quel periodo temporale, l’attuale Rondò della Forca (in una carta di Torino del 1865 era chiamato Circolo di Valdocco) era un vasto slargo, che poteva quindi ospitare molti spettatori, circondato da grandi pini che rendevano l’ambiente sufficientemente buio e tetro. Tutto intorno prati, fossi, pozze e poche case. Il luogo fu scelto perché relativamente vicino alle carceri che a quei tempi erano nella attuale via Corte d’Appello. Le condanne a morte venivano eseguite mediante la forca, installata di volta in volta. Dopo un mesto tragitto dalle carceri, giungeva qui la carretta con il condannato, confortato da un sacerdote ed accompagnato da una scorta armata e dalla Confraternita della Misericordia.

Carta di Torino del 1865

Carta di Torino del 1865

In epoca napoleonica in piazza Carlina, che allora, ironia della sorte, si chiamava ancora “Place de la Liberté”, funzionava invece la ghigliottina, mentre i roghi e gli squartamenti avvenivano nelle piazze San Carlo e Castello. Bisogna dire che la pratica dell’impiccagione fu abolita dal ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Zanardelli nel 1889, ma che fino ad allora i Boia, pur essendo dei funzionari ufficialmente designati per eseguire le sentenze di morte dei condannati, non godevano della stima dei propri concittadini e , anche se ben pagati, facevano una vita solitaria e di scherno.

Il popolo non poteva accettare che il Boia guadagnasse denaro dall’uccisione di altri uomini, per questo i Torinesi lo battezzarono “Fàuss”. Al numero 2 di via Bonelli abitava Piero Pantoni, l’ultimo boia di Torino, diverse esecuzioni a carico e una moglie che per la vergogna non usciva mai di casa. La vicina chiesa di Sant’Agostino era detta la “chiesa del boia”, in quanto nei suoi pressi vi venivano sepolti i condannati a morte e i detenuti defunti in carcere.

Gian dij Cordòla

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Significato di “Bogianen”

“Bogianen”, è la somma di “bogia nen” (si pronuncia bugianén) in italiano letteralmente “non ti muovere”, è un soprannome popolare dato ai piemontesi e che si riferisce a un temperamento caparbio, capace di affrontare le difficoltà con fermezza e determinazione spesso confusa con una traduzione letterale che si riferirebbe invece a una presunta passività troppo succube e prudente.

Battaglia dell'Assietta

Battaglia dell’Assietta

L’espressione ebbe origine dalle gesta dei soldati sabaudi durante la battaglia dell’Assietta, un significativo episodio della Guerra di successione austriaca. Non sono in molti a conoscere questa vicenda che ha poi ufficialmente coniato il termine “bogianen”. Era il 19 luglio 1747 ed era in corso la Guerra di successione austriaca che vedeva schierati la Baviera, la Prussia, la Francia e la Spagna contro l’Austria, la Gran Bretagna, l’Olanda e la Savoia. In quell’anno i Francesi e gli Spagnoli decisero di sferrare l’attacco a Carlo Emanuele III. Non riuscendo a sfondare dalla Costa Azzurra, dove gli Spagnoli si fermarono poco dopo Nizza grazie alla resistenza dei piemontesi, i Francesi decisero di tentare passando attraverso la Val di Susa e la Val Chisone. Non a caso Carlo Emanuele III aveva fortificato le due valli rispettivamente con il forte di Exilles e il forte di Fenestrelle. L’unica via di passaggio non fortificata restava il Colle dell’Assietta. In poco tempo Carlo Emanuele III fece erigere piccole opere di difesa sull’Assietta e sul Grand Serin, dove operava il Comandante Generale Conte di Bricherasio, che si rivelarono la chiave di successo della vittoria grazie all’eroica resistenza dei piemontesi. Nel pomeriggio del 19 luglio comincia la battaglia.

Le cronache parlano di una sfida impari che vede i Francesi in forte soprannumero, il che suggerisce al Generale Conte Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, comandante supremo in campo, di far ripiegare le truppe sul Grand Serin, posizione ritenuta più difendibile. L’ordine viene però respinto per ben tre volte dal Comandante del Primo Reggimento Guardie Tenente Colonnello Paolo Novarina Conte di San Sebastiano che conduceva le operazioni sull’Assietta, e sembra accompagni il rifiuto con la frase: “Noiàutri da sì i bogioma nen” (Noi non ci muoviamo da qui). I sergenti dell’esercito piemontese nell’imminenza di subire l’attacco avversario incitano i soldati in prima linea ricordando loro l’eroismo degli avi e ordinando “Bogeve nen, nèh!” (Non muovetevi, eh!). Con il calare della notte si concluse la battaglia, vinta dai Piemontesi: migliaia furono le perdite francesi (circa 5600), contro poche decine di unità dell’esercito piemontese (circa 192). L’eco della vittoria risuonò nei più importanti ambienti militari europei, tanto che il Re di Prussia, nemico in quel frangente del Regno Sardo, commentò così il valore dei soldati sardo-piemontesi: “Se Noi disponessimo di un esercito di tale valore, conquisteremmo l’Europa”.

Al di là della veridicità storica della frase che la tradizione attribuisce dal Conte di San Sebastiano, resta l’atto di coraggio e l’eroismo patriottico dimostrato dalle truppe piemontesi, che veramente hanno meritato l’aggettivo “bogianen” inteso nel suo significato più alto e nobile. Il vocabolo “bogianen” fu subito adottato come soprannome dei soldati piemontesi, e poi della popolazione stessa, assumendo, a poco a poco, l’accezione peggiorativa che si prende gioco di una sua presunta passività, eccessiva prudenza e refrattarietà ai cambiamenti, senza tuttavia disconoscere l’irreprensibilità e la caparbietà con la quale sa affrontare le situazioni difficili.

Gian dij Cordòla (scrit ant ël 2014)

 

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Significato di “Tòta”

(I termini racchiusi da virgolette alte doppie ed in corsivo sono in lingua piemontese)

“Cerea tòta”, un saluto carino e galante nella lingua piemontese, poco usato oggi ma molto in voga sino agli anni 50 del secolo scorso. “Cerea”, è usato e abusato nelle scenette comiche, ma è un saluto formale usato quando ci si dà del lei. Purtroppo non si usa quasi più. Deriva da un’antica parola che significava «vostra signoria». “Tòta” invece vuol dire signorina giovane o vecchia che sia.

Saluto piemontese

Saluto piemontese

Che origine ha “tòta”? In alcune parti del Piemonte, particolarmente nelle Langhe, si chiama “matòt” il bambino e “matòta” la bambina, nell’Astigiano i termini si sono cambiati in “mat” e “mata”. A Torino ed in bassa valle di Susa “matòt” non si usa e “matòta” perdendo la prima sillaba è diventato “tòta” e si applica non più alla bambina ma alla ragazza già fatta. Nell’Alessandrino i piccoli vengono chiamati “matòt e matòte” e le ragazza “tòte”. Pertanto sembra che il termine “tòta” non sia altro che “matòta” con perdita, per aferesi, della prima sillaba, come Pina è venuta da Giuseppina.

Tante sono le tesi sull’origine dei termini “matòt e matòta”, una di queste li fa derivare dal latino «mas» (maschio o figlio maschio) diventato “mat” ragazzo e per analogia “mata” ragazza. Da qui i vezzeggiativi “matòt e matòta”. Un’altra tesi più suggestiva fa derivare il termine “matòta” da una pratica del culto pagano osservata fino al V° secolo dalle popolazioni locali. «Mathuta» era una dea conosciuta dalle tribù alpine abitanti nel Piemonte, la sua festa si celebrava nella notte più vicina al plenilunio. In una radura delle fanciulle eseguivano una danza rituale accompagnandosi col canto ed il suono dei loro rozzi strumenti. Le giovani danzanti venivano chiamate «matute» e diventò di uso comune indicare con quel nome tutte le persone di quell’età e quel sesso. Questo avrebbe dato origine alla parola “matòta” e poi alla più breve “tòta”. Secondo alcuni studiosi questo rituale è giunto a noi con alcune tradizioni carnevalesche. In talune zone gruppi di giovani realizzano un fantoccio vestito di stracci multicolori e distesolo sopra un lenzuolo lo portano in giro per le case con canti e suoni. Entrati in una casa lo posano in mezzo alla stanza e gli ballano attorno una danza speciale. Questo fantoccio è chiamato “matotin”.

Una volta esisteva in Piemonte come dappertutto, la famiglia patriarcale. La bambina era chiamata “matòta”, appena cresciutella diventava “tòta” e rimaneva tale finché non si sposava. Sposandosi andava ad abitare con la famiglia del marito (questo succedeva nelle campagne e nelle montagne, ma non era improbabile anche in città); veniva identificata con il cognome del marito, e di conseguenza lo stesso cognome della suocera. Quest’ultima, la padrona di casa, era “madama”, per cui la nuova venuta in sub-ordine era “madamin”. Dopo una certa età la “tòta” se non si sposava, veniva magari chiamata ironicamente “toton” (non in sua presenza logicamente). Concludendo la “Madama” è una signora sposata matura, la “Madamin” è una signora sposata giovane. Il criterio di distinzione tra “madama e madamin” è il fatto se la signora in questione abbia ancora la suocera o no. Se la suocera della vostra interlocutrice ha già tirato le cuoia, allora è “madama”, altrimenti è “madamin”.

Gian dij Cordòla (scrit ant ël 2014)

 

 

 

 

 

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Condove dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

Tratto dal dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna

COMPILATO PER CURA DEL PROFESSORE GOFFREDO CASALIS NEL 1839 DOTTORE DI BELLE LETTERE

OPERA MOLTO UTILE AGLI IMPIEGATI NEI PUBBLICI E PRIVATI UFFIZI A TUTTE LE PERSONE APPLICATE AL FORO ALLA MILIZIA AL COMMERCIO E SINGOLARMENTE AGLI AMATORI DELLE COSE PATRIE

CONDOVE, capo di mandamento nella provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana; ha un uffizio di posta.

Questo luogo detto Condovis nel diploma Ottoniano del 1001, e Condoviae dal Guichenon, giace a scirocco di Susa , da cui è discosto nove miglia sulla manca sponda presso il torrente Gravio. Fu dato in feudo con titolo di contado a S. E. il conte Chiaffredo Peiretti saluzzese, primo presidente del real senato di Piemonte.

II comune è composto delle seguenti villate: Condove capoluogo , Magnoleto, Fucine superiori, Fucine inferiori, Poisatto, Rivi, Fiori e Molaretto.

Come capo di mandamento ha soggetti i luoghi di Borgone, Chiavrie, Mocchie e Frassinere.

Vi corrono, da levante, la strada provinciale per a Susa; da mezzodì una comunale che mette sulla via reale; da tramontana un’altra pure comunale che scorge a Mocchie; ed una in fine che tende a Frassinere.

La Dora Riparia vi discende a mezzodì , e divide questo territorio da quelli di Chiusa e di Vayes: la soprasta un ponte in legno costruito nel 1820 a spese del consorzio di Chiusa, Vayes , S. Antonino, Chiavrie, Condove , Frassinere e Mocchie. Quel fiume torrente bagna le terre che giacciono ad ostro dal luogo di S. Ambrogio sino alla capitale , e fornisce l’acqua necessaria per dar moto ad edifìzi meccanici dei comuni di Collegno , Pianezza , Grugliasco , e va a scaricarsi nel Po.

Il torrente Gravio discende dai balzi di Mocchie e Frassinere, divide il cantone di Poisetto dal capo luogo , e bagna le terre dei cantoni di questo comune che giacciono a ponente e levante nella pianura. Nelle sue escrescenze apporta notevoli danni ai circostanti poderi, e minaccia talvolta di atterrare le case delle borgate per ove passa.

Nella parte orientale del paese havvi un rialto sul quale si veggono avanzi di antiche trincee: nel Iato di tramontana sorge il balzo di Mocchie. Ad ostro e ponente sta la parte piana del comune.

I prodotti territoriali sono: cereali, fieno e frutta di ogni sorta, e singolarmente castagne, noci, uve e pomi.

Nel lato australe, lunghesso la Dora, allignano bene gli ontani. Sonovi due chiese, cioè la parrocchiale nel capoluogo, ed un’antica chiesetta che sta in mezzo al cimitero, distante cento trabucchi dall’abitato.

Evvi una piazza che serve ad uso del mercato, il quale si tiene nel mercoledì di ogni settimana. In Condove risiede il tribunale del mandamento. Pesi e misure di Piemonte.

Gli abitanti di Condove sono assai robusti e pacifici, ma non si distinguono per vivacità d’ingegno come quelli che stanno sui vicini balzi posti a tramontana.

Nativo di Condove è il ch. dottore in medicina Francesco Re , professore di materia medico-veterinaria, autore di vari scritti riguardanti l’arte da lui professata.

Popolazione 880 circa.

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Mocchie dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

Tratto dal dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna

COMPILATO PER CURA DEL PROFESSORE GOFFREDO CASALIS NEL 1842 DOTTORE DI BELLE LETTERE

OPERA MOLTO UTILE AGLI IMPIEGATI NEI PUBBLICI E PRIVATI UFFIZI A TUTTE LE PERSONE APPLICATE AL FORO ALLA MILIZIA AL COMMERCIO E SINGOLARMENTE AGLI AMATORI DELLE COSE PATRIE

MOCCHIE (Moccae, Moccum), comune nel mandamento di Condove, provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana, posta di Condove.

Sta in val di Susa: la sua positura è sui monti che sorgono a manca della Dora Riparia.

Questo comune che trovasi a scirocco da Susa , è composto di trentotto borgate. È distante due miglia da Condove, e undici dal capoluogo di provincia. Vi hanno parecchie strade, ma tutte anguste, tortuose , ingombre di ciottoli e in pessimo stato: una di esse valicando la somma vetta del Colombardo, accenna a Lemie ed a Viù; un’altra tende al confinante comune di Frassinere. La via più frequentata, e non più agevole delle altre, si è quella, che divallandosi ad ostro per un’ora di cammino dirigesi al capoluogo di mandamento: le altre strade servono di comunicazione tra borgata e borgata, e tra queste, e il capoluogo del comune, a cui si dà il nome particolare di villa, perchè ivi stanno la casa comunale ed il presbitèrio.

La montagna su cui sta il comune di Mocchie è considerata come una delle più fertili in val di Susa. I due torrenti, che segnano il limite al territorio, cioè il Sessi a levante, ed il Gravio a ponente, contengono molte ed eccellenti trote; e vuolsi notare che l’acqua del Gravio giova mirabilmente a fertilizzare i prati. Le principali produzioni in vegetali sono l’avena, l’orzo, le castagne e singolarmente il fieno, con che si mantiene molto bestiame , di cui sono considerabili i prodotti. I mocchiesi fanno di continuo un attivo commercio, e vendono il loro burro, i caci, le cuoja, il pollame, le uova, il selvaggiume ed i pesci in sul mercato di Condove, che si tiene nel mercoledì di ogni settimana : trasportano a Torino la legna da bruciare, il carbone, la corteccia de’ roveri, ed alquanta lana: conducono buoi, vacche, giovenche , pecore , capre e majali alle fiere di Susa , di Giaveno, di Avigliana , di Almese e di Rivoli.

Nell’estensione del territorio si rinvengono:

Rame solforato frammisto al carbonato. Della regione Cantasenile: questa miniera non fu mai coltivata.

Rame piritoso nello scisto micaceo-talcoso, bigio, traente al verde scuro. Lo strato ha una spessezza di 70 millimetri , ed è colà conosciuto sotto il nome di filone della Comba del Reno, posto nel luogo denominato Rocca della Mina. Diede in slicco il 13, 82 per 100, e questo produsse all’analisi il 2, 25 per 100 in rame, epperciò non merita di essere coltivato.

Scisto micaceo quarzoso: forma il tetto della miniera suddetta.’

Scisto talcoso: ne forma le pareti.

Titano calcareo selcioso ( sfeno ) entro la roccia talcosa. Dell’alpe della Portìa.

Tormalina nera in prismi essaedri, nel talco cloritoso.

Altre volte coltivasi una miniera d’oro sui monti, che si adergono a maestrale del comune , nella regione di Barmonsello, colà dove prende origine il torrente Gravio. Si cessò dai lavori per lungo tempo , e furono poi di bel nuovo intrapresi durante l’impero napoleonico da un sig. Garda, il quale avendola trovata ben poco produttiva , cessò ben presto da un’ ulteriore coltivazione , di cui previde un poco felice risultamento.

Mocchie ha due chiese parrocchiali: la prima dedicata a S. Saturnino, trovasi nella principale borgata: fu costruita nel 1784 su elegante disegno: è osservabile per l’elevazione dell’unica sua navata , e per la sua capacità veramente proporzionata alla numerosa popolazione , che v’interviene nei dì festivi, e massime in occasioni di particolari solennità: la sua facciata di forma semplice è di buon gusto; e fa di se bella mostra sulla vasta piazza, che le sta davanti. Questo tempio fu recentemente abbellito nell’interno di buoni dipinti.

Il cimitero giace nella prescritta distanza dalla villa, ed occupa il sito dell’antica parrocchia, di cui rimane tuttora in piedi il campanile.

L’altra parrocchiale trovasi nella borgata del Lajetto nel lato orientale del territorio, ad un’ora di cammino dalla villa: recente è l’erezione di questo rurale tempietto in parrocchia: essendo esso troppo angusto e non rispondendo alla presente sua destinazione, i parrocchiani stanno per edificarsi un’altra chiesa.

Parecchie cappelle campestri, che si trovano qua e là in questo comune, non offrono alcuna particolarità da doverne fare menzione.

Evvi un’opera pia , che distribuisce soccorsi agli indigenti; e ne sono amministratori il parroco, il sindaco e due consiglieri.

I mocchiesi sono in generale vigorosi, ben fatti nella persona, affaticanti, sobri e gioviali: attendono all’agricoltura ed alla pastorizia. Le proprietà essendovi molto divise, ognuno lavora il proprio campo e pasce il proprio armento seguendo le avite usanze.

Cenni storici. Per istrana eleganza de’ notai del secolo XI questo paese fu denominato Macue; e così vien detto in una carta del 1033 a favore del monastero di S. Giusto e in un diploma di conferma emanato da Corrado il Salico nel 1037.

Mocchie diede il nome alla vallicella, ov’essa sta, poichè era essa chiamata Vallis Moccensis: alcuni scrittori la confusero con un’ altra ben diversa vallea di somiglievol nome , a cui s’ appartiene il Mercurio Mocco , così appellato dal luogo stesso , in cui i galli veneravano quel nume, siccome appare dalla lapide illustrata dal Bimart nella sua dissertazione de Diis ignotis, inserita dal Muratori nel nuovo tesoro d’iscrizioni.

Questa terra fu già posseduta dai benedettini, che la tennero sino all’anno 1043, in cui fu eretta in parrocchia. Essi vi avevano due piccoli monasteri: uno per uomini nella borgata della Rocca; l’altro per donne in quella dei Moni.

Verso l’inferiore parte del territorio, nel sito, che appellasi tuttora il Castellazzo, esistono visibilissime le traccie di un vetusto castello, che secondo la tradizione , appartenne ad Amedeo VI di Savoja: di là una spaziosa via, di cui vari tratti si veggono ancora, diclinando fino alla pianura, comunicava coll’altro castello, ch’era eziandio posseduto dallo stesso Principe; e le cui mura perimetrali coi loro merli, torreggiano ancora sur un macigno, nel territorio di Condove , appunto là , dove si crede che fosse costruita la famosa muraglia, o chiusa, che Desiderio re dei longobardi fece innalzare contro le invadenti forze di Carlo Magno.

Nel secolo XV il paese di Mocchie era divenuto signoria dei Barali di Susa, insieme con vari altri luoghi.

Popolazione 2301

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Frassinere dal dizionario geografico storico degli stati di S. M. il Re di Sardegna

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FRASSINERE (Fraxinaria sylva) Comune nel mandamento di Condove, provincia e diocesi di Susa, divisione di Torino. Dipende dal senato di Piemonte, intendenza prefettura ipoteca di Susa, insinuazione di Avigliana, posta di Condove.

Questo luogo, di romana origine, giace a scirocco da Susa: è distante miglia otto dal capo di provincia e due da quello di mandamento. Quattro ne sono le vie comunali, tutte in pessimo stato: una tende a Mocchie; un’altra a Borgone, ed indi a Susa ; la terza scorge alla parrocchia di Maffiotto o Maffiodo; la quarta accenna alle alpi di Mocchie, a Lemie e ed Usseglio. I monti ed i poggi di Frassinere presentano molti pascoli per vario bestiame.

Il territorio è innaffiato dalle acque di un rivo denominato Gravio: produce discreta quantità segale, avena ed uve e gli abitanti nelle prospere annate, vendono il soprappiù dei loro prodotti nei borghi di Condove, di S. Antonino, e singolarmente in Susa. L’anzidetto rivo contiene trote di ottima qualità: non è valicato che da un ponte in legno malamente costrutto, che non si tragitta senza pericolo in tempo di dirotte piogge.

Tra Frassinere e Celle si trova stascisto porfiroideo con epidoto.

La parrocchia di moderna struttura è sotto l’invocazione di S. Stefano: le sta attiguo il cimitero. Il parroco ha il titolo di pievano. Nella giurisdizione di questa pievania sono molti oratorii campestri, cioè S. Lucia, S. Michele , S. Rocco, S. Antonio da Padova, S.Sebastiano, S. Giovanni Battista; la SS. Trinità. La prima sta nella borgata dei Colombatti, distante circa cento metri dalla parrocchia; la seconda è nella villata di Vianand , lontana un miglio e mezzo, ad ostro, dal capoluogo; la terza sorge nel sito che chiamasi delle Mollette, a più di un miglio, verso levante, dalla parrocchia; la quarta è in Val Gravio, verso mezzodì, alla distanza d’un miglio e mezzo dalla chiesa parrocchiale ; la quinta trovasi nella borgata dei Reni inferiori, anche ad ostro dalla parrocchia, e a un miglio e mezzo da essa ; la sesta sorge nella borgata dei Reni superiori, anche a mezzodì dal capoluogo, e da esso distante miglia due; alla settima lontana più di due miglia dalla parrocchia vanno’ processionalmente gli abitanti del comune nel giorno della festa della SS. Triade, e in occasione di pubbliche calamita per implorare di esserne liberati.

Nella villata di Maffiotto, lontana tre miglia dal capoluogo, evvi una chiesa sotto il titolo di S. Grato, già vicecura della pievania di Frassinere, ed ora eretta in parrocchiale assoluta ed indipendente. Il parroco vi ha il titolo di curato.

Pesi e misure di Piemonte: monete dei regii stati. Gli abitanti sono robusti, applicati al lavoro ed al traffico, ed assai costumati. Frassinere fu già feudo dell’abazia di S. Giusto.

Popolazione 1442

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Condove – Il mercato settimanale

 Tratto da “La Dora” Torino 1861 di Giuseppe Regaldi (Varallo 1809 – Bologna 1883) libro in prosa in cui illustra geograficamente e storicamente terre da lui percorse. La parte di Condove si trova nel capitolo terzo da Susa al Pirchiriano al punto XIX.

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Come Sant’Antonino divenne allegro ed agiato provvedendo alla pubblica salute, così il vicino paese di Condove, a sinistra della Dora, crebbe in prosperità col suo mercato del mercoledì, il più frequente di commercio in Val dì Susa. Una volta i montanari dalle ville circostanti, colle loro patate, i latticini, la segale, le castagne e frutta e derrate di ogni specie, scendevano la sera del mercoledì in Condove per avviarsi nel giorno seguente di buon mattino al florido mercato di Avigliana. La sera, ragionando quivi delle loro faccende, iniziavano e talvolta terminavano i loro negozi, onde a poco a poco si conobbe che il mercato aviglianese del giovedì si faceva per buona parte nella sera antecedente in Condove. Pertanto venne quivi sancito il mercato di mercoledì, al quale aggiunse eziandio importanza la via nuova che dalla strada provinciale mette al paese. Un sereno mercoledì d’autunno mi aggirai sotto i portici e per le vie liete di commercio e stipate di popolo che danno manifesto indizio della nuova vita di Condove. Passai fra panieri di patate e di castagne, e sacchi di segale addossati l’uno all’altro, fra alte pertiche uncinate, da cui pendevano nastri di ogni colore, fra tavolati carichi di tele e di sete sotto tende sorrette da pali, e in mezzo all’affaccendarsi di chi va e di chi viene, di chi vende e di chi compera, incontrai, presso una fontana, su d’un carro, un nuovo Dulcamara, un uomo di strane sembianze, che, schiamazzando con rauca voce, traea intorno a sé la moltitudine e raccomandava i suoi cerotti, i suoi rimedi per tutti i malanni del mondo; e frattanto sul vicino prato, a pochi passi dalla chiesetta del cimitero, un povero cieco cantava i miracoli d’una Madonna e vendeva pie canzoncine. Così ciascuno spacciava la sua merce nel mercato di Condove, ed io scriveva la mia pagina.

Stanco di urti e di schiamazzi, a tramontana del paese salii il poggio di Molaretto (che non va confuso con quello del Moncenisio) e quivi dalla casa del capitano Perodo, che mi è stato assai cortese, ho goduto d’incantevole vista. Fertili e vasti piani, e monti verdeggianti di vigneti e di selve mi stavano d’intorno, e a ponente le giogaie delle Alpi nell’estremo orizzonte biancheggiavano di nevi. Il monte che attirava maggiormente il mio sguardo era a sud-est, il Pirchiriano. Su la cima v’ha la Sagra di San Michele, alle falde le Chiuse de’ Longobardi. Quante memorie di religione e di guerra si accolgono intorno a quel monte, aspro a chi lo guarda, sublime a chi lo medita!

(Giuseppe Regaldi)

 

 

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I Pautasso di Carignano (TO)

In Piemonte, quando si vuole indicare un cognome che indichi una sicura estrazione contadina e una famiglia di poca importanza, si utilizza talora il cognome Pautasso. Si tratta in realtà di un luogo comune, non sempre giustificato. A Carignano, la famiglia ebbe, tra quelle del popolo, una certa importanza.

La famiglia aveva numerosissimi esponenti in Carignano già nel XVI secolo; Francesco partecipò nel 1553 ad una riunione di capi di casa (si dicevano capi di casa coloro che possedevano beni e potevano amministrarli liberamente), Saluto era tra i capi di casa nel 1559 e nel 1562, Bartolomeo, Gianmichele, Matteo, Giuseppe e Giovanni erano tra i capi di casa nel 1559. I seguenti possedevano beni in Carignano nel 1585: Pietro, Saluto, Stefano, Antonio, Bartolomeo, Giovanni, Giovanni di Antonio, Manfredo, Tommaso, Vitto, altro Pietro, Giò Antonio, Antonio e Michele (cugini), Baldesardo, Luca, Giò Michele, Nicolò e Desiderio (fratelli) nonché altri non specificati eredi di Bartolomeo, di Battistina e di Tommaso. Antonio, Domenico, Luca, Michele, Giacomo e Tommaso (alcuni dei quali si possono probabilmente identificare con omonimi personaggi precitati) erano tra i capi di casa nel 1562.

Nel 1612 alla riunione dei capi di casa parteciparono Francesco di Giovanni, Francesco, altro Francesco, altro Francesco ancora (si può legittimamente pensare che essi siano nipoti di quel Francesco che fu capo di casa nel 1553, vale a dire figli di vari suoi figli, in quanto era in quei tempi in uso – abbastanza rispettato – di dare ai figli, in genere ai primogeniti, il nome del nonno), Tommaso, Bartolomeo, Giovanni Antonio, Stefano, Pietro, Battista, Giacomo, Antonio, altro Antonio, Desiderio ed altro Pietro.

Il 4 febbraio 1624 parteciparono ad una riunione dei particolari (termine equivalente a capi di casa) i seguenti rappresentanti della famiglia: Antonio, figlio di Michele (si tratta forse di quel Michele che partecipò alla riunione dei capi di casa del 1562), Cristoforo, Ludovico, Francesco, figli del fu Giovanni Antonio (si tratta probabilmente dell’omonimo che partecipò all’assemblea del 1612).

Nel 1635 un Nicolao partecipò ad un’assemblea di particolari. Michele era “Carabina” nella Milizia ordinaria di Carignano nel 1637. Sebastiano fu consigliere comunale nella seconda metà del XVII secolo. Carlo Francesco era nel 1707 Priore della Confraternità del Santissimo Rosario. Michele era nel 1760 cappellano della piccola chiesa della Chà, nei pressi di Carignano, di proprietà dei conti di Larisse. Simone Antonio era nel 1773 Rettore della Confraternità dello Spirito Santo, fu inoltre direttore dell’Ospizio di Carità di Carignano. Antonio era nel 1775 cappellano della chiesa di San Martino che officiava per conto del preposito Giovanni Battista Robesto. Bartolomeo fu uno dei promotori della cappella della Madonna della Speranza. Giuseppe fu consigliere comunale aggiunto dal 1797. È lui probabilmente quel Giuseppe, dottore, che, intorno al 1835, lasciò alla chiesa della Misericordia duemila lire. Francesco, fuciliere del 64° reggimento di linea dell’armata napoleonica, morì nel 1810 nell’ospedale di Bayonne (Bassi Pirenei). I seguenti furono consiglieri comunali nell’ottocento: Giuseppe Antonio, Michele e Cesare. Michele, medico, fu consigliere comunale e, nel secondo semestre del 1795, venne nominato sindaco. Un G….. Pautasso, medico, scrisse una storia del monastero di Santa Chiara di Carignano. Un caporale Pautasso, di cui non è noto il nome, tenne un diario di guerra riguardante le campagne del 1859 che è conservato nell’archivio comunale di Carignano.

Tratto dalla rubrica “Genealogia e storia” della rivista “ël caval ‘d brons” numero 1 del Gennaio 1984 curata da Gustavo Mola di Nomaglio

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Gianduja

La vera storia di Gianduja (Giandoja ‘n lenga piemontèisa)

Gianduja è nato burattino, ma presto è divenuto maschera per assumere in seguito la veste di simbolo di Torino, del Piemonte e nel Risorgimento del sentimento unitario del popolo italiano. Vediamo in breve la sua storia. Gianduja ha più di due secoli di vita e per ritrovare le sue radici bisogna tornare indietro fino agli ultimi anni del ‘700.

A Torino, lavorava in piazza Castello un burattinaio all’epoca famoso, si chiamava Umberto Biancamano, ma per tutti era Gioanin dij osej. La tradizione vuole che fosse originario di Callianetto. Il burattino protagonista dei suoi lazzi comici era Gerolamo, “Gironi” in piemontese. In quegli stessi anni era a servizio a Torino il giovane Giovan Battista Sales, che imparata l’arte burattinaia proprio da Gioanin dij osej, parte da Torino in cerca di fortuna, essendo la “piazza” torinese già occupata dal maestro. Lo ritroviamo a Genova in società con un burattinaio di Racconigi tal Bellone. La città in quel periodo era sotto l’influenza francese. Infatti Napoleone, che aveva ristabilito la repubblica, aveva eletto il doge: Gerolamo Durazzo. Per Sales e Bellone che muovono un burattino che si chiama proprio Gerolamo, doveva essere stato un invito a nozze: dentro le baracche dei burattinai è sempre entrata la satira politica. Espulsi da Genova, Sales e Bellone per evitare di avere noie con la giustizia, furono costretti a cambiare il nome al protagonista dei loro spettacoli che da Gerolamo diventò Gioann con tricorno, codino e dotato di parlantina beffeggiante; la caratteristica di avere sempre con se la doja, un boccale di terracotta per bere il vino lo fece soprannominare “Gioann dla doja”, pur conservando le caratteristiche di Gerolamo, e così continuarono le recite nei centri minori.

Sales e Bellone sono ormai talmente padroni del mestiere da ideare spettacoli per essere rappresentati non nelle piazze, ma in teatri chiusi. Ritornano a Torino senza il timore di concorrenza. Siamo nel 1807, la maschera che muovono i due burattinai è di nuovo Gerolamo: è una scelta conveniente, perché Gironi è fortemente attestato in città grazie alla memoria di Gioanin dij osej. Ma proprio in quello stesso anno, il fratello minore di Napoleone, Gerolamo, viene incoronato re di Westfalia: pronunciare in teatro il nome di Gerolamo diventa nuovamente rischioso, troppo facilmente si può incappare nell’allusione caricaturale. E infatti in occasione di una rappresentazione l’intervento della polizia non si fa attendere e le conseguenze si annunciano pesanti. Sales chiede protezione alla potente famiglia in cui aveva servito da ragazzo, i conti Amico, e questi indirizzano i due burattinai a dei nobili di Castell’Alfero, i cui possedimenti comprendono proprio Callianetto, all’epoca ricca di boschi e quindi luogo ideale per rifugiarvisi.

In quell’ambiente verranno definite meglio le caratteristiche di Gioann dla doja (appellativo che presto fu condensato in Gianduja) e dal loro rifugio di Callianetto, in quello che da allora in poi sarà indicato come il Ciabòt ‘d Gianduja, Sales e Bellone decideranno di sostituire con la nuova maschera il troppo rischioso Gerolamo. Nasce cosi Gianduja, che nel suo nome ha la doja, il boccale, ma la sua nascita lambisce quella della coccarda tricolore che orgogliosamente farà, in seguito, sfoggio sul suo tricorno, dato che di lì a poco, Gianduja, sarà destinato a diventare una dei principali simboli del Risorgimento. Sales e Bellone tornano quindi a Torino nel 1808, e in un locale di via Dora grossa (l’odierna via Garibaldi) con la commedia “Le 99 disgrazie di Gianduja” presentano ufficialmente la nuova maschera al pubblico della capitale sabauda. I trionfi si susseguono e Gianduja giunge ad incarnare il più autentico spirito del popolo piemontese.

Dopo l’unità d’Italia, con la conseguente perdita della capitale da parte di Torino, Gianduja diventa l’emblema dei risorti carnevali torinesi. La sua immagine, si lega allora a quella del vino e delle varie galuperie dolciarie, quali il torrone e soprattutto il cioccolato, in linea con il nuovo ruolo di Torino, non più capitale politica, ma capitale manifatturiera.

Gianduja è furbo, coraggioso, magari finto tonto all’occasione, ma con ben chiaro in testa che cosa vuole, ha la faccia rotonda e pacioccona, la capigliatura raccolta in un codino girato all’insù con fiocco rosso, un neo sotto un occhio e sulla fronte dalla parte sinistra e naso un po’ rosso,il cappello a tricorno, il vestito è composto da una giubba color marrone bordata di rosso, il panciotto è giallo, i pantaloni verdi e lunghi sino al ginocchio, le calze sono rosse e le scarpe hanno una fibbia in ottone. La sua compagna è Giacometta, vestita con un abito rosso ed un grembiule bianco, un foulard verde al collo, un cappello legato con un nastro rosso, calze nere e scarpe chiare.

Le maschere torinesi

In quegli anni Gianduja comincia ad impersonare per gli italiani il Piemonte: è una maschera libera e democratica, non ha bisogno né di sottintesi né di inchinarsi ai padroni. Parla francamente e schietto al suo re. E’ la rappresentazione di un popolo, mentre le altre maschere non ne sono che la caricatura; più di una maschera egli è dunque un carattere. L’anima e il cuore di Torino continuano a pulsare sotto la giubba di Gianduja ed anno dopo anno il suo viso sorridente ed ottimista illumina la festa del Carnevale torinese ed è presente a commentare con la sua pungente bonomia i fatti più importanti della storia e del costume italiano, almeno fino al 1893. Si ha poi un lungo periodo di eclissi in cui Gianduja è una presenza occasionale e sempre meno incisiva e significativa . Nel maggio del 1925 nasce la Famija Turinèisa e con essa la maschera di Gianduja riprende la fila della tradizione risorgimentale ed ottocentesca. Nel 1957 nasce l’Associassion Piemontèisa – Compagnia Città di Torino per le tradizioni popolari piemontesi per iniziativa di Andrea Flamini che tuttora la dirige. Ha portato in Italia e all’estero sempre vestito come Gianduja, il folklore piemontese, facendone conoscere gli aspetti e le espressioni più autentiche.

Carnevale di Torino 2013 – Gianduja rappresentato da Andrea Flamini dell’Associassion Piemontèisa

Gian dij Cordòla (marzo 2013)

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Il carnevale di Laietto

LOU CARLEVÉ DOU LIEUT in francoprovenzale

ËL CARLEVÉ DËL LAJET in piemontese

Il carnevale di Laietto è una delle più rappresentative e particolari manifestazioni del folclore alpino francoprovenzale. Si svolge a Laietto una frazione montana del Comune di Condove in Valle di Susa. Questo carnevale aveva nel passato due momenti distinti: le “Dëspresie” o le “Busaje” e le “Barbuire”. Si cominciava il giorno dell’Epifania, alternativamente si eseguiva una delle prime due, ovvero un anno si facevano “Le Dëspresie” (i dispetti) e l’anno successivo “Le Busaje”.

“Le Dëspresie” erano una serie di piccoli furti, che venivano praticati nella notte antecedente la festività da parte dei giovani del paese. Venivano asportati fuori dalle case, balle di paglia, scale di legno, pantaloni o altri indumenti stesi ad asciugare, falci, zappe o rastrelli, tutto andava bene. Ma la cosa non finiva male perché l’indomani mattina tutto quanto era stato “preso in prestito” sarebbe stato restituito ai legittimi proprietari depositandolo sul piazzale antistante la chiesa e le vittime di questi scherzi dovevano andare a cercarsi il loro maltolto senza poter scatenare le loro ire contro gli ignoti colpevoli e sottostare all’ironia comunitaria.

“Le Busaje” erano invece una pubblica presa in giro che si svolgeva, sempre sul piazzale della chiesa di Laietto alla fine della messa grande dell’Epifania, un corteo chiassoso costituito da giovani mascherati sommariamente con mantelli e cappellacci, al suono di strumenti improvvisati, attendeva i giovani uomini e le donne nubili all’uscita della funzione religiosa per unirli a caso in matrimonio, deridendoli e apostrofandoli con canti, lazzi, filastrocche e battute anche licenziose. I giovani, che si burlavano pure fra di loro, declamavano i loro versi sotto ad un grande ombrello mentre un’altro teneva in mano un grosso cero acceso. Al termine delle letture tutti i biglietti con le satire venivano bruciati pubblicamente al fine di non lasciare traccia di quanto detto e far scomparire ogni malizia con una risata nel nome del carnevale.

Il vero carnevale aveva luogo alla domenica grassa, ossia quella precedente le Ceneri, con protagoniste le “Barbuire”, ambigui personaggi mascherati che si dividono nel gruppo dei belli – il Monsù e la Tòta (il Signore e la Signora), i due Arlecchini con le maschere bianche e il cappello delle fate, il Dottore e il Soldato – e dei brutti – il Pajasso, che indossa corna di mucca e porta appeso ad una gamba un campanaccio che risuona ad ogni passo, e le coppie di Vecchi e Vecchie. Il rito si basa proprio sul Pajasso, che porta con sé un bastone alla cui sommità è legato un gallo: questo personaggio e le coppie di Vecchi si divertono a spaventare i borghigiani e a far scherzi, soprattutto alle ragazze, vere destinatarie della festa. Il corteo delle Barbuire, accompagnato dalla banda musicale, si snoda per le viuzze di Laietto e raggiunge un prato dove si vedono gli Arlecchini, Monsù e Tòta ballare al ritmo della musica della banda, mentre Pajasso e Vecchi continuano le loro scorribande. Entrano poi in scena Dottore e Soldato, che corrono in soccorso delle Barbuire stremate, per somministrare loro una potente medicina: cicchetti di vino e grappa fatti in casa. La rievocazione si chiude con il Pajasso che taglia la testa del gallo – che nel frattempo è stato appeso ad un pero in mezzo al prato – decretando la morte del Carnevale, la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, in un rituale di fecondità e prosperità per l’anno nuovo.

Il pajasso

Gianni Cordola

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